Nelle aziende private il metodo così ben descritto, ed esaltato, da Franz, di certo è funzionale, aumenta l’efficienza del sistema produttivo. Le sua conseguenze dentro le fabbriche sembrano ottime, ma…
ma…esiste anche una società esterna alle fabbriche, la società in cui tutti viviamo. Una società che conoscerà una qualità della vita migliore se gli individui che la compongono saranno stati educati ed allenati a stili di convivenza solidaristica, non competitiva. Detto in soldoni: il criterio caro a Franz rende più efficiente la produzione ma anche contribuisce ad aumentare l’aggressività e l’egoismo fuori dalla fabbrica.
Sono d'accordo, come ben si capisce dal mio post precedente.
Ma non insisto su questo, dato che anche altri interlocutori affrontano la questione dal medesimo punto di vista.
Piuttosto sarebbe il caso di andare a vedere bene cosa c'è dentro quel criterio di efficienza che starebbe alla base del giudizio meritocratico.
Qui stiamo dando per scontato che l'efficienza sia misurata in riferimento allo stretto scopo del lavoro in cui è impegnato il lavoratore, ma questo non è affatto scontato.
Non è scontato nemmeno il fatto che l'imprenditore privato sia in grado di assumere con competenza e con equità il ruolo di giudice verso i "meriti" dei suoi dipendenti.
Non si tratta solo dell'imperfezione umana, o della stupidità o dell'ignoranza, che non vengono meno solo perché un tizio è "imprenditore" - che nei rapporti con i dipendenti non rischia solo il suo capitale, ma mette a rischio o determina anche il destino di altre persone.
Io parlo di un'efficienza misurata su altri scopi diversi dal lavoro strettamente inteso, i quali possono sembrare astrusi o improbabili visti dall'esterno, ma che talvolta o magari spesso sono assolutamente reali e determinanti in certe situazioni: la bellezza o la disponibilità di una segretaria, la non-sindacalizzazione, l'obbedienza, la propensione alla delazione, o un atteggiamento che corrisponde al particolare punto di vista del "giudice" in materia di efficienza, ma che non ha alcun valore oggettivo.
Posso portare un paio di esempi, uno dei quali personale.
Un mio amico - bravissima persona, ottimo tipografo, ma ostinatissimo "padroncino"- aveva un criterio per giudicare i "meriti" dei suoi dipendenti che premiava soprattutto l'umiltà e lo zelo dimostrati apertamente - diciamo così, che amava le "anime semplici".
Nel reparto composizione tale criterio funzionava assai poco, perché le ragazze addette avrebbero dovuto essere soprattutto di buona cultura e dotate d'iniziativa personale, invece che modeste e temperanti: risultato, le tecnicamente migliori erano sistematicamente scartate, o licenziate dopo poco, mentre permanevano quelle più campagnole e dimesse, perché "migliori".
Esempio personale.
Per un anno sono stato dipendente di un'industria cinematografica, nella quale però facevo il lavoro di prima nota in amministrazione: non era certo il "mio" lavoro - avevo bisogno di lavorare - ma avevo appreso rapidamente quelle quattro cose da sapere e me la cavavo bene.
Tanto bene, anzi, che spolveravo in un paio d'ore il lavoro accumulato, e rimanevo senza niente da fare.
Per scrupolo di coscienza passavo una mezz'oretta o poco più a fare un po' di lavoro di fino, e poi me ne andavo in altri reparti ad assistere o magari aiutare a sincronizzare l'audio di filmati, o alla moviola, o alle lavorazioni in truka.
Insomma, non davo affatto la sensazione di essere uno che "ce la metteva tutta" per fare il suo lavoro: infatti non ce la mettevo tutta, non ce n'era bisogno.
Ma la cosa non corrispondeva a ciò che i dirigenti ritenevano "efficiente". Il mio non era un "merito" ma una colpa: ero un displayed man, come disse il direttore del personale il giorno in cui mi comunicò che le nostre strade si dividevano.
Il bello era che ero d'accordo con lui.
Quindi, torno a dire: il merito va benissimo se è un criterio implementato con naturalezza nella cultura dei rapporti sociali e produttivi, ma rischia di diventare grottesco o nefasto quando assume il ruolo di una "regola", di un criterio organizzativo artificiosamente considerato un dogma.