da pierodm il 26/02/2009, 12:39
Devo rispolverare un ricordo che mi sembra di aver già citato in tempi relativamente lontani.
Nella mia famiglia c'era un uomo che veniva da un paese dall'agro romano, figlio e fratello di contadini.
Aveva fatto la terza elementare e sapeva sì e no fare la propria firma.
Era comunista della primissima ora.
Era un duro, un uomo di modi spicci, che in vita sua aveva sempre fatto l'oste a Trastevere.
Leggeva tutti i giorni l'Unità, e aveva sempre a portata di mano un atlante e un dizionario, per andare a ravanare sui luoghi che venivano citati negli articoli e sulla parole che non conosceva.
Aveva un'istruzione praticamente inesistente, e un'indole assolutamente pragmatica, un uomo d'azione - come lui stesso si definiva, sia pure con parole più appropriate alle osterie trasteverine che ad un salotto per bene.
Ma aveva un grande rispetto per la cultura, per l'arte e per "i libri", anche se non li capiva - e forse proprio perché non li capiva: era però sicuro che non solo il futuro, ma la sostanza stessa dell'"essere di sinistra" stessero lì, nel rispetto e nella sensibilità verso l'arte, la cultura e i libri.
Come lui, erano tanti. Il rispetto, la delicatezza nell'avvicinarsi ad una sfera che gli era estranea, distinguevano molti popolani da altri popolani, e da altri che popolani non erano. Probabilmente era la distinzione più importante, molto più che non quella "ideologica", sempre piuttosto incerta e discutibile.
In anni successivi - diciamo dagli anni '60 in avanti - anche in Italia si è usciti da una visione accademica e parruccona della "cultura" e dell'arte, ricongiungendosi all'intuizione di Gramsci e alla sua interpretazione, che in questo concetto ricomprendeva fenomeni e valori popolari, storici e antropologici che andavano molto al di là dei confini delle accademie e dei circoli letterari.
E ricongiungendosi anche alla realtà rinascimentale, in cui quelli che oggi celebriamo come "grandi artisti", con profonda valenza intellettuale e perfino ideologica, erano considerati - ed essi stessi si consideravano - "artigiani" e "decoratori della città".
Naturalmente, in certi casi si è perfino esagerato nel frullare insieme fenomeni diversi, per cui nel dare - per esempio - l'esame di Geometria Descrittiva alla facoltà di Architettura, ci si presentava con una tesina sui fumetti di Charlie Brown.
Ma la musica, il rock, la letteratura, la poesia, la comunicazione scritta o orale o iconografica, etc - vale a dire, in pratica, la musica popolare, il giornalismo, la pubblicità, come new entry epocale - sono state pienamente riconosciuti come fenomeni culturali alla pari degli altri più "nobili".
Mi meraviglio, quindi, che adesso venga fuori questo riflusso vagamente parruccone sulle "canzonette".
E mi meraviglio - forse non dovrei, lo so - che questo riflusso trovi spazio in un'area politico-culturale "di sinistra".
Nello specifico, il problema non è che uno possa preferire un artista o uno stile rispetto ad un altro: questo è normale.
Il problema è il disprezzo, e il mettere sullo stesso piano i gelati con Bob Dylan o De Andrè, i tramezzini al tonno con la poesia di Pasolini o con la letteratura. Questa roba, questo genere di esternazioni, di mentalità, ce le potevamo aspettare in una sezione del MSI dei tempi andati - tipo Colle Oppio o via Topino - in cui i ragazzotti sghignazzavano sulle "zecche comuniste" - o magari, come è successo a me, quando chiedevo ad una collega di lavoro perché aveva detto che non aveva nessuna intenzione di andare ad uno spettacolo di Paolo Poli, sentendomi rispondere: perché a mio marito non piacciono i froci .