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Il dibattito sulle dimissioni di Prodi

Il futuro del PD si sviluppa se non nega le sue radici.

Il dibattito sulle dimissioni di Prodi

Messaggioda franz il 18/06/2008, 23:43

http://www.europaquotidiano.com/site/engine.asp

Caro Romano, ripensaci di MICHELE SALVATI

Caro Romano, aggiungo il mio agli inviti che da più parti ti arrivano affinché tu ritiri le dimissioni da presidente del Partito democratico. Il mio invito non è motivato da un interesse politico-organizzativo diretto: resto fedele all’intuizione originaria, ma siano altri a portarla avanti. Questo è anche il tuo atteggiamento, mi sembra, e ciò comporta l’inevitabile conseguenza che il modo in cui altri portano avanti l’intuizione politica che fu tua e di Beniamino Andreatta può discostarsi da quello in cui l’avremmo portata avanti noi. Domanda: è così diverso, questo modo, da rifiutarsi di riconoscere una continuità tra il progetto dell’Ulivo e quello del Pd? Da sostenere che tra i due c’è uno iato e dunque che esiste un percorso politico il quale esprime la “vera” intuizione originaria dell’Ulivo? In questo caso le tue dimissioni avrebbero una giustificazione politica: ti rifiuti di avallare con una presenza simbolica un progetto che non è il tuo. Ma se una radicale differenza non esiste – ed è questo che credo e cerco di spiegare nella mia lettera – le tue dimissioni potrebbero essere fraintese e dar adito a interpretazioni meschine.
E il tuo silenzio, lungi dall’essere interpretato nel modo che generosamente lo motiva – di non danneggiare con altre polemiche il già debole campo del centrosinistra – non farebbe che confermare quel fraintendimento: se Prodi pensasse che l’intuizione dell’Ulivo sarebbe meglio espressa da un progetto radicalmente diverso dal Partito democratico, perché non dice esplicitamente di che cosa si tratta? Perché non combatte per realizzarlo? Sul modo in cui si è realizzato il Pd io credo di aver critiche e riserve non minori delle tue –se sono vicine alle tue quelle espresse nell’intervista di Arturo Parisi a Repubblica del 7 giugno o nell’articolo di Mario Barbi sul Riformista del 10. Sono critiche e riserve che in buona misura condivido, ma che non mi sembra ammontino all’accusa di radicale alterità dell’attuale Pd rispetto al progetto dell’Ulivo. E soprattutto sono critiche che non mi sento di rivolgere ad altri, come se noi, “i veri credenti”, ne fossimo immuni. Esse hanno proprio a che fare con il progetto originario dell’Ulivo, con il suo sviluppo nel Partito democratico, con le difficoltà che l’Ulivo e il Pd avrebbero incontrato e di cui dovevamo essere consapevoli.
Cominciamo dall’origine per poi venire più vicino a noi.
Il progetto dell’Ulivo nasce nel 1995/96 da un calcolo elettorale cui D’Alema e Marini danno subito la loro convinta adesione (un “non-ex-comunista” e un “non-politico” come candidato premier) e da una scommessa più profonda, nei confronti della quale per lunghi anni chi disponeva di reale potere nei partiti si dimostra ostile o scettico: la possibilità di fondere in una federazione e poi in un partito i riformismi democratici italiani, in primis i maggiori, quello socialista ed ex-comunista e quello cattolico ed ex-democristiano. Questa è la scommessa di Andreatta e Prodi e, si parva licet, anche la mia. Ma sapevamo benissimo che si sarebbe trattato di un’impresa difficilissima, sostenuta dall’ubris di voler tagliare e ricomporre culture politiche radicate; sapevamo che avremmo dovuto combattere contro l’incredulità e il dileggio, ancor prima che contro path dependence, vischiosità, trascinamenti dal passato. E il tuo grande merito, caro Romano, è stato proprio quello di insistere su questa scommessa, di aver fatto valere il peso della tua insostituibilità in momenti cruciali.
Da ultimo con le primarie dell’ottobre 2005: è lì che nasce il Partito democratico, perché le primarie che incoronano Veltroni, due anni dopo, ne sono la diretta conseguenza.
Però non possiamo meravigliarci se le vecchie culture e mentalità rimangono, se la miscelatura dei militanti e dei dirigenti è incompleta, se rischi di scissione sono sempre incombenti, se problemi non risolti (a quale gruppo aderire nel parlamento europeo) continuano a tornare. Di fronte a questi rischi e problemi, gravissimi e –ripeto e sottolineo – totalmente interni al nostro progetto, perché prendersela con Veltroni? Possibile che non si riesca a distinguere tra problemi (e nemici) principali e problemi (e nemici) secondari? Tra chi vuole andare avanti, sia pure tra molti errori, e chi vuol tornare indietro? Altra grande questione, strettamente legata alla precedente: il progetto per l’Italia, l’immagine che l’Ulivo e poi il Partito democratico volevano e v o g l i o n o dare agli italiani. Come hanno mostrato le ultime elezioni, le prime in cui il centrosinistra non ha proposto un’ammucchiata di tutti coloro che sono contro Berlusconi, questo progetto e questa immagine sono risultati meno credibili di quelli dello schieramento avversario. Anche di questo vogliamo dare la colpa solo a Veltroni e al gruppo dirigente che ha affrettatamente costruito intorno a sé? Di fatto, il programma elettorale per queste ultime elezioni è stato – dal punto di vista di un’analisi alla crisi dell’economia e della società italiane e delle risposte democratiche possibili – di gran lunga il migliore tra quelli presentati dallo schieramento di centrosinistra dal 1996 ad oggi. Ma le elezioni, com’è ben noto, non si vincono con i programmi, ma con le immagini e con il framing, su come questi “leggono” l’attività del governo in carica, e qui il centrodestra ha dominato.
Errori ci sono stati, certo, a cominciare dalle alleanze (Di Pietro e radicali) per finire con le candidature: è questa la causa della sconfitta? A me non sembra: la causa sta nell’immagine e nel framing e in quell’ambito va cercata la risposta. Ma se la risposta è quella di elaborare una diversa immagine, un’immagine che convinca gli italiani almeno quanto li convince l’immagine del centrodestra, questo a me sembra il compito centrale cui deve dedicarsi il Pd, che l’Ulivo non ha affrontato ai tempi delle ammucchiate antiberlusconiane, ed è un compito dal quale i “veri credenti” non possono tirarsi indietro.
E vengo all’ultimo problema, quello che probabilmente ha provocato in te la maggiore delusione: la polemica – quasi mai aperta, ma ben percepibile sottotraccia – contro il governo Prodi durante la campagna elettorale. Personalmente ti capisco: una fatica boia, sostenuta dalla convinzione che alla fine della legislatura “gli italiani avrebbero capito”, e la sensazione che il primo a non capirti è il principale partito che ti deve sostenere.
Visto dal di fuori, il problema era però molto semplice: il Pd si è formato con troppa fretta e in un momento sbagliato, come parte di una coalizione di governo incoerente dalla quale doveva –ripeto e insisto: doveva – distinguersi, se si voleva presentare agli italiani con una immagine chiara. Ma così facendo criticava e danneggiava il g o v e r n o , proprio come il governo e la coalizione che lo sosteneva danneggiavano l’immagine che il Partito democratico voleva dare di sé. Toni sbagliati, certo, forse vicende personali sgradevoli che non conosco: ma all’interno di un contesto che non consentiva scelte molto diverse. A meno che tu non sia convinto che la scelta migliore fosse quella di riproporre la coalizione che sosteneva il governo: è questo che pensi? Io non ho dubbi che il rapporto con la sinistra radicale, o parti di essa, tornerà a proporsi.
E che il problema delle alleanze sia un problema reale.
Ma per allearsi un partito deve avere una propria identità e il momento di darsela era proprio la prima occasione nella quale si presentava alle elezioni.
La lettera è già troppo lunga.
Il succo è che il Pd è il figlio e l’erede dell’Ulivo, per quanto complicata e difficile sia stata la gestazione. Che le difficoltà della gestazione erano tutte interne al progetto originario e gli ulivisti non possono imputarle ad altri: dovevano sapere che il parto sarebbe stato faticoso.
Che tu, Romano, sei il padre dell’Ulivo (c’è un problema con questa metafora: chi è la madre?).
Che le tue dimissioni verrebbero interpretate come un disconoscimento di paternità: e in politica, purtroppo, un’analisi del dna è impossibile.
Che all’interno del Pd coloro che la pensano grossomodo come te (e vogliono impegnarsi in battaglie come quelle nelle quali Parisi o Barbi o Andreatta o Monaco o anche molti “veltroniani” sono già coinvolti) sarebbero molto danneggiati dal tuo disconoscimento di paternità. Insomma, le tue dimissioni non avrebbero una motivazione politica difendibile; e però avrebbero conseguenze politiche pesanti. Ripensaci, ti prego.

17/6/08
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BARBI: L'evocazione di Prodi oggi è segno di grande difficol

Messaggioda franz il 18/06/2008, 23:44

http://www.ilriformista.it/GiornaleOnLi ... ?id_cat=33
peccati originali partito ridotto a club di ex
L'AUTOCOSCIENZA DEL PD
Senza Romano, e ce lo meritiamo
L'evocazione di Prodi oggi è segno di grande difficoltà di Mario Barbi


Molti dirigenti del Pd hanno chiesto a Romano Prodi di restare presidente del partito. Il segretario lo ha fatto in modo discreto, altri lo hanno fatto in modo ostentato. Rumorosamente, chi più e chi meno. Da invito garbato a desistere da una decisione non polemica, meditata e motivata, assunta e comunicata riservatamente prima delle elezioni, la richiesta si è trasformata in una pressione insistente che non si ferma nemmeno dinanzi al rispetto dovuto alle ragioni ed alla persona di Prodi. Poiché la decisione di Prodi andrebbe rispettata e il Pd avrebbe ottime ragioni per farlo, tanta insistenza sollecita e merita una spiegazione e una riflessione politica.
La pressione esercitata su Prodi è insieme il segno di una difficoltà seria del Pd di Veltroni e la prova che il Pd cerca una scorciatoia per aggirarla. Prodi viene tirato per la giacchetta e utilizzato per dare una soluzione apparente a un problema reale. Risposta corta a un problema lungo. Cerco di spiegarmi. La difficoltà a cui mi riferisco è questa: il Pd della "nuova stagione" e della "vocazione solit…, pardon!, maggioritaria" veltroniana è andato incontro a una cocente sconfitta politica ed elettorale alla quale ha reagito non con un dibattito aperto e libero ma con una chiusura e un arroccamento del vertice del partito. Il gruppo dirigente appare ripiegato su se stesso e improvvisamente invecchiato, composto in modo pressoché esclusivo da ex Ds e Margherita, mentre proliferano correnti e sottocorrenti che autorizzano autorevoli esponenti del Pd a parlare di «balcanizzazione» e a descrivere il soggetto appena nato non come il «partito nuovo» che voleva essere bensì come una «confederazione di potentati» che rispondono a capi e capetti.
Così, mentre si moltiplicano i segni di un invecchiamento precoce, le primarie sembrano un evento remoto. Che cosa resta di quella straordinaria partecipazione di popolo? Che cosa resta, o meglio, in che cosa si sono trasformati quei milioni di voti che hanno plebiscitato Veltroni? Resta il coordinamento - chiedo scusa per la sintesi un po' drastica - organo di direzione effettiva del partito, non previsto dallo statuto e di cui non vi è notizia nemmeno sul sito ufficiale del Pd, ma che è la logica ri-proposizione del Veltroni candidato «unitario» di una maggioranza pigliatutto formata dal vertice Ds, dalla gran parte dei Popolari nonché dai coraggiosi di Rutelli&Friends.
È interessante ricordare che il coordinamento ha sostituito l'esecutivo, cioè quell'organismo che Veltroni nominò, subito dopo le primarie, nel segno della iper-novità: più donne che uomini, più giovani che vecchi, più principianti che professionisti, più società civile che partiti… O almeno così lo presentò. Lasciamo stare che la novità fosse più comunicata che praticata e che in quella operazione prendesse corpo una specie di collateralismo alla rovescia che confidava nel concorso delle formazioni sociali per dare corpo e guida al partito (ricordo le provenienze legambientaliste, sindacali, imprenditoriali, di volontariato etc) più di quanto esprimesse l'ambizione del partito e della politica di interpretare e guidare lo sviluppo della società.
Lasciamo stare e richiamiamo invece alla memoria la composizione del coordinamento: Veltroni, Franceschini, Fassino, Bettini, Fioroni, Gentiloni, Bersani, Letta, Tonini (?), Finocchiaro, Soro più la cooptazione annunciata dal segretario dei vicepresidenti Pd di Camera (Bindi) e Senato (Chiti). Tutti ex. Ex Ds e Margherita. Tutti. Un partito nato nel segno dell'apertura ai cittadini e delle primarie ridotto ad un club di ex, per di più con un sovrappeso di Roma, a dispetto di una assemblea costituente eletta da tre milioni e mezzo di persone e composta di poco meno di tremila delegati di cui circa un terzo (così si disse) non iscritti a Ds o Margherita. Forse c'è qualcosa che non va. E forse c'è un qualche rapporto tra le primarie-plebiscito e questo esito.
C'è, insomma, una difficoltà. Ora, questa chiusura e questa regressione del gruppo dirigente sono rese più evidenti dall'assenza di Prodi. Prodi non è un ex. Prodi, in tutta la sua azione politica, ha rappresentato la tensione verso l'apertura e il rinnovamento. L'Ulivo. La casa dei riformisti. L'Unione. Una azione costante volta a costruire un centrosinistra di governo in grado di vincere la competizione con il centrodestra in un sistema bipolare e maggioritario. La sua assenza, il suo ritiro rende la sconfitta politico-strategica del Pd incresciosamente evidente. Ecco allora l'idea semplice e, da parte di qualcuno, maliziosa di «richiamarlo», di «pregarlo», di «pressarlo». Ma tutto questo senza che vengano poste due domande elementari: 1) il Prodi che oggi si invoca non è lo stesso che è stato messo in panchina e accompagnato negli spogliatoi con la fondazione di un partito costruito sulla ostentata e ossessiva discontinuità con l'esperienza di quel quindicennio di cui Prodi con l'Ulivo è stato protagonista? 2) che senso avrebbe, e che cosa cambierebbe, il ritorno di Prodi senza un cambio di linea politica e senza una riflessione autocritica sulla nascita del partito e sulla linea politica che ci ha portato alla sconfitta?
Avrebbe ben poco senso. Rispetto l'opinione di Rosy Bindi, che nel chiedere a Prodi di revocare le dimissioni vi associa il richiamo simbolico all'Ulivo e la convinzione che Prodi sia una risorsa politica a cui il Pd non avrebbe dovuto rinunciare. Così come rispetto l'opinione di Michele Salvati che invita Prodi a restare perché il Pd sarebbe in piena continuità con l'Ulivo. Rispetto quelle opinioni, ma penso che anche esse, anzi prima di tutto esse, dovrebbero riconoscere che il Pd è nato nel segno di una triplice presa di distanza dal suo principale promotore e co-fondatore: 1) la discontinuità dall'Ulivo, dall'Unione e dallo stesso Prodi; 2) la "separazione consensuale" da Bertinotti, linea rinunciataria e alternativa alla lotta per l'unità del centrosinistra di governo; 3) la scelta solitaria del Pd, interpretata in chiave proporzionalista. Che qualcuno chieda a Prodi di rimanere per rivedere quella linea ed altri gli chieda la stessa cosa per non disconoscere la giustezza di quella linea è la prova che c'è qualcosa su cui dibattere. Per discutere le scelte fatte andrebbero evitati gesti simbolici o parole generiche: ci vorrebbe un congresso, un congresso vero.
Con queste premesse, invece, la richiesta a Prodi di restare presidente del Pd è una risposta di corto respiro a una domanda di portata strategica. E, a parte la mancanza di riguardo per le scelte della persona, c'è anche una sfumatura di indelicatezza nella richiesta che il Pd rivolge a Prodi, visto che a farla è lo stesso Partito che ha approvato uno statuto che non ha dato al presidente dell'assemblea federale e della direzione nazionale nemmeno la dignità di un articolo specifico ed autonomo, che ne definisse prerogative e funzioni, limitandosi a riconoscergli incidentalmente l'incombenza di convocare gli organi e fissarne l'ordine del giorno. L'evocazione di Prodi, dunque, è il segno di una difficoltà vera. Ma per affrontarla non ci sarebbe modo più sbagliato che affidarsi ad una mozione degli affetti, di necessità impolitica e un po' burocratica, approvata all'unanimità dalla assemblea costituente. Sarebbe un modo di perseverare nell'errore, il suo coinvolgimento cioè nel peccato originale del Pd: l'unanimismo invece del dibattito libero e aperto.

18/06/2008
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Prodi: Le ragioni delle mie dimissioni dal Pd sono ancora va

Messaggioda franz il 19/06/2008, 17:25

Da http://www.romanoprodi.it/

Le ragioni delle mie dimissioni dal Pd sono ancora valide

Caro Walter,

ho avuto notizia di una iniziativa perché l’Assemblea del prossimo 20 e 21 giugno respinga le mie dimissioni dalla carica di Presidente del Partito Democratico.

Sono riconoscente e grato per questa manifestazione di stima e di amicizia, ma ritengo che le ragioni che mi hanno spinto il giorno di Pasqua ad inviarti la lettera di dimissioni siano ancora valide e che convenga a tutti nominare al più presto un’altra persona a ricoprire tale carica.

Il Partito Democratico, che è il punto di riferimento dell’area riformista italiana, porta infatti la responsabilità ed il dovere di completare rapidamente le proprie strutture per preparare una concreta alternativa all’attuale Governo del Paese.

Tutto questo è necessario per dare una risposta adeguata ai milioni di elettori e ai tanti italiani che si sono in questi anni generosamente impegnati per la costruzione del Partito Democratico e per il rinnovamento della politica del nostro Paese.

Augurando all’Assemblea un buon lavoro, ringrazio ancora una volta te e tutti gli amici per la generosa collaborazione che ho ricevuto in questi anni di vita politica e ti saluto con molta amicizia.

Tuo
Romano Prodi
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Bindi: Perché mi batto nel nome di Prodi

Messaggioda franz il 20/06/2008, 7:33

Perché mi batto nel nome di Prodi

• da Il Riformista del 19 giugno 2008, pag. 1

di Rosy Bindi

Caro direttore, l’assemblea costituente del Pd farà i conti con il risultato elettorale e si misurerà sulla qualità della nostra opposizione e sul futuro del partito. All’ordine del giorno ci sono anche le annunciate dimissioni di Romano Prodi dalla presidenza del partito. Su questo tema si è sviluppato un confronto a partire da una mia proposta, quella di votare una mozione che respinga le dimissioni, che non mi pare sia stata realmente capita e che vorrei riassumere e chiarire.

La mia proposta che non era e non è rivolta a Romano Prodi, a cui non chiedo di tornare sui suoi passi e di cui rispetto la decisione. Né intendo presentare una mozione degli affetti. Non ho bisogno di dimostrare con attestati pubblici l’amicizia e la stima nei suoi confronti, non sarebbe rispettoso verso Romano Prodi e non servirebbe ai democratici. La mia è una iniziativa politica e una richiesta al partito perché respingendo le dimissioni di Prodi riprenda il percorso dell’Ulivo. Per farlo è necessario riannodare le fila del processo costituente e riconoscere che il Pd non c’è ancora. Occorre l’umiltà di misurare la nostra coerenza rispetto al cammino di questi anni e al progetto a cui Romano Prodi ha dato vita nel ‘95.

La nuova stagione che Veltroni ha evocato nel corso delle primarie e poi declinato in campagna elettorale con la vocazione maggioritaria del Pd, è il compimento dell’Ulivo immaginato da Prodi nel ‘95 o una sua sconfessione? Il modo in cui il partito sta prendendo forma ha davvero i caratteri di quel nuovo soggetto politico che avevamo ipotizzato o è solo un nuovo vestito per vecchi apparati? Sono questi i nodi da sciogliere nel confronto di venerdì e sabato all’assemblea costituente.

E chiedo a tutti i democratici: se le dimissioni di Prodi venissero metabolizzate come un passaggio di routine, non avremmo implicitamente già dato una risposta politica a questi interrogativi?

Respingere le dimissioni di Prodi significa esprimere un chiaro indirizzo politico per il futuro, a partire da una sincera e libera valutazione del percorso fin qui seguito. Significa rilanciare la costruzione del partito come partito plurale, capace di andare oltre i partiti fondatori e intercettare nuovamente quel popolo delle primarie che si sta già allontanando dal Pd, percepito come la sommatoria dei Ds e Margherita e delle loro tante correnti. Dire no alle dimissioni di Prodi significa abbandonare la solitudine dell’autosufficienza e lavorare ad un nuovo centrosinistra. Significa dire no al tentativo, peraltro tutto astratto, di dar vita ad alleanze di nuovo conio, significa dire sì alla capacità del Pd di costruire un’alleanza programmatica riformista con le forze della sinistra disponibili ad una vera innovazione. Dire no alle dimissioni di Prodi aiuta a sciogliere i dilemmi sulla collocazione internazionale del partito, significa infatti riconoscere l’originalità dell’Ulivo e l’impossibilità di restringere il Pd nel campo della socialdemocrazia e della liberaldemocrazia per costruire un nuovo campo riformista e democratico.

Abbiamo subito una seria sconfitta elettorale, acutizzata dal risultato delle amministrative siciliane. È necessaria una riflessione severa, senza sconti per nessuno. In gioco c’è il profilo programmatico e ideale del Pd, la scommessa di tornare a vincere e a governare il paese. Credo sia riduttivo rilanciare la nostra opposizione al governo a partire dallo scandalo di nuove leggi ad personam. Abbiamo pensato che potendo contare su una solida maggioranza, Berlusconi dimostrasse le qualità di statista e invece, proprio contando su una solida maggioranza Berlusconi vuole attuare una sua idea di politica, di società, democrazia. Sarebbe bene allora ricordare che l’Ulivo è nato e ha vinto per due volte con Romano Prodi, perché con il progetto e con il programma per «L’Italia che vogliamo» si è presentato come alternativa culturale e politica al berlusconismo. La mia proposta non può essere confusa con quella di Michele Salvati, che chiede a Prodi il gesto personale di ritirare le dimissioni per evitare il dubbio che lasciando la presidenza del Pd si consumi una tacita rottura con l’esperienza di questi tredici anni. Ma non è a Prodi che va chiesta nobiltà d’animo.È al partito e a ciascuno di noi che va chiesto di fare chiarezza sulla linea politica e di interrogarsi se questa rottura c’è stata, e se siamo davvero disponibili a riannodare il percorso dell’Ulivo e farci carico degli ultimi quindici anni, con le nostre coerenze e le nostre incoerenze.
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Re: Il dibattito sulle dimissioni di Prodi

Messaggioda franz il 20/06/2008, 13:17

Veltroni ha scritto:Per quindici anni, il bipolarismo italiano si è strutturato attorno al primato delle alleanze, le più ampie, sterminate, eterogenee possibile, fondate e tenute assieme non da una comune visione del futuro del Paese, ma dal solo obiettivo di battere l’avversario. Col risultato che le contraddizioni nascoste nella fase di costruzione dell’alleanza, finivano per esplodere nel pieno dell’azione di governo, seminando sconcerto e delusione tra gli elettori e ponendo le condizioni per la inevitabile sconfitta successiva.

C’è stata una sola eccezione, in questa lunga e ininterrotta teoria di coalizioni fragili e di governi precari: il governo dell’Ulivo, quello che con Prodi portò l’Italia nell’Euro, il governo che raggiunse vette storiche di popolarità nel pieno di una delle più pesanti manovre di risanamento finanziario della storia repubblicana.

Non a caso, la caduta di quel governo suscitò nel Paese sconcerto, rabbia e perfino dolore autentico. E non a caso, da quel sentiero interrotto, prese origine il “mito” dell’Ulivo: il sogno di fare di quella che è sempre stata qualcosa di più di una semplice coalizione, un soggetto politico nuovo, una casa comune per tutti i riformisti, in definitiva un grande Partito Democratico.

E proprio perché è dalla straordinaria esperienza dell’Ulivo che il PD deriva la sua radice più profonda e più importante, torno a chiedere a Romano Prodi, davanti e insieme a tutti voi, di restare presidente di questa grande assemblea del popolo dei democratici.
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