" LE GIUSTE RAGIONI DEL NO ALLA PIAZZA
Il rinnegato Bersani
Ha fatto benissimo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani a tenere il suo partito, almeno ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione viola », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di internet », «un miracolo italiano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fine decretata della seconda repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle colonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un anno fa, per esempio, Veltroni radunò al Circo Massimo almeno il doppio dei manifestanti di domenica: e cosa è cambiato? Nulla. Sei mesi dopo, anzi, dovette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci vengono regolarmente annunciati ogni sei mesi, tutte le volte che qualche folla, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi altrettanto regolarmente non avvengono mai. Segnala solo il principale problema politico del Partito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria autonoma identità e dunque una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giustamente detto Bersani — la via migliore non può essere certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo concorrente.
I termini della questione sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare almeno una parte dell'elettorato di centro; ma poiché è ovvio che questo elettorato rifiuta in genere ogni massimalismo, ne consegue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la propria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria decisa avversione verso l'antiberlusconismo parossistico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice penale e i tribunali siano l'alfa e l'omega di ogni opposizione. In tutti gli altri Paesi avviene così senza problemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto avversario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tutt’altra questione), in Francia i socialisti non aderiscono certo alle manifestazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, invece, sembra che non possa accadere lo stesso?
La risposta è che nell'infinita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue successive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettorato di quella parte ha visto progressivamente disgregarsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale riconoscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.
Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».
Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?
Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro.
Ernesto Galli della Loggia
07 dicembre 2009"
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"Galli della Rosica
di Marco Travaglio
Come se il Pd non riuscisse a farsi abbastanza male da solo, Galli della Loggia gli dà una mano. Ieri toccava a lui smentire la campagna pubblicitaria che reclamizza l’indipendenza del Pompiere della Sera e ha centrato l’obiettivo. Parlava del No B. Day che, essendo perfettamente riuscito, gli ha rovinato il weekend lungo.
Sperava in una parola di troppo, in una lattina di cocacola fuori posto, in una cartaccia per terra a cui appigliarsi per chiamare la pula e schedare i manifestanti come terroristi, brigatisti, jihadisti, talebani. Invece niente, manco una sbavatura. Così, dopo una giornata trascorsa a rosicare nella sua biblioteca di incunaboli, ha riversato la sua bile in quattro colonne di piombo intitolate “Il rinnegato Bersani. Le giuste ragioni del No alla piazza”.
Poteva dire subito la verità e sbrigarsela in poche righe: “Caro Bersani, noi berlusconiani travestiti da terzisti indipendenti siamo molto preoccupati: Silviuzzo sta andando a sbattere. I mafiosi han pure ricominciato a parlare, naturalmente di lui e di Dell’Utri (e di chi, se no?). Noi, che abbiamo sempre finto di non sapere definendo lui ‘statista’ e Dell’Utri ‘bibliofilo’, siamo in ambasce. Se non gli date un’altra mano voi del Pd, ci tocca inventarci un altro travestimento”.
Ma un discorso così franco sarebbe poco terzista, poco indipendente: tutti capirebbero tutto. Ecco allora Galli nonché Della Loggia inerpicarsi sull’alta politologia a base di “opposizionismo”, “massimalismo”, “radicalismo giustizialista”, “volontà di essere comunque contro” e spiegare quelle centinaia di migliaia di giovani cittadini in piazza non con la crescente vergogna di essere rappresentati da un gaglioffo rifatto, delirante e plurimputato, ma con “l’infinita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo”, con la “sinistra trotzkista”, col “venir meno della tradizione comunista” e “leninista”: roba che i ragazzi di facebook e dei blog non sanno nemmeno cosa sia.
Sono gente semplice, contemporanea e – non avendo mai avuto la fortuna di leggere Galli della Loggia – lucida.
Pensano che, per opporsi a Berlusconi, si debba opporsi a Berlusconi.
Non riescono a cogliere, diversamente dal politologo da pantofola, i valori del “dialogo”, del “compromesso”, dell'“accordo”, né tantomeno dell’“opposizione ragionata”. E quando qualcuno domanda loro col ditino alzato “ma allora voi siete contro?”, rispondono banalmente: “Sì, perché?”.
Non riescono a essere contro ma anche pro. Contro ma solo un po’.
Del resto, non hanno mai sentito di paesi dove l’opposizione sia pro.
E quando leggono che un Galli della Loggia o un Polli del Balcone suggerisce al Pd di non opporsi a Berlusconi, ma a Di Pietro (“marcare la propria distanza da Di Pietro”, “sottolineare la propria decisa avversione all’antiberlusconismo”), chiamano l’ambulanza.
Se poi il politologo chiede al Pd di “dare una spiegazione vera e plausibile alla fine ambigua della Prima Repubblica”, rispondono serafici: “Ma non sono caduti perché rubavano?”.
E se lui s’interroga pensoso sulle ragioni profonde della “comparsa di Berlusconi”, replicano candidi: “Ma non stava finendo in galera pure lui?”.
Galli della Loggia comunque non parla ai cittadini: mai conosciuti.
Parla al Pd, nella speranza che – dopo aver perso per strada milioni di elettori e mezza dozzina di leader e quadruplicato i voti a Di Pietro seguendo i consigli del Pompiere della Sera – perseveri.
In fondo è semplice: basta che i vertici Pd seguitino a schifare tutte le manifestazioni popolate e autoconvocate dai loro potenziali elettori, dal G8 al Palavobis, dai girotondi alla Cgil, da piazza Navona a piazza San Giovanni, e il gioco è fatto.
Fra qualche anno Bersani, o chi per lui, si ritroverà finalmente libero da quella zavorra vociante chiamata “elettori”. E farà il quarto a briscola con Galli della Loggia, Panebianco e Ostellino quando Romano starà poco bene. "