Da ulivisti.it
Cinque errori da correggere
di Franco Monaco
7 Maggio 2008
Settimana prossima, nel PD, si comincerà a discutere in forma meno rapsodica dei risultati elettorali. È convocato infatti il Coordinamento nazionale del partito, un organo che grossomodo corrisponde alla sua direzione politica. Su una premessa dovrebbero essere tutti d’accordo: no a una resa di conti autolesionistica, no a un processo a Veltroni, che pure ha condotto la campagna elettorale con un alto grado di autonomia (autonomia ricercata e volentieri concessagli dall’intero gruppo dirigente sia per la natura stessa delle campagne elettorali, sia perché la marcata personalizzazione è stata da tutti giustamente interpretata come una risorsa per il PD); ma no anche alle minimizzazioni e agli esorcismi, a fronte di una sconfitta cocente e di grandi proporzioni. Non solo una sconfitta elettorale, che ci poteva stare, che, francamente, era messa nel conto, ma una sconfitta politica di portata strategica che costringe a ripensare in radice profilo e missione del PD. Una sconfitta politica che si concreta in due elementi: 1) il PD non è riuscito nell’impresa di fare breccia al centro, alla sua destra, che era il cuore della strategia veltroniana, e, per converso, la Sinistra arcobaleno, dalla quale ci si era separati consensualmente nella logica della “divisione del lavoro” e della rappresentanza, è invece scomparsa dal parlamento; 2) a consuntivo, il campo del centrosinistra ha registrato sia una divisione strategica che una contrazione quantitativa. Sia chiaro: la Sinistra arcobaleno meritava una lezione, è cosa buona e giusta che il suo gruppo dirigente – un ceto politico autoreferenziale – sia stato mandato a casa. Ma quella sensibilità sociale e politica merita una rappresentanza e il PD, con essa, ancorché dialetticamente, non può non interloquire.
A modo di promemoria, isolo cinque questioni sulle quali, a mio avviso, il PD dovrà interrogarsi.
Prima questione: la dissociazione del PD dal governo Prodi e la sua rassegnazione a subire acriticamente la campagna denigratoria orchestrata dall’opposizione è stata forse ingiusta ma di sicuro vana. Il governo Prodi non si risolveva nella persona del premier. L’intero gruppo dirigente del PD ne rappresentava la struttura portante. Berlusconi ha avuto buon gioco nel rimarcarlo. Forse sarebbe stato più onesto e più utile rivendicare senza timidezze le cose buone che pure il governo ha fatto: risanamento, liberalizzazioni, protocollo welfare, europeismo e missioni internazionali.
Secondo: la conclamata vocazione maggioritaria del PD rischia di risolversi nel suo contrario, cioè in una vocazione minoritaria, a motivo di una protestata autosufficienza che conduce a sicura sconfitta. La vocazione maggioritaria non esclude ma, all’opposto, implica un’attitudine coalizionale. La presunzione di autosufficienza, celebrata dagli opinionisti e persino da avversari non innocenti (penso all’entusiasmo di Giuliano Ferrara), conduce a un partito dipinto come bello, bellissimo nel suo splendido isolamento, ma votato alla sconfitta.
Terzo problema: l’eccezione di alleanze non riconducibili a un filo di coerenza. La teoria dell’ ”andiamo da soli” aveva una sua forza e una sua suggestione, magari nel quadro di una sconfitta programmata ma anche di un limpido investimento sul futuro. Poi però si è fatta eccezione con Di Pietro, un alleato tra i meno affini, che puntualmente si è sganciato un minuto dopo il voto. Per converso si è chiuso ermeticamente ai Socialisti, la forza palesemente più vicina dal punto di vista politico e programmatico, che aveva il torto (sic!) di esibire la sigla socialista fuori dal PD e dunque di evocare il passato degli ex PCI. Infine, con i Radicali, si è siglato un patto ancora diverso: l’ospitalità di candidature nelle liste del PD. Soluzione doppiamente discutibile: sia perché, cancellando il logo dei Radicali, l’operazione non ha portato un valore aggiunto, sia perché, a dispetto delle intenzioni minimaliste, si è trasmesso il messaggio di un inquinamento del profilo e della proposta del PD presso un elettorato cattolico moderato rifluito sull’Udc. Meglio sarebbe stata una limpida alleanza politico-elettorale con un soggetto esterno e distinto, alla stessa stregua dell’Idv. Delle due l’una: o stretta coerenza con il proposito di correre soli e liberi o un PD, secondo l’ispirazione ulivista, inteso quale motore e timone di un quadro di alleanze politicamente e programmaticamente omogenee (con Socialisti, Radicali, Idv e magari Sinistra democratica spinta controvoglia tra le braccia di Bertinotti). Non si è seguita né l’una né l’altra via.
Quarto: il PD ha scontato un processo costituente incompiuto. Le leadership personali, ancorché brillanti, non bastano. La Lega insegna. Si richiede un partito degno di questo nome, un interlocuzione stabile e strutturata con la società da parte di un organismo collettivo vivente. La composizione delle liste, con in testa nomi specchietto e, a seguire, la burocrazia di partito, sta a testimoniare un ritardo che si è pagato.
Quinta questione: un deficit di “antiberlusconismo democratico”. Un’ espressione mutuata, per analogia, dalla categoria storiografica dell’”anticomunismo democratico”. C’è un antiberlusconismo ideologico da rigettare, ma c’è anche un antiberlusconismo positivo che si nutre della consapevolezza della peculiarità-anomalia di Berlusconi per i moduli di una moderna democrazia liberale. Così l’antiberlusconismo grossier se lo è intestato tutto Di Pietro. Lo ha osservato criticamente Sartori, a fronte di un irenismo che ha assunto accenti un po’ grotteschi con la cura ossessiva di non pronunciare il nome di Berlusconi. Salvo, l’ultima settimana, evocare le minacce alla legalità repubblicana con la lettera di Veltroni al Cavaliere e da lui respinta con studiato sdegno.
È solo un promemoria, ma da un confronto franco e serrato su di esso il PD può e deve riprendere il cammino. Anche per cominciare ad esistere come soggetto collettivo dotato di sedi nelle quali si possa finalmente discutere. Ma per discutere sul serio si devono evitare i due opposti tatticismi che già fanno capolino: quello di chi, dichiarando che la leadership non è in discussione, in realtà mira a commissariarla ripristinando vecchi schemi oligarchici e quello di chi propone il congresso domani per stroncare una discussione collettiva che presuppone tempi, regole e procedure meno concitati.
* Il testo è pubblicato anche su Il Riformista del 7 maggio 2008