Bologna e le dimissioni del sindaco. Il cantautore: «Delbono non doveva andarsene»
Dalla: «Qui ci vuole Prodi.Questa è una città depressa»
«So che intende fare il professore, ma lui è l’uomo giusto»BOLOGNA — Il bolognese più famoso al mondo sta preparando la sua casa, a un passo da san Petronio, per accogliere Mimmo Paladino, Luigi Ontani e altri amici scultori e pittori, in arrivo qui per Artefiera. La scrivania del suo studio ha un abbaino che dà sui tetti di Bologna, dove da ragazzo gli capitava di passare intere notti, come i gatti, «a sentire il profumo dei mangiari, i discorsi della gente, i rumori della città».
Lucio Dalla, cosa dice la città?«Che qui ci vuole Romano Prodi. È un’idea che non è venuta solo a me. I bolognesi lo vogliono. Io l’ho sempre stimato, e soprattutto lo stima la gente. Prodi è stato un buon presidente del Consiglio; sarebbe un buon sindaco».
Lui fa sapere di non pensarci neanche.«Temo anch’io che questa sia la sua attitudine, che voglia fare il professore, l’uomo che pensa. Però, al punto in cui siamo, o spunta fuori un giovane che ci sorprende, oppure Prodi è l’uomo giusto. Fare il sindaco è un mestiere difficilissimo, molto più che il politico. Per affrontare una realtà fluttuante come una città, per giunta in crisi, ci vuole una personalità fuori dall’ordinario: esperta, decisa, coraggiosa. Uno che "senta" Bologna».
Lei come «sente» oggi Bologna?«Depressa, per la consapevolezza di non essere più la città di un tempo. Non si compiace neppure più di quel che rappresenta nell’immaginario italiano: la città dotta, grassa, godereccia. Non è più capitale culturale; infatti i concerti e le mostre importanti la "saltano". A parte Artefiera, tutto è dimesso. Fané. La vicenda Delbono è grave proprio perché destabilizza una situazione già impoverita dalla scarsità di energia sociale e politica ».
Come valuta il quinquennio di Cofferati?«Non ha lasciato il segno, ma non mi sento di incolpare lui. Al di là del giudizio sull’uomo, Cofferati ha avuto il coraggio di scelte che non hanno giovato alla sua popolarità ma neppure intaccato la sua coerenza. Io ho lavorato con lui, come avevo fatto con Guazzaloca e stavo facendo con Delbono—le regie al teatro comunale, l’impegno per Bologna capitale Unesco della musica—perché posso permettermi di non essere pagato e perché amo la mia città. Il concerto di due anni fa è stato l’ultimo sussulto. Patti Smith venne in ricordo del suo concerto trionfale del ’78. C’erano anche Renato Zero e la Nannini, che a Bologna hanno casa, come Biagio Antonacci e Antonio Albanese, l’attore. Vengono, si fermano qualche giorno, hanno l’impressione di ritrovare l’effervescenza di un tempo. Poi si rendono conto che non è così, e ripartono».
Che idea si è fatto del caso Delbono?
«Non ho alcuna informazione specifica, ma mi pare sbagliato dimettersi per una vicenda del genere. Il sindaco sta pagando molto cara una leggerezza. La gente non sa spiegarselo: tutti parlano di un gesto di sensibilità, di dignità; ma, se Delbono è stato indotto a un passo così grave, è possibile che dietro ci sia qualcosa di più importante. La risposta ce la darà il tempo, e la magistratura. Comunque su di lui non ho cambiato idea. Non lo conosco nel profondo. Abbiamo pranzato insieme, emi è parsa una persona deliziosa, che aveva iniziato con il passo giusto. Ora siamo senza sindaco. Ammiro Firenze, che ha trovato in Matteo Renzi un giovane di sicuro avvenire».
L’addio di Delbono segna la fine di un sistema già intaccato dalla sconfitta del ’99 e dalle difficoltà di Cofferati?«Più che la fine di un sistema, vedo la crisi della città. Un declino che comincia da lontano, dai giorni duri del ’77, quando si passò dall’esplosione degli Anni Sessanta all’implosione. Prima, il comunismo bolognese era integrità. La gente ci credeva. La classe operaia coltivava una visione utopica, coniugata però con le esigenze dell’amministrazione: le scuole, lo sviluppo, le cooperative, l’università; e le banche tedesche stringevano accordi con la finanza locale. Un’utopia quotidiana. Che si autocelebrava in piazza Maggiore, sempre piena, sempre colorata di bandiere rosse. Poi, con la violenza, i carri armati nelle strade, la rottura tra le due sinistre — quella al potere e quella di piazza —, qualcosa si è perso per sempre. Non era solo uno scontro generazionale, tra i giovani e la struttura del partito; era la fine di uno schema politico che aveva retto per decenni».
In questi giorni è stato citato spesso il verso di una sua canzone, «nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino», per indicare una città- famiglia.«Una città che non esiste più. Il centro di Bologna era davvero una comunità, luogo di discussioni pubbliche, di capannelli, di pazzi: i famosi pazzi di Bologna. Poi c’era il liceo Galvani, dov’erano passati Pasolini, Roberto Roversi, Volponi, Alfonso Gatto: scrivevano talmente bene che i professori non riuscivano a dare i voti ai loro temi, avevano inventato il 12 e anche il 13. Un luogo leggendario per la letteratura. Oggi Bologna non è più una città-famiglia, dalla bonomia intelligente. Resta straordinaria per certi aspetti, ad esempio gli investimenti sul sociale. Ma è disorientata. Produce sempre meno idee. Vive un senso quasi di panico, certo di disillusione».
Bersani come le sembra?«In tv lo vedo deciso, ragionevole, comprensibile. Uno che non ha nulla da nascondere. Però sono contento per Vendola, che ha infranto regole e ordini superiori per seguire il proprio destino».
A Bologna non sarebbe meglio l’alternanza? Com’è la destra locale?«Non sono dentro queste cose. Ma considero inutili gli steccati, gli schieramenti; mi sta a cuore la città. A Lampedusa ho conosciuto la senatrice leghista, Angela Maraventano, e mi ha colpito il fatto che sia eletta qui a Bologna. La tendenza si fa sempre più evidente: gli operai sono i nuovi migranti delle idee, e stanno lasciando in massa la sinistra per la Lega».
Aldo Cazzullo
29 gennaio 2010
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“Il segreto della FELICITÀ è la LIBERTÀ. E il segreto della Libertà è il CORAGGIO” (Tucidide, V secolo a.C. )
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