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Caro Romano, ripensaci di MICHELE SALVATI
Caro Romano, aggiungo il mio agli inviti che da più parti ti arrivano affinché tu ritiri le dimissioni da presidente del Partito democratico. Il mio invito non è motivato da un interesse politico-organizzativo diretto: resto fedele all’intuizione originaria, ma siano altri a portarla avanti. Questo è anche il tuo atteggiamento, mi sembra, e ciò comporta l’inevitabile conseguenza che il modo in cui altri portano avanti l’intuizione politica che fu tua e di Beniamino Andreatta può discostarsi da quello in cui l’avremmo portata avanti noi. Domanda: è così diverso, questo modo, da rifiutarsi di riconoscere una continuità tra il progetto dell’Ulivo e quello del Pd? Da sostenere che tra i due c’è uno iato e dunque che esiste un percorso politico il quale esprime la “vera” intuizione originaria dell’Ulivo? In questo caso le tue dimissioni avrebbero una giustificazione politica: ti rifiuti di avallare con una presenza simbolica un progetto che non è il tuo. Ma se una radicale differenza non esiste – ed è questo che credo e cerco di spiegare nella mia lettera – le tue dimissioni potrebbero essere fraintese e dar adito a interpretazioni meschine.
E il tuo silenzio, lungi dall’essere interpretato nel modo che generosamente lo motiva – di non danneggiare con altre polemiche il già debole campo del centrosinistra – non farebbe che confermare quel fraintendimento: se Prodi pensasse che l’intuizione dell’Ulivo sarebbe meglio espressa da un progetto radicalmente diverso dal Partito democratico, perché non dice esplicitamente di che cosa si tratta? Perché non combatte per realizzarlo? Sul modo in cui si è realizzato il Pd io credo di aver critiche e riserve non minori delle tue –se sono vicine alle tue quelle espresse nell’intervista di Arturo Parisi a Repubblica del 7 giugno o nell’articolo di Mario Barbi sul Riformista del 10. Sono critiche e riserve che in buona misura condivido, ma che non mi sembra ammontino all’accusa di radicale alterità dell’attuale Pd rispetto al progetto dell’Ulivo. E soprattutto sono critiche che non mi sento di rivolgere ad altri, come se noi, “i veri credenti”, ne fossimo immuni. Esse hanno proprio a che fare con il progetto originario dell’Ulivo, con il suo sviluppo nel Partito democratico, con le difficoltà che l’Ulivo e il Pd avrebbero incontrato e di cui dovevamo essere consapevoli.
Cominciamo dall’origine per poi venire più vicino a noi.
Il progetto dell’Ulivo nasce nel 1995/96 da un calcolo elettorale cui D’Alema e Marini danno subito la loro convinta adesione (un “non-ex-comunista” e un “non-politico” come candidato premier) e da una scommessa più profonda, nei confronti della quale per lunghi anni chi disponeva di reale potere nei partiti si dimostra ostile o scettico: la possibilità di fondere in una federazione e poi in un partito i riformismi democratici italiani, in primis i maggiori, quello socialista ed ex-comunista e quello cattolico ed ex-democristiano. Questa è la scommessa di Andreatta e Prodi e, si parva licet, anche la mia. Ma sapevamo benissimo che si sarebbe trattato di un’impresa difficilissima, sostenuta dall’ubris di voler tagliare e ricomporre culture politiche radicate; sapevamo che avremmo dovuto combattere contro l’incredulità e il dileggio, ancor prima che contro path dependence, vischiosità, trascinamenti dal passato. E il tuo grande merito, caro Romano, è stato proprio quello di insistere su questa scommessa, di aver fatto valere il peso della tua insostituibilità in momenti cruciali.
Da ultimo con le primarie dell’ottobre 2005: è lì che nasce il Partito democratico, perché le primarie che incoronano Veltroni, due anni dopo, ne sono la diretta conseguenza.
Però non possiamo meravigliarci se le vecchie culture e mentalità rimangono, se la miscelatura dei militanti e dei dirigenti è incompleta, se rischi di scissione sono sempre incombenti, se problemi non risolti (a quale gruppo aderire nel parlamento europeo) continuano a tornare. Di fronte a questi rischi e problemi, gravissimi e –ripeto e sottolineo – totalmente interni al nostro progetto, perché prendersela con Veltroni? Possibile che non si riesca a distinguere tra problemi (e nemici) principali e problemi (e nemici) secondari? Tra chi vuole andare avanti, sia pure tra molti errori, e chi vuol tornare indietro? Altra grande questione, strettamente legata alla precedente: il progetto per l’Italia, l’immagine che l’Ulivo e poi il Partito democratico volevano e v o g l i o n o dare agli italiani. Come hanno mostrato le ultime elezioni, le prime in cui il centrosinistra non ha proposto un’ammucchiata di tutti coloro che sono contro Berlusconi, questo progetto e questa immagine sono risultati meno credibili di quelli dello schieramento avversario. Anche di questo vogliamo dare la colpa solo a Veltroni e al gruppo dirigente che ha affrettatamente costruito intorno a sé? Di fatto, il programma elettorale per queste ultime elezioni è stato – dal punto di vista di un’analisi alla crisi dell’economia e della società italiane e delle risposte democratiche possibili – di gran lunga il migliore tra quelli presentati dallo schieramento di centrosinistra dal 1996 ad oggi. Ma le elezioni, com’è ben noto, non si vincono con i programmi, ma con le immagini e con il framing, su come questi “leggono” l’attività del governo in carica, e qui il centrodestra ha dominato.
Errori ci sono stati, certo, a cominciare dalle alleanze (Di Pietro e radicali) per finire con le candidature: è questa la causa della sconfitta? A me non sembra: la causa sta nell’immagine e nel framing e in quell’ambito va cercata la risposta. Ma se la risposta è quella di elaborare una diversa immagine, un’immagine che convinca gli italiani almeno quanto li convince l’immagine del centrodestra, questo a me sembra il compito centrale cui deve dedicarsi il Pd, che l’Ulivo non ha affrontato ai tempi delle ammucchiate antiberlusconiane, ed è un compito dal quale i “veri credenti” non possono tirarsi indietro.
E vengo all’ultimo problema, quello che probabilmente ha provocato in te la maggiore delusione: la polemica – quasi mai aperta, ma ben percepibile sottotraccia – contro il governo Prodi durante la campagna elettorale. Personalmente ti capisco: una fatica boia, sostenuta dalla convinzione che alla fine della legislatura “gli italiani avrebbero capito”, e la sensazione che il primo a non capirti è il principale partito che ti deve sostenere.
Visto dal di fuori, il problema era però molto semplice: il Pd si è formato con troppa fretta e in un momento sbagliato, come parte di una coalizione di governo incoerente dalla quale doveva –ripeto e insisto: doveva – distinguersi, se si voleva presentare agli italiani con una immagine chiara. Ma così facendo criticava e danneggiava il g o v e r n o , proprio come il governo e la coalizione che lo sosteneva danneggiavano l’immagine che il Partito democratico voleva dare di sé. Toni sbagliati, certo, forse vicende personali sgradevoli che non conosco: ma all’interno di un contesto che non consentiva scelte molto diverse. A meno che tu non sia convinto che la scelta migliore fosse quella di riproporre la coalizione che sosteneva il governo: è questo che pensi? Io non ho dubbi che il rapporto con la sinistra radicale, o parti di essa, tornerà a proporsi.
E che il problema delle alleanze sia un problema reale.
Ma per allearsi un partito deve avere una propria identità e il momento di darsela era proprio la prima occasione nella quale si presentava alle elezioni.
La lettera è già troppo lunga.
Il succo è che il Pd è il figlio e l’erede dell’Ulivo, per quanto complicata e difficile sia stata la gestazione. Che le difficoltà della gestazione erano tutte interne al progetto originario e gli ulivisti non possono imputarle ad altri: dovevano sapere che il parto sarebbe stato faticoso.
Che tu, Romano, sei il padre dell’Ulivo (c’è un problema con questa metafora: chi è la madre?).
Che le tue dimissioni verrebbero interpretate come un disconoscimento di paternità: e in politica, purtroppo, un’analisi del dna è impossibile.
Che all’interno del Pd coloro che la pensano grossomodo come te (e vogliono impegnarsi in battaglie come quelle nelle quali Parisi o Barbi o Andreatta o Monaco o anche molti “veltroniani” sono già coinvolti) sarebbero molto danneggiati dal tuo disconoscimento di paternità. Insomma, le tue dimissioni non avrebbero una motivazione politica difendibile; e però avrebbero conseguenze politiche pesanti. Ripensaci, ti prego.
17/6/08