Mi sembra che Pinopic abbia ben inquadrato la questione del riformismo, al di là di tutte le chiacchiere: essere riformisti non passa attraverso la ricusazione dei rapporti con Bertinotti o Diliberto, o l'occhiolino strizzato alla CEI (...?), ma attraverso una serie precisa di riforme concrete. Una questione di contenuti, insomma - come si è detto e disperatamente ripetuto negli anni passati, nel turbinìo delle sigle e delle alleanze, delle "strategie" elettorali e delle operazioni di lifting e di marketing della coalizione.
Il problema di queste nostre discussioni, infatti, e di tante altre del recente passato, sta proprio in questo: si evoca di tutto, ma abbiamo ben poco su cui discutere in merito ai "contenuti", come se questi fossero una faccenda marginale, o come se discendessero automaticamente dalle alleanze o dalle sigle prescelte.
Sigle e alleanze, che invece si sono dimostrate efficacissime per porre dei veti, per escludere e per ricusare scelte precise sui contenuti: non dimentichiamo che il "partito dei no", ossia il partito dei veti pregiudiziali e del dogma, ha dimostrato di essere anche quello dei cattolici e degli autoproclamatisi "moderati", tanto quanto e forse più della sinistra radicale.
Con un'aggravante: che il cosiddetto massimalismo radicale appartiene, comunque, alla tradizione della sinistra, mentre un certo genere di moderatismo e di centrismo ne è storicamente e intimamente estraneo, e dunque assai più difficilmente assimilabile.
Il discorso più importante, però, in quanto pregiudiziale, rimane quello sull'impostazione generale delle scelte politiche, che hanno virato sul marketing, e che mettono necessariamente in secondo piano - ideologicamnte in secondo piano, a proposito di ideologie - questi benedetti contenuti.
Personalmente, potrei dilungarmi per tre o quattro pagine in esempi paradossali, che scaturiscono se si porta all'estremo - ma nemmeno tanto - questo tipo d'impostazione, ma ve li risparmio.
Diciamo che il marketing politico implica un elettorato che sta lì fermo, in attesa che un concorrente arrivi per primo a metterci la bandierina sopra, e annetterselo. Come il monòpoli, più o meno.
E diciamo pure che, quando si parla di "moderati", se ne fa una questione di geometria, diciamo di toponomastica politica, e non di idee e di punti di vista: a parte che anche i calcoli geometrici e toponomastici possono essere sbagliati, una visione del genere mi sembra in assoluto contrasto con quella volontà "costruttiva" e programmatica, alla base della quale ci sono necessariamente i contenuti più che le alleanze e il face lifting.
Due parole, infine, sui "cattolici".
Così come non si prevde lo stato etnico, o teologico, non si può ammettere un partito basato su una fede religiosa.
D'altra parte, lo stato laico non è un ghiribizzo, ma è parte integrante di qualunque progetto di democrazia liberale.
Se il "laicismo" viene evocato come deriva estremistica della laicità, questo è semmai un problema da risolvere in chiave laica e democratica, e non attestandosi sui bastioni di una o l'altra religione.
Questo è valido in qualunque paese, ma tanto più è valido in un paese come l'Italia, che ha sofferto per secoli non certo di un eccesso di laicità o di liberalismo, ma semmai per uno spettacolare asservimento ai dettami ecclesiali non riscontrabile in alcun altro posto, in Occidente - asservimento, si noti bene, che non è rimasto sul piano spirituale (anzi...) ma che ha avuto profondissimi effetti sulla società, sulla cultura politica, sulla legislazione, sull'economia, sulle attitudini stesse dei cittadini. A tal punto che una parte delle riforme che dovrebbero essere nel mirino dei "riformisti" riguardano aspetti e istituzioni, fortemente influenzate dal clericalismo, che sono in attesa di una modernizzazione - in attesa della modernità illuministica, diciamo - da un tempo ormai scaduto.