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Per un populismo della sinistra

Il futuro del PD si sviluppa se non nega le sue radici.

Per un populismo della sinistra

Messaggioda franz il 25/10/2008, 14:03

Per un populismo della sinistra
di EDMONDO BERSELLI

OGGI al Circo Massimo va in scena una strana coppia: il riformismo e la piazza. Cioè una protesta di massa contro il centrodestra galvanizzato dai sondaggi insieme con un'idea razionale di possibili riforme alternative. Ma è un matrimonio possibile? È opportuno, è conveniente, è politicamente utile che nella cultura e nella pratica del Partito democratico si sviluppi anche una componente populista?

Fa bene a un partito riformista un po' di esplicito populismo di sinistra? Sono interrogativi che equivalgono a chiedersi, in fondo, se il riformismo debba contenere una quota di radicalità. Con quel che ne consegue anche nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, un'opposizione animosa e rumorosa, con il recupero di una contrapposizione nettissima rispetto al governo e al Popolo della libertà. Insomma: oggi, domani, nel futuro politicamente prevedibile, il riformismo può trovare una risorsa nel populismo?

C'è un'insidia in questa domanda, se si pensa che l'accusa di populismo è sempre stata brandita contro la destra. Secondo la cultura unanime del centrosinistra, l'istinto demagogico appartiene all'indole del Pdl e dei suoi capi, a cominciare dal populista principe Silvio Berlusconi, dato che un marcato atteggiamento antistituzionale è stato la cifra continua negli slogan, nelle proteste e negli atti della destra: contro le tasse, contro l'euro, contro le regole, contro i partiti, contro i "comunisti", contro i giudici, contro i fannulloni, contro gli stipendi degli insegnanti.

A rigor di termini, l'ideologia e la vocazione populista si realizzano nell'intenzione di trasformare immediatamente in leggi la cosiddetta volontà popolare. L'attuale governo ne è un esempio plateale, con i ministri (in particolare Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Roberto Calderoli) impegnatissimi a disporre pacchetti di riforme, anche per decreto, cercando comunque di superare di slancio il disturbo delle discussioni parlamentari. Ecco la Finanziaria approvata in Consiglio dei ministri nel giro di nove minuti e mezzo, ecco l'assurda Robin Tax, tassa discrezionale "contro la speculazione petrolifera" e contro le banche, quando sembrava che petrolieri e banche facessero profitti troppo alti grazie alla congiuntura; e poi l'esercito in tenuta campale nelle strade, il federalismo affidato a una delega generica e caotica, i tagli alla scuola che idealizzano strumentalmente l'età delle mezze stagioni e dei grembiulini.

Non conviene nascondersi che, di fronte al forcing comunicativo del Pdl, il centrosinistra ha mostrato finora armi spuntate. In parte per le ripercussioni politiche e psicologiche della sconfitta elettorale, ma in parte anche per una specie di sfasatura rispetto alle iniziative del governo. L'azione politica del Pd veltroniano, infatti, si svolge in genere su un piano differente rispetto a quello della maggioranza berlusconiana. La cultura democratica prevalente è largamente rivolta verso la sfera dei diritti, evoca battaglie culturali nel nome dell'antifascismo, combatte il razzismo e la xenofobia, si concentra sulle pari opportunità e contro le discriminazioni, nel nome del rispetto di una consapevole cultura costituzionale.

Sono tutte tematiche sacrosante, ma per il momento poco producenti nella battaglia politica in corso. Hanno la veste di posizioni filosofiche più che di strumenti politici utilizzabili nel confronto. Confermano l'elettore del centrosinistra di essere nel giusto, convincono i già convinti, ma almeno nel breve periodo non allargano l'area del consenso. Mentre dovrebbe essere chiaro che, se non vuole restare politicamente subalterno (cioè "minoranza strutturale", secondo la definizione di Massimo D'Alema), nelle prossime stagioni il problema centrale del Pd consisterà non tanto nel confermare i propri elettori, bensì nel tentare di staccare pezzi di elettorato dall'area berlusconiana.

A questo scopo, il centrosinistra deve riuscire a spiegare, prima a se stesso e poi all'opinione pubblica, che il riformismo è sì politica delle compatibilità, ma che ciò non esclude affatto un principio di radicalità. Perché la radicalità è uno strumento che serve a perseguire due obiettivi: a individuare con nettezza i problemi, e a suscitare identità.

Vero è che occorre intendersi su quali ambiti convenga essere radicali. Cioè i punti su cui esercitare una pressione politica efficace. Al di là dall'incertezza generale suscitata dalla recessione, sarà il caso di vedere con chiarezza che Pdl è all'attacco sul terreno socio-economico, ha in mente una politica chiara, tesa a corporare gli interessi in un blocco sociale permanente. L'eclettismo berlusconiano sui principi di fondo e sui "valori" consente alla destra di assumere le posizioni di volta in volta più convenienti, specialmente nel rapporto con la Chiesa; ma sugli interessi non si scherza mai. Il Pdl avrà pure commesso errori strategici (in particolare predisponendo misure economiche depressive, cioè i tagli, in una fase di crescita zero), ma ha chiarissimo l'obiettivo unilaterale di favorire i ceti a cui può offrire una conveniente casa comune.

Ebbene, in una situazione simile il Pd non può permettersi il lusso di disputare una partita diseguale, ossia di rispondere a una politica economica aggressiva con una serie di rivendicazioni intellettuali, civili, filosofiche. È vero che il codice della lealtà repubblicana e di una modernizzazione guidata da criteri di apertura culturale sono essenziali per stabilire una differenza qualitativa rispetto alla destra: una laicità radicale è un elemento essenziale di identità politica rispetto al clericalismo opportunista di Berlusconi; così come un'idea avanzata ed europea della riforma della scuola è necessaria per rispondere in modo radicale (e nello stesso tempo con buonsenso) alla striminzita restaurazione della Gelmini.

Ma in questo momento ci vuole innanzitutto uno strenuo esercizio di radicalità per mettere allo scoperto i pilastri della politica del Pdl. Il "populismo" della sinistra riformista dovrebbe essere la leva per concentrarsi sulle contraddizioni della coalizione di centrodestra, per richiamare su di esse l'attenzione dei cittadini e per provare a sgretolarle. Altrimenti la politica italiana resta divisa in due corpi separati, ognuno dei quali gioca la sua partita indipendente: solo che la destra si fa gli affari, la sinistra nutre buoni sentimenti con il rischio, alla fine, di vederli trasformati in frustrazione permanente.

E invece no: per uscire dal cerchio del consenso magico del Re Silvio, dalla stregoneria comunicativa indipendente dagli eventi reali, occorre anche quel tanto di realistica asprezza che induce a parlare di cose elementari. Quindici milioni di italiani intorno alla linea della povertà. I negozi di quartiere deserti. I salari falcidiati dall'inflazione, che invece favorisce chi può ancora manovrare i prezzi. Il lavoro dipendente sacrificato alle necessità della concorrenza globale; e nello stesso tempo settori commerciali già in crisi per la flessione dei consumi determinata dall'erosione dei redditi medi.

Insomma, è il caso di tornare a mettere il dito su fenomeni a loro modo brutali. E per farlo ci vuole la schietta radicalità implicita nel parlare di cose vere, cioè di soldi, di redditi, di bilanci famigliari, di profitti, di problemi reali dell'economia. Per la sinistra riformista, la sfera degli interessi è stata in passato confinata in fantasmi contabili come il Pil, il debito, il deficit, l'avanzo primario. In seguito si è praticato un tentativo quasi eroico di reinterpretare da sinistra le categorie liberali del merito e della concorrenza, come strumenti per scardinare la disuguaglianza sociale.

Adesso occorre essere convincenti in profondità: non è sufficiente il cervello, la razionalità, la linearità dell'analisi. Ci vogliono anche il sangue, i polmoni, il cuore. Quel tanto di cattiveria che consente di parlare alla pancia della nostra società e di attaccare la destra sul suo stesso terreno e con realistiche possibilità di successo. (Benissimo la moral suasion su Guglielmo Epifani, ma non si dovrebbe dimenticare che la migliore critica all'operazione Alitalia è venuta dal radicalismo televisivo di Milena Gabanelli, non dal governo ombra).

Il Circo Massimo serve a ricordare che è venuto il momento di mettere il naso nella concretezza. Di tentare con adeguata forza polemica di dissolvere i fumi berlusconiani del consenso gratuito. Il populismo possibile della sinistra significa che occorre guardare alla realtà vera del nostro paese, alla sua vita quotidiana. Nonostante la prevalenza del virtuale, la politica è ancora scontro di posizioni, delimitazione fra scelte incompatibili, contrapposizione di soluzioni apertamente alternative. In questo senso, il populismo, interpretato con intelligenza da sinistra, non è un ibrido incoerente: è semplicemente lo strumento per dare una voce a un'Italia che fino a oggi ha rischiato di restare attonita e muta.

(25 ottobre 2008)
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Cacciari all'attacco: Lascio la scena ai demagoghi

Messaggioda franz il 25/10/2008, 14:58

Il primo cittadino: «Lascio la scena ai demaoghi. Veltroni e Berlusconi»
Nel Pd-day Cacciari all'attacco:
«Lascio la scena ai demagoghi»
A Roma la manifestazione dei democratici. L'affondo del sindaco di Venezia: «Non me ne frega niente»

Immagine
Massimo Cacciari (Emblema)

ROMA - Il giorno del Pd day è arrivato. Walter Veltroni alla prova della piazza annuncia che la manifestazione sarà «quella di un'opposizione serena che non divide il Paese, di un'opposizione sempre più forte e netta, ma che ha come obiettivo quello di servire l'Italia e di essere di aiuto al Paese». E il numero due del Pd Dario Franceschini, mentre accoglie alla stazione di Roma Ostiense i treni speciali organizzati dal Pd per i militanti che partecipano alla manifestazione «Salva l'Italia» spiega che «Berlusconi deve rassegnarsi: in democrazia c'è l'opposizione e oggi vedrà che è forte». Intanto però il segretario dei democratici deve fare i conti con le critiche della maggioranza e con le perplessità espresse anche da alcuni dei suoi. Chi non usa mezzi termini nel palesare i propri dubbi è Massimo Cacciari, uno dei grandi assenti al Circo Massimo. «Cerco di portare a termine il mio mandato e lasciare la scena ai demagoghi, a coloro che hanno la vocazione a guidare il popolo: ai Veltroni e ai Berlusconi, a destra e sinistra» è stato l'affondo del sindaco di Venezia intervenuto ad Omnibus in onda su La7. «Della manifestazione non me ne frega niente. Non mi preoccupa - ha aggiunto Cacciari - la manifestazione, ma che il governo ombra non abbia prodotto assolutamente nulla».

«AVREI PREFERITO PROPOSTE CONCRETE» - «Mi augurerei - ha proseguito il primo cittadino di Venezia - che il Pd mi dicesse come si intende organizzare e cosa dice su scuola, crisi finanziaria e Alitalia. Mi sembra un`invenzione strana organizzare una manifestazione di protesta con cinque mesi di anticipo. Avrei preferito - conclude l’esponente del Pd - che il Pd avesse elaborato delle proposte concrete sul federalismo fiscale, non lasciando lo spazio allo spot di Lega Nord e Berlusconi, e su questo disastro della scuola».

RIFONDAZIONE E NUOVE ALLEANZE - Cacciari ha anche parlato, apostrofandolo come un «suicidio» dell'ipotesi di una nuova alleazna tra il Pd e Rifondazione. «Il Pd si suiciderebbe se riallacciasse un'alleanza con Rifondazione come quella del governo Prodi, contraddirebbe totalmente le ragioni storiche della sua nascita» ha detto il sindaco di Venezia. «Di Pietro - ha aggiunto Cacciari - è una riserva che proviene da Tangentopoli, dalla crisi degli anni '90, è una rendita di posizione pura e semplice».

25 ottobre 2008
http://www.corriere.it/politica/08_otto ... aabc.shtml
Ultima modifica di franz il 28/10/2008, 9:38, modificato 2 volte in totale.
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda pierodm il 28/10/2008, 2:43

Non è un caso - non può essere un caso - che da tanto tempo ormai i discorsi sulla politica che mi trovano d'accordo non siano mai fatti da politici.
Quest'articolo di Berselli è l'ennesima conferma, e chi legge questo forum (prima ancora, la vecchia ML) sa che sostengo le "ragioni del cuore" , e dello stomaco, da molto tempo.

Per una non strana coincidenza, mi ero collegato stasera col forum con l'intenzione di scivere qualcosa sulla povertà, e sulle condizioni reali di tanta hgente e di tanto mondo.
L'occasione decisiva me l'aveva data, qualche ora fa, un film che avevo visto assolutamente per caso: un film che non saprei nemmno giudicare se fatto bene o male, data la forza dell'argomento che ne era la sostanza in forma quasi didascalica.
Il tema conduttore era il commercio e la vendita di organi nei paesi del terzo mondo.
Ha ragione Berselli, quando dice che questo e altri argomenti suonano come "filosofia" agli orecchi di un elettorato impaurito dalla crisi economica.
Ma il collegamento d'idee, per me, è avvenuto inevitabilmente, con il titolo appunto della "povertà", ossia della condizione esistenziale che si manifesta in tante forme diseguali nelle varie parti del mondo, e in Italia.
Tentando di dare un'ordine alla serie confusa dei sentimenti e delle idee che mi si accumulavano sull'argomento, un concetto è tornato a galla da antiche reminiscenze. Un concetto che può fare da guida per ragionare intorno ai "sistemi" nei quali esiste la povertà.
Un sistema dev'essere valutato per ciò che è la sua parte più debole. La politica e l'economia, per la povertà che consentono o che producono.
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda franz il 28/10/2008, 9:56

pierodm ha scritto:Un sistema dev'essere valutato per ciò che è la sua parte più debole. La politica e l'economia, per la povertà che consentono o che producono.

Ripartendo da un recente discorso, ribadisco che non esiste produzione di povertà ma solo di ricchezza, che si distribuisce in modo ineguale. Ho appena finito di leggere un libro di applicazioni fisico-matematiche applicate all'economia, alla società ed al comportamento umano ed emerge una tesi interessante: la distribuzione ineguale della ricchezza non sarebbe dovuta al sistema economico particolare (o ad un sistema particolare) ma sarebbe una carattersistica intrinseca di ogni fenomeno in cui si crea ricchezza. Anche le diverse tesi, di destra e sinistra, sui motivi della disparità, sarebbero falsi. I demagoghi (ma solo per ignoranza) sarebbero tutti. Una analisi scientifica del fenomeno "disegualianza" porta a notevoli scoperte.
Non si tratta di cose che si riassumono facilmente. la scienza è fatta di esperimenti, tabelle, grafici e già un libro di 200 pagine è un riassunto divulgativo che banalizza molti passaggi. In 20 righe non saprei cosa scrivere che non sia cosi' banale da essere ridicolo. Certo è che la scienza sta facendo grandi progressi in tantissime cose e cio' comporta che arrivi la luce dove prima c'era il buio e dominavano o demagoghi. E per questo che colpisce il seguente aforisma: "possiamo dividere il mondo in due parti, chi spera che la scienza arrivi a fare luce su tutto, ... e chi lo teme".

Ammettiamo che si arrivi alla determinazione scientifica che la diseguale distribuzione della ricchezza sia un fattore intrinseco alla produzione stessa (a qualsiasi produzione, primitiva, socialista, liberista, etc) e che questo abbia la stessa forza logica per cui ora sappiamo che la terra gira intorno al sole e non viceversa. Finirebbero il populismo e la demagogia sia di sinistra che di destra (nonché quella religiosa e pauperistica) e potremmo concentrarci sui meccanismi piu' efficenti di redistribuzione.
Ecco, sarebbe una rivoluzione "copernicana" nella politica.

Ciao,
Franz
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda soniadf il 02/11/2008, 0:57

"Ripartendo da un recente discorso, ribadisco che non esiste produzione di povertà ma solo di ricchezza, che si distribuisce in modo ineguale".

La cattiva distribuzione della ricchezza, allora, produce povertà. Va bene così? O la produzione della ricchezza è un fatto indipendente, che non è legato ai vari fattori della produzione: il capitale, il lavoro, il management, il sistema produttivo, la società, il mercato? Che la produzione della ricchezza preveda automaticamente la sua ineguale distribuzione è una tesi fondata sui rapporti di forza esistenti in un certo sistema economico, e una sua più equa distribuzione dipende solo da un mutamento nei rapporti di forza, favoriti dalla politica, da nuove regole, da un nuovo clima sociale, perchè, alla fine, un sistema si rivela più equilibrato quando persegue il bene di molti rispetto al bene di pochi.
La produzione della ricchezza non è un capolavoro imprenditoriale indipendente dal sistema paese, non è figlia di un capitale senza lavoro e senza idee, nè riesce a moltiplicarsi se non viene reimmessa nel circuito produttivo. Tutto questo avviene se c'è redistribuzione, equa, non uguale per tutti, perchè il merito e l'esclusività di certi apporti saranno sempre premiati.
Qui si parla di una situazione insostenibile, dove il lavoro consente la mera sopravvivenza, come agli albori del capitalismo. Socialdemocrazia, sindacalizzazione, dignità del lavoro: è proprio vero che niente è mai acquisito per sempre.
E poi...la rivoluzione francese! In un recente studio universitario, si è dimostrato che la monarchia assoluta è il miglior regime possibile in una società con grossi flussi migratori.
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda franz il 02/11/2008, 10:39

soniadf ha scritto:La cattiva distribuzione della ricchezza, allora, produce povertà. Va bene così? O la produzione della ricchezza è un fatto indipendente, che non è legato ai vari fattori della produzione: il capitale, il lavoro, il management, il sistema produttivo, la società, il mercato? Che la produzione della ricchezza preveda automaticamente la sua ineguale distribuzione è una tesi fondata sui rapporti di forza esistenti in un certo sistema economico, e una sua più equa distribuzione dipende solo da un mutamento nei rapporti di forza, favoriti dalla politica, da nuove regole, da un nuovo clima sociale, perchè, alla fine, un sistema si rivela più equilibrato quando persegue il bene di molti rispetto al bene di pochi.

No, non mi sono spiegato bene. La provertà non si produce. C'è. E' presente da decine di migliaia di anni. E' la condizione di fondo dell'essere umano, che sopravvive a stento. L'evoluzione culturale ha prodotto società in grado di produrre ricchezza, in misura sempre maggiore e per un numero sempre maggiore di abitanti. Tra l'altro anche il povero di oggi, sta sicuramente meglio del principe o del vescovo di 400 anni fa.
Che la ineguale distribuzione sia dovuta ai rapporti di forza (o altre cose) è una tesi (o ipotesi) facilmente falsificabile e ne ho appena letto la confutazione su basi scientifiche. Con un esperimento.

Si crea un modello informatico in cui si inseriscono migliaia di moduli in grado di simulare transazioni economiche.
Le transazioni economiche sono di due tipi: la prima prevede che gli attori comprino e vendino cio che viene prodotto, realizzando un guadagno; la seconda prevede che il guadagno venga investito. Ovviamente alcuni investimenti possono andare bene, altri male. Tutti gli attori nel programma sono uguali quanto a capacità di agire nei due tipi di transazioni. Il programma viene fatto girare simulando migliaia di transazioni tra le "persone" ed il trascorre del tempo. Il programma è stato realizzato (Bouchard e Mèzard) ed eseguito piu' volte e si vede che pur partendo da condizioni di partenza uguali alla fine la ricchezza è distribuita in modo diseguale.

E questa ineguale distribuzione non dipende dalla bravura o dalle condizioni di partenza. Non solo, ma è dello stesso tipo che si riscontra nella realtà: esponenziale.

Noi oggi siamo abituati a leggere le semplificazioni per cui il 20% dei ricchi americani detiene l'85% della ricchezza. Questa percentuale è simile in europa ed in tutti i paesi sviluppati. Nei paesi in via di sviluppo è il 10% che detiene il 90% ed in quelli poveri è il 5% che detiene il 90~95 della ricchezza. In realtà già Pareto un secolo fa si era reso conto di questo ma in piu' scopri' che il numero di persone falcoltose (W) è inversamente proporzionale a (W elevato ad a) dove "a" è un numero che sta tra 2 e 3. In altre parole il numero di ricchi diminuisce nella misura della ricchezza elevata a 2.5
Questo disegna una curva di potenza che spiega il numero dei milionari, di chi ha decine di milioni, di chi ha centianaia di milioni, dei miliardari. Al crescere della ricchezza il numero di ricchi diminuisce in modo "non lineare" ma "quadratico" con una precisa formula matematica (appunto quella trovata da Pareto).

Ebbene, nella simulazione computerizzata, è emersa, dopo migliaia di iterazioni del programma, la stessa formula di distribuzione. Eppure le basi di partenze e le abilità erano identiche per tutti.
Viene quindi falsificata l'idea che la distribuzione iniqua sia dovuta ad un complotto malvagio dei ricchi, cosi' come viene anche falsificata l'idea che la diversa distribuzione sia dovuta esclusivamente al merito ed alla bravura di chi è ricco.
In realtà la distribuzione esponenziale è perfettamente casuale.
Quindi fine del populismo di sinstra e di destra in campo economico, pls.

Usciamo dalle simulazioni al computer e torniamo alla realtà. Sicuramente nel mondo relae le condizioni di partenza NON sono uguali e le abilità neppure. La distribuzione disomogenea che osserviamo è quindi dovuta anche ai fattori che possiamo immaginare: bravura di alcuni attori, disparità di partenza. L'esperimento pero' ci dice che anche se noi eliminassimo tutte le disparità di partenza ed avessimo 6 miliardi di abitanti tutti capaci in modo uguale di fare business, comprando, vendendo ed investendo, dopo 200 anni avremmo ancora la distribuzione disomogenea di tipo proporzionale quadratico inverso.

Assodato questo, si tratta secondo me di capire due cose:
a) in ogni casi la produzione sempre maggiore di ricchezza assottiglia il numero dei poveri, come si vede confrontando il rapporto 20-80 tipico del mondo occidentale, con quello 10-90 dei paesi in via di sviluppo e 5-95 dei paesi poveri.
b) come tentare ridistribuire.

Mi fermo qui perché di carne ne ho messa molta, al fuoco.

Ciao,
Franz
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda pierodm il 02/11/2008, 11:40

La povertà non si produce, ma "c'è" - dice Franz.
E' vero: c'é.
Ma come facciamo a chiamarla "povertà", se si tratta - secondo Franz - di uno stato primordiale e "naturale" che non prevede aggettivi o definizioni?
Evidentemente quello stato diventa "povertà" solo in presenza di una sistema sociale diseguale, in cui i valori non sono più primordiali ma derivano dal meccanismo stesso del sistema produttivo.
La povertà, in sostanza, è un valore politico-economico, e non uno stato antropologico millenaristico.
Quindi è un aspetto del sistema. In senso lato un "prodotto" del sistema.
Probabilmente in questa difficoltà d'intendersi c'entra anche qualche equivoco in termini e concetti.
Per esempio, la confusione tra povertà e disuguaglianza: si può essere meno ricco di un altro, ma non per questo essere povero.
E poi, il concetto di "prodotto", che nell'idea di Franz rientra in un quadro vetero-industriale, ossia come fosse un oggetto fabbricato dal sistema, laddove nel nostro discorso dev'essere inteso come "uno degli effetti di un sistema economico-politico".

Forse riusciamo ad essere più chiari con una metafora. Prendiamo il sistema educativo, inteso come complesso delle azioni familiari, scolastiche e comunicative.
Ad un anno di vita il bambino non "sa" niente.
Dopo di che nei dodici anni successivi entra in gioco il sistema educativo.
A tredici anni, esiste fatalmente una gran parte dello scibile che il ragazzo "continua a non conoscere", essendo appunto l'ignoranza come la povertà "naturale" di Franz.
Ma esiste anche una certa quantità di conoscenza, che è il suo patrimonio culturale dato dal sistema educativo.
Se questo patrimonio culturale lo mette in grado di capire e di farsi capire dalla società in cui vive, se lo mette in grado di sopravvivere, se non lo emargina dal contesto, sia pure in una condizione di disuguaglianza, allora il ragazzo non è "ignorante".
Se avviene il contrario, è lecito e corretto parlare di "ignoranza". E parlare di ignoranza come effetto, o prodotto, del sistema educativo. A prescindere dal fatto che due secoli fa, o mille anni fa, un tredicenne figlio di contadini, o di commecianti, o di nobili, "sapesse" più cose o meno "cose" del tredicenne di oggi.

Passetto dopo passetto, forse riusciamo a capirci, se non ad essere d'accordo.
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda franz il 02/11/2008, 12:21

pierodm ha scritto:Probabilmente in questa difficoltà d'intendersi c'entra anche qualche equivoco in termini e concetti.
Per esempio, la confusione tra povertà e disuguaglianza: si può essere meno ricco di un altro, ma non per questo essere povero.

Una cosa per volta. Da quasi un secolo abbiamo abbandonato il concetto di povertà assoluta (descrivibile come il non raggiungimento di standard minimi alimentari di sopravvivenza) in favore del concetto di povertà relativa, dove quindi si è poveri relativamente a quanto non lo sono gli altri.
Nel primo caso un piatto o due di lenticchie al giorno (o un certo numero di calorie) ed un tetto sutto cui dormire bastavano per fare uscire il povero da quella definizione.
Oggi data una ricchezza media procapite si definisce povera una certa fetta della popolazione che è distante da quella media.
Ovviamente il concetto realtivo rende differente l'essere povero in Kenia dall'esserlo in Lussemburgo.
Oggi quindi il povero in italia (e dove c'è sviluppo) viene definito statisticamente, come colui che ha un reddito inferiore ad una certa soglia. A sua volta la soglia è relativa al reddito mediano (non medio, anche se è una sottigliezza che pochi possono cogliere).

Il tuo esempio sui saperi è interessante ma parziale.
I saperi si scambiano, ma anche si producono.
Chi sa di piu' puo' produrre, chi sa di meno difficilmente lo farà.
Questo divarica la distribuzione dei saperi. I saperi di oggi sono diversi da quelli di 300 anni fa e sono in costante crescita.

La differenza tra il mondo della produzione (e scambio) di ricchezza ed il mondo della produzione (e scambio) dei saperi esiste. Nel sistema economico un investimento puo' andare male ed uno perde tutto o quasi. Nel mondo culturale un pessimo sapere invece puo' rimanere a lungo nel pool delle cose sapute (e ritenute vere) come ad esempio accadde per il sole che girava attorno alla terra (piatta) ed accade ancora oggi per gli oroscopi.
Il mondo degli scambi economici quindi è molto piu' spietato e selettivo.
Nel mondo culturale certe idee bislacche ed insane durano molto piu' a lungo.
Passetto dopo passetto, forse riusciamo a capirci, se non ad essere d'accordo.

Concordo, ma appunto facciamo un passetto per volta.
Oggi sappiamo che la terra gira intorno al sole, domani sapremo che la distribuzione disuguale della ricchezza prodotta è dovuta alla casualità, non alla malvagità degli avidi capitalisti o da ineguali condizioni di partenza.
La scienza sorprende, lo sappiamo, e sappiamo anche le resistenze che generano certe scoperte.

Ciao,
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda soniadf il 03/11/2008, 2:39

Caro Franz,
l'equivoco nasce dal fatto che parliamo di due cose diverse: la povertà come concetto economico e la povertà come concetto politico.
In economia, la povertà, come concetto, è marginale. I dati importanti sono il profitto, la produzione, i bisogni.
La povertà è il residuo di un'economia, il cui fine non è la scomparsa della povertà, ma il perseguimento del massimo utile con il minimo mezzo.
la politica è nata sulla scia di un'idea di società giusta ed equa, che si incarichi di raddrizzare le storture e di limitare il potere del più forte attraverso il diritto ed altre regole che si rendano necessarie man mano che le condizioni si evolvono e diventino via via più complesse.
La moderna economia vige, nel complesso, da ben poco tempo. Prima, monarchi e feudatari avevano il diritto di appropriarsi dei beni prodotti dai sudditi, la finanza conosce fasti e nefasti borsistici da altrettanto poco tempo, la borghesia gode della libertà di arricchirsi e di votare dalla caduta degli stati assolutisti, l'industrializzazione non è morta in seguito alla sindacalizzazione degli operai, e via dicendo.
Intendo dire che le svolte politiche hanno modificato l'economia, tanto quanto l'economia condiziona talvolta le scelte politiche.
Ma l'economia ha la capacità di adattarsi alle condizioni date per raggiungere il famoso obiettivo del massimo utile con il minimo mezzo: si tratta, politicamente, di imporre all'economia condizioni di maggiore equità redistributiva a cui adattarsi, così come, nel medioevo, il mercante sapeva di dover pagare pedaggi e permessi al feudatario, tasse al re, paramenti alla Chiesa.
La povertà, in politica, è uno scandalo. Ed una politica che si sottometta ad una economia che genera più disuguaglianza fallisce il suo obiettivo o persegue obiettivi collaterali, che non possono ricondursi al bene comune.
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Re: Per un populismo della sinistra

Messaggioda franz il 03/11/2008, 9:44

l'equivoco nasce dal fatto che parliamo di due cose diverse: la povertà come concetto economico e la povertà come concetto politico.

La povertà è un lato della medaglia - un residuo, come dici, della produzione di ricchezza e come tale è un concetto economico. Non vedo come possa essere un concetto politico (salvo per i pauperisti). Caso mai è un problema politico (della polis) e morale.

Se abbiamo convenuto, come mi pare, che spetta all'economia produrre ricchezza, sappiamo da millenni che le comunità (dalle antiche polis allo stato moderno) hanno altri compiti che servono a mitigare questa distribuzione asimmetrica, arrivando alle moderne politiche redistributive.

Quello che pero' volevo far capire è che possiamo mettere in piedi tutte le ridistribuzioni che vuoi (anche al livello coercitivo) ma il problema della disparità di ricchezza rimane, per la natura stessa del meccanismo di produzione. E che se si esagera con le politiche redistributive, soprattutto quelle coercitive, la produzione di ricchezza cala e rimene poco da redistribuire. Se hai seguito l'esperimento che ho citato, che come esperimento puo' essere ripetuto e verificato da ogni scettico, la diseguale distribuzione è dovuta principalmente ad uno dei due meccasimi economici (scambio ed investimento). Esattamente il secondo. La produzione e lo scambio di beni e servizi sono iniziati 10'000 anni fa e li' è nato il concetti di profitto e di reinvestimento degli utili. Ma come dicevo un investimento puo' andare male. Come investimento non penso tanto al moderno investimento finanziario ma a qualsiasi operazione che richiede un capitale oggi per avere un probabile frutto domani. Quindi anche prendere alcuni quintali di grano e seminarli per avere tra 6 mesi un raccolto è un investimento. Un investimento che puo' andare male per tanti motivi. Naturali: siccità, cavallette, alluvioni, malattie virali e batteriche, incendi. Umani: furto e depredazione del raccolto, passaggio di un esercito o di una popolazione in fuga sul campo. Chiaramrente dato che le cose possonio andare male, dopo un po' avremo persone con piu' risorse ed altre con meno. Chi ne ha meno avrà meno possibilità di investire e scambiare. Anche una iniziale condizione di partenza "uguale per tutti" dopo qualche scambio economico e qualche investimento porterà alla disugualianza. Dovuta al puro caso o alla azione degli uomini.

Lo Stato, inteso come collettività, nasce per poter minimizzare i danni (e quindi i rischi) legati alle azioni umane (furto) in cambio pero' di un importo (tasse). La cosa funziono' perché la produzione di ricchezza era tale che rendeva possibile una società basata sulla divisione del lavoro ed essa compredeva chi, invece di seminare, difendeva il raccolto ed i granai dai furti e da altri eserciti.

Ma non tutti i rischi possono essere abbattuti, quindi una nave con il suo carico puo' affondare per una tempesta o essere presa dai pirati (furto, depredazione e pirateria sono meccansimo di ridistribuzione coercitivi). Uno puo' perdere tutto in poco tempo. L'assimetria è evidente. Ci vuole molto per accumulare, molto meno per perdere.

Fintanto che non abbattiamo tutti i rischi, la ricchezza si distribuirà nella popolazione secondo l'andamento quadratico inverso che ho descritto, anche se operiamo una parziale o totale redistribuzione.

Tu pensi ad imporre, io penso per esempio ad una assicurazione (meno coercitivo).
Entrambi i metodi potrebbero essere inseriti nel modello computerizzato che illustravo per vedere come funzionano.

Penso che a certe condizioni di uso "soft" possono fare qualche cosa ma se si esagera l'effetto puo' essere controproducente.

Se la coercizione è eccessiva, sempre meno attori rischieranno il loro capitale per investire in nuove attività.
Questo farà calare la produzione di ricchezza e ci sarà meno da ridistibuire in modo coercitivo. Il motore potrebbe anche fermarsi.

Se l'assicurazione funzionasse, molti potrebbero essere tentati di rischiare di piu' (tanto paga l'assicurazione) e questo comporterebbe un premio troppo alto ed una uscita di parecchi dalla assicurazione. Se essa fosse obbligatoria probabilmente si arricchierebbe solo lei ed il problema della ridistribuzione sarebbe ancora presente.

Insomma pare che ogni medaglia abbia il suo rovescio.
Senza utili e profitto non puoi investire. Ogni investimento comporta un rischio e conseguente distribuzione disomogenea.
Chi è bravo (o ha fortuna) si arricchisce di piu' di chi è meno bravo o è semplicemente sfortunato.

Il moralismo non è una soluzione, come non lo è il populismo.

Idee?

Ciao,
Franz
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