da pierodm il 19/09/2010, 18:25
Dall'Unità
...Il ragionamento - che Reichlin sta sviluppando da tempo - sui cinque lustri di questa interminabile «fase politica» e sulla difficoltà del Pd «a entrare in partita»: «Continuiamo a litigare sugli schieramenti e sulle alleanze e ancora non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà, né quando. La verità è che non siamo stati in grado di elaborare e di proporre una nostra idea di società».
Questa frase - così appropriata e attuale, così “sulla cronaca” - è stata pronunciata all’inizio della settimana scorsa. E dunque il suo autore oggi avrebbe qualche motivo per accogliere la polemica attorno alle dichiarazioni di Veltroni con la soddisfazione di chi vede confermata una tesi. Solo che Alfredo Reichlin - con i suoi 85 anni e la sua lunghissima storia di politico e di intellettuale - evidentemente condivide, anche se per riguardo non lo esplicita, lo stato d’animo della base democratica. Quello che, ormai a ogni “bufera tra leader”, ne produce automaticamente un'altra fatta di «Uff». Insomma, non gli va di parlarne. «Su che cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali? Queste esistono, ma non credo che spieghino tutto»...
Fin dall’incipit: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all’avventura. È in gioco la speranza che l’Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica… Pesa non poco la vanità e l’inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».
Alla base della riflessione (e dell’urgenza), c’è la constatazione di un colossale abbaglio: l’idea che la fine della Guerra fredda avesse segnato l’inizio di un irreversibile progresso e che, in definitiva, il mondo fosse ormai diventato il migliore dei mondi possibili. I progressisti, la sinistra, in questo mondo non avevano più alcuna ragione per sviluppare una diversa idea della società, ma era sufficiente che si limitassero a garantire le “pari opportunità” e a “difendere i più deboli”. Come se la fine dell’utopia comunista dovesse necessariamente segnare la fine dell’utopia nella sua funzione di idea-forza. Tutto questo mentre l’economia mondiale veniva sovvertita dal crescente predominio del capitale finanziario a scapito di quello prodotto dal lavoro. E mentre l’Italia, inebetita dalla lente deformante del berlusconismo, guardava senza capire. Comunque capendo meno degli altri paesi dell'Occidente.
Reichlin - che ha vissuto per intero, dall’infanzia alla maturità, quello che è stato imprudentemente definito “il secolo breve” - ha sempre pensato che “breve” non fosse affatto. Al contrario: mentre si coltivava quell’illusione paralizzante, avveniva un cambiamento epocale. «Qualcosa che è paragonabile alla rivoluzione industriale di fine Ottocento». E così come dalla «folla cenciosa di contadini inurbati, di fanciulli e di donne che massacravano la loro vita davanti alle prime macchine (si parlava anche allora, come oggi alla Fiat, di leggi ineluttabili del mercato)» si arrivò ai sindacati moderni, allo stesso modo il Partito democratico deve cercare le condizioni per «creare una nuova soggettività politica in grado di opporre un’idea di società a questo supercapitalismo mondializzato»...
Col Paese ferito e dilaniato che riprende faticosamente vita. A pagina 54 c’è una frase che ti orienta nella ricerca delle cause dell’imbarazzante sentimento di cui si è appena detto. È la descrizione dello stato d’animo, dopo l’8 settembre, degli allora giovani degli anni Venti: «Tutto diventava possibile. Si erano riaperte, sia pure coperte di macerie, le strade dell’avvenire».
Ecco allora l’origine dell'invidia (ed ecco la ragione per cui quelle pagine sono unanimemente considerate «le più belle»). Siamo a questo punto: abbiamo una tale fame di strade, e abbiamo un tale timore di macerie, che chi conserva la memoria delle strade ed è stato capace di liberarle dalla macerie ci appare il rappresentante di una generazione fortunata. Più fortunata della nostra e, dunque, molto più fortunata di quella dei nostri figli. Una generazione che aveva una visione dell’Italia futura e un bisogno insopprimibile, un’urgenza, di raccontare e migliorare quella presente. Forse «avere un’idea di società» è semplicemente questo.