Quindici anni fa c'è stata Tangentopoli.
Dopo decenni di denunce, e di una consapevolezza diffusa, circa il malaffare che correva tra imprese e politica e settori della P.A., locali e nazionali, finalmente scoppiò il sozzo bubbone: prove, confessioni, uomini un attimo prima potenti alla sbarra, che facevano i nomi dei complici.
Piazza pulita? Macché: piazza sì, con tutto ciò che di brutto riserva la piazza, ma niente fu davvero ripulito, e tutto rimase come prima.
Anzi no: la vera vittima di quella stagione, ossia ciò che non rimase uguale, fu la speranza di cambiamento, cioè quella cosa in apparenza così idealistica eppure così necessaria ad un minimo di decenza democratica che fa credere che "forse un giorno, quando quello che sappiamo sarà finalmente dimostrato al di là di ogni dubbio, forse un giorno ci sarà giustizia", o comunque fa credere a ciascuno qualcosa di simile, aiutandolo a dare un senso alla parola "politica" e al proprio eventuale impegno di cittadino - alle proprie parole, alle discussioni, ai faticosi ragionamenti che presuppongono un mondo migliore in contrasto con una realtà crudele, che dura tutta una vita.
Da allora, da quella stagione di disillusione, è scaturito un senso ineluttabile di vanità, che ha tolto "forza al cuore e calore al ragionamento", nonostante un grande viavai retorico centrato sul rinnovamento, sulla nuova politica, e sullo scoppiettare di nuovi partiti che saltellavano fuori come pop-corn.
Intere partite di parole, pacchi di concetti e di idee sono transitati nella più definitiva delle macerazioni: l'indifferenza, o meglio l'afasia, la perdita di senso. Questa è, in effetti, la sorte delle rivoluzioni mancate.
Pochi anni fa, una seconda "rivoluzione" si è prospettata, assai simile alla prima, sebbene inerente un settore meno fondamentale, eppure così carico di valori culturali di massa che lo assimilano per molti versi alla politica.
Parliamo, ovviamente, di Calciopoli.
Anche qui: una consapevolezza antica e diffusa sul malaffare, sui maneggi di traffichini senza scrupoli, su uno sport che non è più sport, su antichi padronati e consolidate sudditanze, così come una vecchia politica non era più politica ma comitato d'affari. Una consapevolezza diffusa che finalmente veniva confermata per tabulas.
Piazza pulita? Macchè. Poca piazza, e tanto meno pulita. Tutto è rimasto come prima.
Anzi no: anche qui la vittima è stata la speranza, e con essa la perdita di senso delle parole, la voglia non solo di pronunciarle, ma anche solo di pensarle.
Si è insomma certificato che immaginare uno sport che sia uno sport, e non un comitato d'affari, è una roba da "anime belle", da illusi e da perditempo.
Se prima il cinismo e l'opportunismo - e l'affarismo - erano trionfanti, ma tutto sommato un peccato da nascondere, sia pure dietro un pallido velo, adesso erano diventati la regola, se non una virtù.
Le malefatte continuano, ma nessuno ha più la voglia, o la forza, di denunciare, di lottare, o anche soltanto di continuare a pronunciare quelle parole da "anima bella" che dàanno un senso all'esistenza stessa di una competizione sportiva.
I tutti questi anni, in definitiva, è scomparsa l'opposizione.
Non tanto, e non solo, quella istituzionale o parlamentare, che può essere fatta bene o male, essere più o meno rumorosa, ma che in fondo è una questione di ruoli - una parte assegnata.
E' scomparsa - o meglio, è scomparso il senso, la possibilità stessa di un'opposizione, nella società, nella cultura diffusa, nella comunicazione.
Quando certe parole, certi valori non trovano un seguito, ossia non trovano il modo di diventare "cosa", di incidere nella realtà, nessuno ci crede più, nessuno li sente più come protagonisti: non importa se protagonisti vincenti o perdenti, perché il ruolo dell'opposizione non è quello di inventarsi una vittoria fasulla, dopo una sconfitta, ma di far rimanere protagonisti quei valori e quelle idee che, ovviamente, non sono rappresentati da chi ha vinto.
Per quanto riguarda la politica, vale la pena fare un esempio per tutti, il più semplice da citare: dopo anni ei quali si era combattuto contro la malformazione culturale, e di sistema, delle Tv commerciali, che senso ha avuto dichiarare che Mediaset "è una grande risorsa del nostro paese"? Dichiarare questo e, naturalmente, comportarsi di conseguenza.
Personalmente, per quel che vale, non ho più voglia di ragionare, discutere, analizzare. Non si tratta di un rifiuto a freddo, di una volontà in negativo, sdegnosa, che ha l'intento di offendere polemicamente qualcuno o qualcosa.
Si tratta in realtà di una scomparsa del significato: afasia, le parole e i pensieri riesco bene a formularli, ma mi sembrano privi di senso, e io per primo ne provo una stanca nausea, come se fossero un gioco inutile.
A che serve discutere di politica, e di varia umanità sociale, e "a chi" serve?
Dov'è un partito, un'istituzione, un'associazione di persone nella quale i nostri pensieri riescono a confluire, avendo la parvenza di qualche efficacia, una reazione, una risposta?.
Se mi sforzo, riesco pure ad accozare un feticcio, un "quelo" che mi posa illudere - magari aiutato da un certo impegno di esegesi documentale.
Ma lo so che è uno sforzo, nel quale in fondo m'invento un partito che non c'è, al solo scopo di continuare nel mio gioco di "buon cittadino che collabora".
I peccati peggiori, quelli che anche nella nostra vita è più difficile perdonare, non riguardano ciò che abbiamo fatto di sbagliato, ma ciò che non abbiamo fatto. Le omissioni. Il vuoto. La rinuncia all'opposizione e all'obiezione di coscienza.
E dio solo sa se, in questo periodo, ci sono mille e mille ragioni per fare una ferma (feroce?) opposizione ad un ancien regime di ritorno.
pdm