FRANCO MONACO
Provoco ma poi spiego: e se Dario Franceschini emulasse Romano Prodi? Da cultore delle primarie e ulivista impenitente, naturalmente all’assemblea nazionale ho sostenuto Arturo Parisi, non Franceschini. L’ho fatto per ragioni di metodo, di ruolo e di merito. Di metodo: per dare legittimazione e forza a un segretario si richiedono le primarie, anche per sottrarlo al condizionamento paralizzante delle oligarchie di partito, che sono state decisive nel costringere Veltroni all’abbandono, nonostante contasse su una larghissima investitura. Di metodo anche nel senso che, all’origine della falsa partenza e dell’impasse del Pd, stanno le primarie plebiscito, nelle quali ci si rifiutò a una competizione aperta e trasparente tra candidati associati a piattaforme politiche distinte e distinguibili, condannando il Pd stesso a un’identità incerta e a una linea ondivaga. Facendo dell’inclinazione soggettiva di Veltroni al “maanchismo”, oggetto della corrosiva parodia di Crozza, il tratto qualificante del partito, il suo stesso profilo identitario. Ragioni di ruolo: perché Franceschini, in quanto vice, portava e porta tutta intera la responsabilità del “fallimento” (parola sua) di Veltroni.
Infine, ragioni di merito e di linea politica, che si possono condensare nel dichiarato abbandono dell’ispirazione ulivista, inscritto nella superficiale, prima che ingenerosa, teoria dei quindici anni buttati. Come se i nostri governi fossero tutti da dimenticare e soprattutto come se quel progetto cui abbiamo dato nome Ulivo non avesse conseguito un risultato di portata storica per la democrazia italiana: quello di aver portato due volte la sinistra italiana al governo del paese dopo cinquant’anni di vita repubblicana.
“Salvando”, forse più di quanto non meritasse, una classe dirigente che altrimenti sarebbe stata accompagnata alla porta già all’inizio degli anni novanta, in quanto associata o a tragedie epocali (il comunismo) o a sconfitte politiche, cattiva amministrazione (si pensi all’accumulo del debito pubblico che ancora stiamo pagando), degrado morale.
Dei tanti errori che rimprovero a Veltroni, questa leggerezza del giudizio venata di nuovismo è ciò che più mi riesce difficile perdonare. Anche perché lì affonda le radici il deragliamento da un binario costruito con sudore e attraverso aspre battaglie in tredici lunghi anni: quello di un processo teso ad organizzare il campo delle forze di centrosinistra, di cui l’Ulivo-Pd fosse, come usava dire, motore e timone. Senza disdegnare l’approdo al bipartitismo, ma non incappando nell’equivoco che quell’approdo fosse già conseguito e dunque all’illusione-presunzione dell’autosufficienza.
Una scelta cui non a caso si plaudeva da parte di una destra che faceva l’esatto contrario, cioè allestiva un’alleanza larga e vincente. Si gettava alle ortiche lo spirito unitario dell’Ulivo, con il suo motto “uniti per unire”; si consumavano in allegria separazioni consensuali con gli alleati, superficialmente ignorando la circostanza che è un attimo dividersi ma si richiedono tempo e fatica per ricomporre in unità; si faceva del Pd non già un fattore di unità ma di divisione nel centrosinistra. Si è racimolato qualche punto percentuale in più per il Pd, al prezzo di una devastante divisione strategica del campo del centrosinistra.
Qualcuno ha fatto finta di fraintendere come un cedimento alle sirene berlusconiane l’osservazione di chi, mettendo a confronto Veltroni con Berlusconi, concludeva descrittivamente a vantaggio del secondo, circa l’attitudine propria di un leader che sa dare forma unitaria al proprio campo di forze, che eccelle nella sua capacità federativa.
Ora, nei suoi primi atti o almeno nelle sue prime parole, Franceschini fa segnare una svolta. Anche se naturalmente gli riesce difficile dichiararla come tale. Non importa. Abbiamo imparato ad accontentarci e anche ad assistere allo spettacolo dei tanti che oggi applaudono Franceschini dopo aver applaudito le scelte affatto diverse di Veltroni. Così pure ci siamo abituati a chi fa una opposizione sorda dietro le quinte, ma si sottrae sistematicamente a una competizione leale ed aperta, a candidature annunciate cui poi non si dà corso sin tanto che non si sia sicuri di vincere. Un costume unitarista che non riflette esattamente il meglio delle nostre tradizioni.
Oggi si è prodighi di inchini alla cultura liberale “fuori”, ma, dentro il partito, si rifugge quella competizione plurale che della cultura liberale rappresenta la molla e l’anima. Non sono vizi da poco. Anzi: forse il male del Pd sta più nelle pratiche consociative e nel tatticismo della sua oligarchia che non negli sbandamenti nella linea politica.
Tuttavia, dicevo, abbiamo imparato ad accontentarci.
E non sono da poco, lo riconosciamo volentieri, tre decisive correzioni di linea adombrate da Franceschini:
- dall’autosufficienza di una malintesa vocazione maggioritaria a una politica delle alleanze programmaticamente coltivata;
- dall’improvvida scommessa sull’affidabilità di Berlusconi come partner privilegiato per la riforma delle regole e dello Stato alla giusta enfasi sulla radicale alternatività del Pd alla destra specie in tema di concezione della democrazia;
- da una interpretazione timida della nozione di riformismo assimilato a moderatismo e ipotecato da una subalternità cultuale alla destra alla ripresa esplicita degli storici valori di solidarietà e uguaglianza (di cui quasi ci si vergognava) propri della sinistra laica e cattolica. Riconducendo il riformismo alla sua radice etimologica, che ne esalta l’ambizione a cambiare la società e la distribuzione in essa di risorse e potere.
Come si diceva, trattasi di tre correzioni decisive. A dare compiutezza a un nuovo indirizzo politico ne mancano almeno due.
- Il modello istituzionale e
- la forma partito
Circa la forma partito, è da augurarsi che non si revochi, magari senza tematizzarlo, come si è fatto alla recente assemblea costituente, la scelta qualificante delle primarie nel quadro di una visione di partito aperta ai cittadini, per tornare all’…usato sicuro.
Mi ha fatto riflettere la confessione di Berlusconi su Franceschini, la sua sorpresa che non ci sia affidati a un ex Ds. Lì ho pensato a un effetto Prodi-Ulivo. Non già perché Franceschini sia un cattolico democratico come Prodi (catto-comunista secondo l’elegante lessico del premier). Dentro un Pd nuovo e unitario tutti hanno gli stessi titoli per assumere la leadership. Ma esattamente il contrario: perché si produce una sana confusione, si spariglia, si smentiscono previsioni e attese generate dalle antiche appartenenze. Non fu proprio questo il segreto di Prodi e dell’Ulivo? Quello di trasmettere l’idea di una nuova e altra appartenenza comune che relativizzasse (e magari anche un po’ sfumasse) le vecchie e non da tutti apprezzate appartenenze? Anche sotto questo profilo mi piace pensare a una ripresa creativa del messaggio dell’Ulivo.
da europaquotidiano.it