da pierodm il 12/01/2011, 0:55
Essere delusi dal proprio partito, o da un partito in generale, è facile dirlo: dipende da cosa ci ha deluso di quel partito, e perché, ossia bisogna vedere quali sono le colpe che gli addebitiamo.
Chi partecipa a queste sedi di discussione da più tempo forse ricorda quali sono le colpe che io ho visto e sottolineato fin dalla metà degli anni '90 nel PDS, poi DS: l'indecisione su tutto, il prendere una posizione e poi mollarla, la sindrome della perenne legittimazione.
Per questo sono molto d'accordo con questo articolo di Flores D'Arcais.
PD, dalla Fiat non si scappa
di Paolo Flores D'Arcais
Il Partito Democratico riunisce la sua direzione mercoledì 12, e i “rottamatori” di Civati e Renzi il giorno prima riuniscono la loro. L’assemblea che hanno indetto ha per titolo, infatti, “La giusta direzione”, una trovata carina, giocando sulle parole, con la quale vogliono alludere alla necessità di una diversa linea politica, ma insieme – e soprattutto – legittimarsi come la “vera” direzione del partito degli elettori, a delegittimazione di quella ufficiale di Bersani and Co., obsoleta, autoreferenziale e perciò in caduta libera di consensi.
Vedremo se fanno sul serio. Una “giusta direzione”, per essere tale, ha bisogno di un prerequisito irrinunciabile: farla finita con lo slalomismo e il ponziopilatismo che ormai da troppi anni (a dire il vero fin dalla sua nascita) caratterizza le (non) scelte del Pd. La sequenza delle date, del resto, non perdona: l’11 i “rottamatori”, il 12 la direzione ufficiale del Pd, ma il 13 e il 14 il referendum di Mirafiori, che dovrà pronunciarsi sul diktat di Marchionne, con un voto degli operai che si svolge nei tempi, alle condizioni, con il clima mediatico e psicologico pretesi e imposti da Marchionne stesso.
Perciò: direzione ufficiale del Pd, e “giusta direzione” dei rottamatori, devono in primo luogo decidere se intendono parlare ai cittadini o se vogliono perdurare nel diabolicum del parlarsi addosso. Il tema della prossima settimana, in Italia, è il referendum di Mirafiori, chi svicola, chi non prende posizione, può illudersi di fare politica, di essere una presenza pubblica, di contare qualcosa, in realtà si è già condannato all’insignificanza.
Cosa diranno perciò rottamatori e “ufficiali” sul diktat marchionnesco che toglie il diritto di sciopero e abroga la rappresentanza degli operai e delle organizzazioni sindacali che al diktat sono contrarie? Cosa diranno della rivolta sindacale e morale che contro questo obbrobrio anticostituzionale è stata promossa dalla Fiom di Landini, e ha ottenuto l’immediato e appassionato avvallo dell’ultimo grande (e moderato!) leader sindacale della Cgil, Sergio Cofferati (che della Fiom fu sempre critico)? Cosa diranno della svolta che alla Cgil sta imprimendo Susanna Camusso (di svolta ormai si tratta, visto che la “firma tecnica” a cui vuole costringere la Fiom è incompatibile con lo statuto della Cgil, come ha ricordato proprio Cofferati, che quello statuto lo conosce indubitabilmente)?
Sulla vicenda Marchionne-Fiom non ci si può esimere dall’evangelico “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal demonio” (Matteo, 5,37), visto che è Marchionne ad aver posto la questione in termini ultimativi (oltre che ricattatori): aut aut, prendere o lasciare, mangiare questa minestra o saltare dalla finestra. Senza margini per trattative, e neppure per discussioni verbali. È perciò patetico sentire le lamentose giaculatorie dei distinguo con cui i D’Alema e i Bersani cercano di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, la “modernità” e le supposte “valenze positive” del diktat di Marchionne con il dovere di riconoscere la rappresentanza anche degli operai Fiom (e magari di tutti gli operai, non vi pare?).
La cancellazione della Fiom non è infatti un “optional” nel pacchetto di Marchionne, ma ne rappresenta il cuore (nero), la ragione sociale, la quintessenza alchemica. L’irrinunciabile, insomma. È stato autorevolmente ricordato, infatti, che il costo del lavoro degli operai di Mirafiori incide sul prodotto finale per circa il 7%, e che dunque non è l’ulteriore giro di vite sulla fatica alla catena imposto ai lavoratori che renderà più competitiva – fosse anche di un’anticchia – l’autovettura che arriverà nelle concessionarie. Al limite, Marchionne domani potrebbe ripristinare quei dieci minuti di “respiro” che ha voluto togliere a chi alla catena si spreme (l’agenzia sanitaria europea considera che per tutelare le condizioni elementari di salute dovrebbe essere obbligatoria una pausa di dieci minuti ogni ora!), quello su cui non può transigere è la soppressione di ogni potenziale di conflittualità operaia organizzata, cioè un sindacato degno di questo nome.
Ma proprio perché questa è la reale posta in gioco, la lotta dei metalmeccanici di Landini dovrebbe essere la lotta di tutti i democratici italiani. Se la soppressione di fatto di un sindacato-sindacato passa a Mirafiori, sarà l’inizio dell’esondazione per seppellire i diritti in tutti i luoghi di lavoro.
Ma nella società non ci sono compartimenti stagni: se un diritto costituzionale viene spazzato via in un comparto dell’esistenza fondamentale come il lavoro, il rischio del contagio è certezza. Del resto l’epidemia anticostituzionale si è scatenata da tempo, contro i giornalisti-giornalisti, i magistrati-magistrati, e insomma i cittadini-cittadini, con le leggi berlusconiane solo provvisoriamente fermate dalle lotte della società civile (quello che ne resta).
La politica di “un colpo al cerchio e uno alla botte”, che sembra essere ormai l’unica stella polare dei dirigenti Pd, in realtà non è affatto equidistante (neppure l’equidistanza, del resto, quando si tratta di valori fondamentali, sarebbe una virtù). Implica il “sì” al diktat Marchionne, un “sì” che i Bonanni e altri “sindacalisti da compagnia” vogliono all’80%. “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”, questo è il progetto, insomma.
Se ai terminator mediatici di regime non sapranno opporre neppure la chiarezza di un “no” a Marchionne, i Civati e altri Renzi si saranno rottamati da soli.