da pierodm il 23/11/2008, 11:52
b]Franz.[/b]
"Non esattamente. I problemi sociali rimangono ma il baratro indica la scomparsa di un certo tipo di soluzioni "
Era quello che intendevo: la scomparsa, il vuoto non riguarda i problemi, ma riguarda le soluzioni.
Le "soluzioni politiche", prima ancora che tecniche: la rappresentanza, o meglio ancora l'assunzione di un punto di vista, dal quale possono poi discendere soluzioni "tecniche" più o meno giuste o sbagliate.
Faccio un esempio, schematico e rudimentale, che non riguarda la sinistra in modo specifico: la piccola impresa e l'artigianato.
In Italia c'è sempre stata una "soluzione politica", nel senso che dicevo sopra, per la grande impresa, dalla Fiat all'ENI, etc.
che non si materializzava in un solo partito, ma aveva il suo spazio all'interno di quasi tutti i partiti, anche nel PCI e in altri della sinistra, per i quali la politica economica italiana s'identificava di fatto con i problemi della grande industria.
La piccola impresa e l'artigianato, invece, non hanno mai avuto una loro "soluzione", nel senso che non ci sono mai state forze politiche che abbiano guardato l'economia dal loro punto di vista.
Il lavoro dipendente, le classi povere, le categorie svantaggiate da un sistema sociale squilibrato, etc, nella prima repubblica e in generale nelle varie trasformazioni del secolo scorso avevano trovato varie "soluzioni politiche", non solo di sinistra (vedi una parte della DC, per esempio), ma certamente soprattutto nella sinistra: le soluzioni tecniche che ne sono derivate non sempre sono state corrette, e non sempre lungimiranti, ma ciò non toglie che il problema della giustizia sociale sia stato presente e che questa presenza abbia costituito nel suo insieme un elemento di progersso della democrazia.
Da alcuni anni non è più così: anche a sinistra sembra che sia stato cancellato questo "punto di vista", per ammassarsi in una visione che viene definita "liberale" ma che è in realtà semplicemente e soltanto capitalista, ossia una visione che sposa completamente il "punto di vista" del grande capitale e dei puri termini di "sviluppo economico", considerando la giustizia sociale un accessorio tutt'al più "compassionevole" o solidaristico.
C'è poi il tema, nient'affatto semplice, del "moderatismo".
Forse faccio prima a chiarire la mia definizione di moderatismo, dalla quale deriva la mia affermazione sul ruolo che questo assume nel quadro politico.
"Moderato" è quell'elettorato - o meglio, quella parte di elettorato, meglio ancora di popolo - che s'identifica col sistema o col regime in atto, in un dato periodo.
Questo vale in democrazia, così come in una monarchia assolutista o in qualunque altra conformazione della società.
Una parte di popolo che non desidera trasformazioni sostanziali, che spostino gli equilibri del potere o le gerarchie sociali, ma eventualmente solo aggiustamenti o la "restaurazione" di un non sempre ben chiaro stato di salute del sistema stesso.
Per questo dicevo che un simile tipo di elettorato non s'intercetta, ma tutt'al più si rappresenta, dato che c'è un'identificazione praticamente e ideologicamente "originaria" tra i moderati e certi partiti che fondano la propria ragion d'essere nel sistema vigente e nell'ordine sociale esistente - partiti che non definirei "conservatori" tout court, dato che tra loro o in alcuni di loro possono esserci spinte riformiste vòlte alla manutenzione e adeguamento del sistema, non per cambiarlo ma per mantenerne stebili gli equilibri.
Mettendo i piedi nel piatto, ci dobbiamo chiedere: il neonato PD desidera essere uno di questi partiti?