Torniamo a noi

Torniamo a noi - cioè a mettiamo da parte la glorificazione di Famiglia Cristiana, che semplicemente sottolinea un'evidenza, e parliamo in prima persona secondo i criteri che ci appartengono.
Tra l'altro, anche la discussione sull'editoriale di FC, come ogni altro discorso, si ammoscia immediatamente su velenosi personalismi, secondo un costume ormai dilagante sulla stampa e sulla scena politica italiane: chi è chi ha scritto che cosa, quali erano le sue abitudini giovanili, quanti soldi ha preso dalla pubblicità della coca-cola, quanto spende per mantenersi una colf filippina, etc.
Noi, nel forum, facciamo un figurone, limitandoci a spaccare il capello in quattro su problemi filologici, che saranno pure un po' strampalati ma una certa dignità ce l'hanno - se non altro perché le "parole" conservano sempre un legame con una qualche sostanza, una realtà.
Infatti il "fascismo" di cui ha parlato FC - caro Lucameni - non è solo una parola, abusata o meno, cortese o scortese che sia, ma un problema reale: reale comunque, il problema, sia per chi pensa che esista un riflusso fascista, sia per chi pensa che non esista.
Famiglia Cristiana ha fatto i suoi esempi, Scalfari nei suoi editoriali più recenti ne ha fatti altri, qua e là si sono alzate specifiche bandierine nere di allarme, e io stesso - nel mio piccolo - ho fatto le mie esemplificazioni su che cosa dobbiamo giudicare in odore di fascismo, tanto per non discutere sulla parola in sè, ma su un'eventuale sostanza.
Una persona a me vicina, che ha molto viaggiato, mi diceva qualche tempo fa che nel passato era sempre assai contenta quando varcava la frontiera, di ritorno da qualche paese straniero: un senso di familiarità, certamente, ma anche un senso di libertà, di tranquillità, di "amichevolezza" di persone e cose.
Non avrei nemmeno dato importanza a questa testimonianza, e tanto meno la riporterei qui, se la persona in questione fosse uno di quegli italiani rumorosi, anarchici e cafoni, che per 2libertà" intendono distruggere i fiori nei giordini, buttare le lattine per strada e sgommare col rosso ai semafori: questa persona è un tipo tranquillissimo, perfino timido e assolutamente legalista.
Adesso questa persona non riconosce più questo paese: livoroso, xenofobo, proibizionista, incattivito nel linguaggio e negli atteggiamenti, bigotto e violento.
Leggo che l'Iindipendent, giornale inglese, mette in guardia i lettori: se qualcosa è divertente, in Italia sta diventando proibita.
Una critica del genere - beffarda, com'è giusto - è preoccupante, se viene dall'Inghilterra, che di leggi e leggine occhiute ne ha da sempre sospese sulla testa dei sudditi di Sua Maestà.
Ma come si fa a ignorare, e a trovare normali, ordinanze e regolamentazioni come quelle che sindaci, ministri e assessori di questo governo s'inventano ogni giorno, nell'intento di "dare una ripulita" al decoro urbano?
Sono certo, anzi certissimo, che anche tra noi sono molti quelli che una o l'altra di queste ordinanze sono disposti ad apprezzarla. Ci sarebbe da discutere, ma non è comunque questo il punto.
Il fatto è che - nel loro insieme, e ancora di più nel loro principio ispiratore - queste sono pulsioni paternalistiche: nel migliore dei casi, vorrebbero ridurre a "legge", ciò che dovrebbe semmai essere "buona educazione".
Quando la buona educazione, o i sentimenti privati, diventano materia di polizia o di governo, non tita una buona aria. Sicuramente non tira un'aria democratica: lasciamo alla libera interpretazione di ciascuno se sia un'aria fascistoide o no.
Teniamo tuttavia presente che non stiamo parlando di fascismo come regime istituzionale, o come generatore di guerre coloniali: parliamo di un riflusso culturale, una "pubblica opinione" (come la definisce oggi Scalfari), in un contesto che non offre (ancora) l'occasione di manifestarsi in malefatte più massicce e inequivocabili.
Con ciò, torno all'argomento che mi è più caro - amaramente caro: la necessità e la natura di un'opposizione.
Che dev'essere sì parlamentare, ma soprattutto culturale e informativa. E' qui, sul piano della cultura, della comunicazione, della "pubblica opinione", che abbiamo perso la battaglia: niente di nuovo, per altro, perché prima di perdere politicamente, si perde sempre culturalmente.
Tra l'altro, anche la discussione sull'editoriale di FC, come ogni altro discorso, si ammoscia immediatamente su velenosi personalismi, secondo un costume ormai dilagante sulla stampa e sulla scena politica italiane: chi è chi ha scritto che cosa, quali erano le sue abitudini giovanili, quanti soldi ha preso dalla pubblicità della coca-cola, quanto spende per mantenersi una colf filippina, etc.
Noi, nel forum, facciamo un figurone, limitandoci a spaccare il capello in quattro su problemi filologici, che saranno pure un po' strampalati ma una certa dignità ce l'hanno - se non altro perché le "parole" conservano sempre un legame con una qualche sostanza, una realtà.
Infatti il "fascismo" di cui ha parlato FC - caro Lucameni - non è solo una parola, abusata o meno, cortese o scortese che sia, ma un problema reale: reale comunque, il problema, sia per chi pensa che esista un riflusso fascista, sia per chi pensa che non esista.
Famiglia Cristiana ha fatto i suoi esempi, Scalfari nei suoi editoriali più recenti ne ha fatti altri, qua e là si sono alzate specifiche bandierine nere di allarme, e io stesso - nel mio piccolo - ho fatto le mie esemplificazioni su che cosa dobbiamo giudicare in odore di fascismo, tanto per non discutere sulla parola in sè, ma su un'eventuale sostanza.
Una persona a me vicina, che ha molto viaggiato, mi diceva qualche tempo fa che nel passato era sempre assai contenta quando varcava la frontiera, di ritorno da qualche paese straniero: un senso di familiarità, certamente, ma anche un senso di libertà, di tranquillità, di "amichevolezza" di persone e cose.
Non avrei nemmeno dato importanza a questa testimonianza, e tanto meno la riporterei qui, se la persona in questione fosse uno di quegli italiani rumorosi, anarchici e cafoni, che per 2libertà" intendono distruggere i fiori nei giordini, buttare le lattine per strada e sgommare col rosso ai semafori: questa persona è un tipo tranquillissimo, perfino timido e assolutamente legalista.
Adesso questa persona non riconosce più questo paese: livoroso, xenofobo, proibizionista, incattivito nel linguaggio e negli atteggiamenti, bigotto e violento.
Leggo che l'Iindipendent, giornale inglese, mette in guardia i lettori: se qualcosa è divertente, in Italia sta diventando proibita.
Una critica del genere - beffarda, com'è giusto - è preoccupante, se viene dall'Inghilterra, che di leggi e leggine occhiute ne ha da sempre sospese sulla testa dei sudditi di Sua Maestà.
Ma come si fa a ignorare, e a trovare normali, ordinanze e regolamentazioni come quelle che sindaci, ministri e assessori di questo governo s'inventano ogni giorno, nell'intento di "dare una ripulita" al decoro urbano?
Sono certo, anzi certissimo, che anche tra noi sono molti quelli che una o l'altra di queste ordinanze sono disposti ad apprezzarla. Ci sarebbe da discutere, ma non è comunque questo il punto.
Il fatto è che - nel loro insieme, e ancora di più nel loro principio ispiratore - queste sono pulsioni paternalistiche: nel migliore dei casi, vorrebbero ridurre a "legge", ciò che dovrebbe semmai essere "buona educazione".
Quando la buona educazione, o i sentimenti privati, diventano materia di polizia o di governo, non tita una buona aria. Sicuramente non tira un'aria democratica: lasciamo alla libera interpretazione di ciascuno se sia un'aria fascistoide o no.
Teniamo tuttavia presente che non stiamo parlando di fascismo come regime istituzionale, o come generatore di guerre coloniali: parliamo di un riflusso culturale, una "pubblica opinione" (come la definisce oggi Scalfari), in un contesto che non offre (ancora) l'occasione di manifestarsi in malefatte più massicce e inequivocabili.
Con ciò, torno all'argomento che mi è più caro - amaramente caro: la necessità e la natura di un'opposizione.
Che dev'essere sì parlamentare, ma soprattutto culturale e informativa. E' qui, sul piano della cultura, della comunicazione, della "pubblica opinione", che abbiamo perso la battaglia: niente di nuovo, per altro, perché prima di perdere politicamente, si perde sempre culturalmente.