da Gab il 22/05/2010, 12:00
...
Cari amici e compagni,
in questi giorni eventi drammatici ci hanno di nuovo portato il mondo in casa. Due soldati italiani morti in Afghanistan, altri soldati feriti. Abbiamo espresso il dolore, il cordoglio, la solidarietà. Diciamo che i talebani non possono averla vinta contro il Governo afghano e la comunità internazionale. Diciamo altresì che la comunità internazionale deve mobilitare di più le risorse della politica per ottenere un miglioramento della situazione sul campo anche coinvolgendo le potenze regionali. Con quattromila uomini in Afghanistan l’Italia deve esprimere una funzione politica più significativa. Ribadire il nostro impegno, come è giusto fare, non significa infatti non considerare le difficoltà della situazione.
Un altro italiano muore in Thailandia svolgendo un lavoro prezioso e coraggioso. Anche per questa morte il nostro cordoglio. C’è un mondo pieno ancora di violenza, che non rafforza gli strumenti di governo globali, che non risolve (e a volte non accetta nemmeno di vedere) i grandi problemi della pace e della guerra nelle diverse aree regionali, delle guerre oscurate e dimenticate, dei milioni di profughi, delle migrazioni drammatiche o silenziose; un mondo che non ha ancora la forza di affrontare unito gli insulti arrecati alla terra e all’atmosfera, che non riesce a mettere le briglie a fenomeni incontrollati come i movimenti della finanza; un mondo in cui, d’altra parte, centinaia di milioni di uomini e di donne stanno risolvendo, pur nella crisi, i problemi della fame, della casa, della luce elettrica, dei farmaci essenziali. Da ogni parte ci arrivano segni di un cambiamento epocale di cui scorgiamo anno dopo anno gli aspetti parziali ma che non afferriamo ancora nell’insieme. Nel 2010 la Cina crescerà del 10%, l’India dell’ 8, il Brasile del 7, gli Stati Uniti del 3, l’Europa dell’1. Da anni ormai le cose viaggiano così e in quei dati non c’è più solo della quantità: ci sono grandi correnti di innovazione che promettono una divisione internazionale del lavoro totalmente nuova, un cambio di paradigma, una strada da riprogettare per le nuove generazioni. La crisi finanziaria e la recessione stanno dando una accelerazione forte ai cambiamenti senza, fin qui, incidere sugli assetti regolativi. Prevale ancora l’incertezza. Ma una cosa è sicura. Tutto il mondo si chiede che ruolo avrà l’Europa nel futuro. La fase di globalizzazione prima e la crisi poi hanno certificato che l’Europa non si è data ancora assetti convincenti sul piano istituzionale e su quello economico e sociale.
Del resto ciò è segnalato anche dal termometro della politica. I cicli politici si accorciano e si fanno precari, crescono disaffezione e radicalizzazione, non c’è Governo europeo che non abbia qualche problema di credibilità o di stabilità.
La tempesta finanziaria e la crisi greca hanno determinato un passaggio cruciale. L’Unione Europea di fatto, brutalmente e di necessità, sta di nuovo entrando in una specie di fase costituente. Nell’emergenza si riaffaccia confusamente quell’esigenza di integrazione testardamente negata o smentita per anni. Anche in casa nostra abbondano palinodie e riconversioni. Chi ha azzoppato l’Europa adesso l’invoca.
In questo dirsi tutti europeisti c’è naturalmente la paura del baratro che viene evocato attorno alla tenuta dell’Euro. Forse chi aggredì Prodi quando entrammo nell’Euro si rende conto adesso che senza l’Euro noi saremmo nel Mediterraneo con della carta straccia in tasca.
Ma anche escludendo il baratro, è del tutto irrisolto in Europa il problema dello sbocco di questa nuova fase. Tocca anche a noi, Partito Democratico, dire adesso una parola chiara. Dirla nella dimensione europea e dirla innanzitutto nel concerto dei Partiti progressisti con i quali è urgente una discussione politica franca e risolutiva. A che cosa pensiamo dunque? Ad un’Europa intergovernativa, mercantilista, tutta orientata alle esportazioni, guidata da una Germania che prende il ruolo di una “Grande Svizzera”, a un’Europa che cerca il suo equilibrio finanziario nella riduzione del modello sociale? Dobbiamo sapere che quello che sta avvenendo può portare ad un esito simile. Noi non la pensiamo così. Per noi e per i nostri figli, noi crediamo ad un’Europa federale, con istituzioni pienamente democratiche, orientate alla crescita, al lavoro e ai diritti, con un adeguato sviluppo del mercato interno; condizioni queste indispensabili per qualificare il rigore finanziario. Un’Europa costruita con adeguate cessioni di sovranità e che trovi nell’area dell’Euro la sua locomotiva, anche attraverso cooperazioni rafforzate.
I Partiti Socialisti e Democratici Europei devono comprendere che nel ripiegamento nazionale vince la destra e che le forze progressiste possono trovare una vera funzione solo portando i problemi e le soluzioni alla loro vera dimensione che è quella sovranazionale. Accompagneremo questa visione con una piattaforma da confrontare nelle sedi politiche parlamentari europee in cinque punti, di cui dò i titoli:
1.Una regolazione stringente ed una vigilanza federale dei mercati finanziari (hedge funds, fondi sovrani e attività speculative);
2.Piano europeo per il lavoro finanziato con eurobonds per ricerca e innovazione, politiche industriali, infrastrutture strategiche;
3.Apertura del mercato interno secondo linee guida predisposte nel rapporto Monti;
4.Coordinamento delle politiche fiscali, lotta ai paradisi fiscali, tassa sulle transazioni finanziarie speculative;
5.Apertura in sede WTO di una iniziativa per introdurre standards sociali ed ambientali minimi negli scambi di merci e servizi.
Con la stessa ispirazione di fondo noi vogliamo affrontare la questione nazionale che si è aperta in Italia. Risanamento finanziario, crescita, lavoro, diritti per noi sono parole gemelle. Chi contrappone il risanamento a tutto il resto non ha capito come è fatto questo Paese.
Il problema di questo Paese non è il socialismo della spesa, come ha scritto un autorevole commentatore. Il problema è il populismo e il corporativismo della spesa. Basta guardare le tabelle e vedere dagli anni ’90 ad oggi quali Governi abbiano controllato meglio la spesa corrente e quali l’abbiano fatta crescere di più.
Ma c’è qualcuno che può ancora davvero pensare che se l’Italia rinuncia a una prospettiva riformista e progressista abbia in cambio una prospettiva liberale? Dove sarebbero questi liberali nella destra? No, si aprirebbe una prospettiva corporativa e populista dove ognuno si difende e i forti si difendono di più e meglio, e dove lo Stato e la finanza pubblica vengono assunti come una controparte, un oggetto esterno, una mucca da mungere. Questa è la realtà dell’Italia. Non ci può essere senso del collettivo, della comunità, dello sforzo comune al di fuori di una prospettiva riformista, al di fuori di un rigore che sappia incorporare equità, solidarietà, civismo, lavoro.
Questo nostro Paese sta vivendo un dramma silenzioso. Uno scivolamento rispetto all’Europa e al mondo e una dissociazione interna.
Vorrà pur dire qualcosa se nel 2000 eravamo al 117% della media europea del reddito procapite e adesso siamo al 94. Vorrà pur dire qualcosa se a Trento la disoccupazione giovanili è all’11% e in Sardegna è al 44%.
Ormai non è più un’ipotesi. Noi convergiamo verso le economie più deboli d’Europa e ci allontaniamo dalle economie più forti mentre all’interno il Sud si allontana dal Nord. La crisi ha accelerato questo scivolamento. In due anni abbiamo perso quasi il doppio della ricchezza rispetto all’area Euro. Dovremmo adesso crescere il doppio per tenere il passo. In realtà nel 2010 cresceremo un po’ meno degli altri. La destra non coglie il problema, lo nega, non cerca la chiave di una riscossa nazionale, di un difficile sforzo collettivo. Questa è la sua vera colpa, che può rivelarsi una colpa storica.
La destra minimizza. Concede spazio al modello corporativo, al far da sé di ceti, di categorie, di territori. Ha governato sette anni degli ultimi nove, semplicemente accompagnando questo scivolamento. Non c’è una riforma vera che si ricordi. Ha impostato, a partire dalla legge elettorale, un meccanismo di personalizzazione populista che, sommato al conflitto d’interessi, possiamo chiamare berlusconismo.
Un meccanismo totalmente inadatto a decidere perché tarato sull’accumulazione generica del consenso e non sulle decisioni. Del resto la democrazia populista, per definizione, è una democrazia che non decide. E qui c’è il nesso, lo ribadisco, fra questione democratica e questione sociale. In una società moderna e complessa, in una società europea, solo ammodernando le istituzioni in una democrazia saldamente costituzionale si può decidere e riformare. E possiamo dirlo meglio noi italiani che abbiamo, nei suoi fondamenti essenziali, la Costituzione più bella del mondo.
Questa impossibilità di decidere ha in realtà paralizzato il Governo anche davanti alla crisi. Sostanzialmente il Governo ci ha raccontato che non c’era, o che era alle nostre spalle. Ci è stata fornita una narrazione edulcorata e minimalista secondo la quale in omaggio ai conti pubblici bisognava star fermi. Adesso si scopre quello che avevamo visto ben chiaro: star fermi non ha messo al riparo i conti pubblici. Non c’entra la Grecia. L’unica voce su cui risparmieremo rispetto alle previsioni sarà la spesa per interessi! No. Noi abbiamo avuto previsioni di finanza pubblica sbagliate, sul tasso di crescita, sulle entrate fiscali, sull’andamento della spesa pubblica. La spesa corrente è cresciuta, gli investimenti si sono ridotti, non c’è stata nessuna riforma utile a stimolare l’economia. Questa è la verità.
Tutto si è scaricato sugli investimenti, sui redditi medio-bassi e sulle fasce di povertà. Nessun contributo è venuto dalle ricchezze e dalla rendita. Nessun contributo è venuto dall’enorme sacca di evasione. Questa è la verità.
Non ci si dipinga dunque come degli sconsiderati. Due volte la destra ci ha caricati su un traghetto verso al Grecia, due volte noi l’abbiamo riportato indietro perdendoci anche le elezioni. E del resto non è stato un Governo di centrodestra a portare la Grecia nel baratro addirittura falsificando i conti? E la si smetta con la penosa propaganda del tipo: non metteremo le mani nelle tasche degli italiani; dovete toglierle le mani dalle tasche degli italiani, di quelli che le tasse le pagano davvero, che non le hanno mai pagate così alte e che si preparano, a quanto si capisce, a ulteriori sacrifici.
E la si smetta con annunci di lotta all’evasione che si risolvono sempre con dei condoni, fino a dei veri e propri riciclaggi di Stato! Ripetiamo ancora e ripeteremo sempre, senza mai stancarci: quando due anni fa il Governo tolse l’ICI alle fasce alte, finanziò Alitalia, tolse misure antievasione, incentivò gli straordinari noi proponemmo in alternativa un grande piano di piccole opere attraverso una deroga al patto di stabilità dei Comuni ed una operazione fiscale sui redditi medio-bassi per stimolare occupazione e consumi, chiediamo: chi aveva ragione?
Da allora e per due anni il Governo minimizzò la crisi. Noi dicemmo che sarebbe stata lunga e pesante, chiediamo: chi aveva ragione?
Adesso diciamo a chi ci ha portati fin qui:
Caro Berlusconi, caro Tremonti, bisogna che vi convinciate che senza un po’ di crescita in più non terremo i conti a posto e alla lunga non convinceremo i mercati perché a ritmi di crescita così bassi il debito non si assorbirà mai. Se si vuole una manovra che non sia ulteriormente depressiva c’è bisogno di una svolta, bisogna cominciare finalmente a metterci coraggio, bisogna dire finalmente che il Paese ha un problema serio, ben al di là del raggiungimento al 2012 del parametro di deficit; un problema che riguarda la nostra struttura economica e sociale. E allora:
1.Bisogna alleggerire rapidamente il lavoro, l’impresa e le famiglie e mettere il carico sulla rendita e sulle ricchezze, così come avviene in tutti i Paesi del mondo avanzato nessuno dei quali, aggiungo, esclude il patrimonio dalla responsabilità collettiva;
2.Se si vuole davvero recuperare evasione si può. Ci sono tutti gli strumenti tecnici ormai per ottenere trasparenza e tracciabilità di redditi, patrimoni e ricchezza. Se non si vuole spremere le meningi, si può prendere qualche norma da Francia, Germania o Stati Uniti;
3.Se si vuole davvero controllare la spesa corrente dopo il totale fallimento di questi due anni aprendo finalmente qualche spazio per gli investimenti e l’occupazione non si può svegliarsi la notte ad inventare tagli lineari. Bisogna predisporre meccanismi a cominciare dai beni e servizi della Pubblica Amministrazione, da piani industriali di riorganizzazione delle macchine pubbliche dalla promozione, col bastone e con la carota, delle migliori pratiche a cominciare dalla sanità;
4.Se si vogliono fare riforme che sollecitino l’economia bisogna aprire e regolare i mercati non chiuderli come si sta facendo in questi mesi;
5.Se si vuole dare un po’ di lavoro bisogna puntare sui piccoli cantieri e sull’efficienza energetica e le reti tecnologiche così da mobilitare risorse private e non sul punte sullo stretto di Messina.
La nostra sfida è sul terreno che abbiamo sempre chiesto: su una vera manovra economica non sull’ennesimo “tirare a campare” fatto di una catena di decreti e di fiducie dove si continua a sottostimare la spesa e a sovrastimare le entrate, dove non c’è mai un ragionamento di fondo, dove non si prende mai il toro per le corna. 46 Decreti fin qui e 33 voti di fiducia. Un voto di fiducia e mezzo al mese, agosto e Natale compresi. Per decidere che cosa? Per portare l’Italia dove? Si vuole ancora procedere così? Noi non ci stiamo. Questa è la sfida che portiamo alla destra in nome del futuro del Paese. E ammoniamo ancora: basta con provvedimenti che minano il civismo. Basta con condoni ammantati di qualche demagogia. Se chi ha regolarizzato e ripulito cento miliardi di Euro e ne ha pagati cinque avesse solo pagato quel che si è pagato in altri Paesi noi non staremmo qui a parlare di manovre. E c’è da chiedersi che cosa pagheranno adesso tutti questi mentre milioni di famiglie si stanno impoverendo?
... continua