Un amico su FB
Oggi parliamo di lui, il fantasma che si è aggirato per un secolo e mezzo per l'europa e per il mondo, squassandolo ovunque.
Sto parlando di Karl Marx, il filosofo, sociologo ed economista comunista nato a Treviri esattamente due secoli fa.
Siamo dunque al bicentenario dalla sua nascita.
E dopo un arco di tempo così ampio possiamo trarre qualche conclusione sulla sua vicenda intellettuale.
Ovviamente la biografia poco ci interessa.
Quello che conta sono le idee.
Quindi mettetevi comodi che inizia un lungo discorso.
Come abbiamo accennato Marx è stato un filosofo, un sociologo e un economista.
E proprio sull'economista ci concentreremo.
Perchè?
Perchè la sua principale opera, “il capitale”, è un libro di critica economica e perchè la sua teoria, anche nella parte sociologica, è essenzialmente una teoria economica.
Tra le migliaia di pagine della sua opera possiamo trovare almeno tre grandi punti cardinali che orientano l'intera critica economica:
1) il concetto di valore-lavoro
2) la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto
3) la progressiva concentrazione monopolistica
Partiamo dal primo punto, ovvero il concetto di valore-lavoro.
Questa visione nasce in realtà da Ricardo, il quale l'aveva rielaborata a sua volta da Smith, e vede il valore di un bene come direttamente proporzionale alla quantità di lavoro in esso contenuto.
Marx è chiaro su questo:” Come misurare la grandezza del suo valore? Per mezzo della quantità della sostanza che crea valore, cioè del lavoro, che è contenuta in esso”, dice subito all'inizio del "capitale".
Va da se che se il valore di un qualsiasi bene è dovuto alla quantità di lavoro in esso contenuta, l'eventuale guadagno che un imprenditore capitalista ottenga dallo scambio di questo valore-lavoro cristallizzato nel prodotto, sarà semplicemente una appropriazione indebita di una parte del valore-lavoro che spetta invece a chi ha fornito quel valore, ovvero il lavoratore salariato.
Da qui si evince come nel marxismo non solo il lavoratore sia sfruttato essendo espropriato di parte del suo lavoro, ma come il profitto capitalista sia in realtà, anche se non in via esclusiva, quella parte di plusvalore che spetta al suo legittimo proprietario, ovvero il lavoratore.
Ora, fin qui abbiamo usato il termine generico di valore.
Ma Marx distingue in valore d'uso e valore di scambio.
Il valore d'uso è quello derivante dall'utilità di un bene.
Il valore di scambio è quello che si forma nei rapporti di scambio con gli altri beni.
Per Marx, così come gli altri economisti classici, i due valori sono diversi e ben separati.
E soprattutto, il valore d'uso è una quantità data.
Ma le cose stanno così?
No.
Il valore d'uso cambia.
E il come lo spiegano i marginalisti a partire dal 1870.
Più aumenta la quantità del bene consumato, più il suo valore d'uso scende.
Quindi non solo il valore d'uso cambia, ma può diventare anche molto diverso dal valore dato dalla quantità di lavoro in esso contenuto.
Senza poi considerare che ogni singolo prodotto ha anche altre componenti nella sua produzione oltre il semplice fattore lavoro.
A livello teorico quindi non esiste giustificazione alcuna per parlare di valore-lavoro.
Cosa ci dicono gli esperimenti pratici e i dati empirici?
Niente di più e niente di meno di quanto previsto dal marginalismo.
Tanto è vero che non solo tutti e sottolineo tutti, i paesi che hanno provato ad usare il concetto di valore-lavoro per formare i prezzi dei beni, hanno avuto problemi insormontabili per la loro determinazione, portando a periodici riallineamenti verso quelli stabiliti nei mercati capitalisti.
Ma come non bastasse, l'unico grande e serio tentativo concepito dagli economisti marxisti per risolvere il problema dei prezzi dato dal concetto di valore-lavoro, sfociato nelle opere dell'economista sovietico Kantorovich, vede la riformulazione del sistema marxista in senso …....marginalista.
Ma guarda un po'.
Il secondo concetto, ovvero la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, nasce dal concetto di rendimento decrescente, anch'esso mutuato da Ricardo.
Cosa dice tale concetto?
Semplicemente che all'aumentare della quantità utilizzata di un bene produttivo, l'output cresce ad un tasso inferiore a quello dell'apporto del bene.
Se consideriamo il bene come capitale, la legge di Marx ci dice che all'aumentare del capitale immesso in una azienda, il tasso di crescita del prodotto sarà via via minore, determinando così un saggio di rendimento del capitale sempre minore e tendente a zero.
Nella visione marxista, questa dinamica evolve nel terzo punto, ovvero la progressiva concentrazione monopolistica.
La dinamica è la seguente: se il saggio di profitto cala, le aziende risponderanno in due modi.
Da un lato aumentando il tasso di sfruttamento dei lavoratori in modo da aumentare l'appropriazione di plus-valore.
Dall'altro concentrando le imprese in grandi conglomerati per diminuire la concorrenza, e questo perchè la concorrenza riduce i profitti.
Il processo sfocerà secondo Marx infine in una società dove ci saranno pochissime mega-imprese che controlleranno l'intera economia, e la stragrande maggioranza della popolazione ipersfruttata dai pochi capitalisti.
A questo punto la moltitudine ipersfruttata potrà fare una rivoluzione nella quale banalmente si sostituiranno i capitalisti con i lavoratori nella proprietà delle mega-imprese, evolvendo così verso un sistema economico socialista (non comunista), che dovrebbe essere, ma qui Marx non è chiaro, il primo passo verso una successiva società comunista.
Problema: Marx non ha letteralmente capito le forze che cambiano e in quale modo la legge sui rendimenti decrescenti, e questo non ha potuto farlo perchè l'eventuale soluzione va in contrasto con il primo assunto della sua teoria, ovvero il concetto di valore-lavoro e quindi plus-valore.
Se infatti il profitto e quindi plus-valore è di fatto lavoro cristallizzato, un aumento del saggio di profitto deve derivare da un aumento dello sfruttamento dei lavoratori.
Quindi tecnicamente o più lavoratori impiegati nella produzione o più ore di lavoro utilizzate.
Ma qui interviene la tecnologia.
Tecnologia che non solo aumenta la produzione impiegando lo stesso livello di capitale variabile ( i lavoratori), ma anzi e spesso lo fa, aumenta la produzione impiegando meno capitale variabile (di nuovo i lavoratori).
Questo comporta che grazie all'innovazione tecnologica il saggio di profitto può rimanere costante o addirittura aumentare senza intensificare lo sfruttamento dei lavoratori.
Anzi, se l'innovazione è particolarmente rapida, si può non solo tenere costante il saggio di profitto, ma anche aumentare i salari allo stesso livello del tasso di innovazione tecnologica determinando così un aumento reale del livello dei salari.
Cosa ci dice l'esperienza empirica?
Che le cose stanno esattamente così.
Come mostrano in modo chiarissimo tra gli altri le ricerche dell'economista francese Piketty, il saggio di profitto medio è costante da quasi 1000 anni, ripeto 1000 anni, ad un livello oscillante tra il 4 e il 5% medio annuo reale.
E pur con variazioni cicliche, i salari reali sono cresciuti verso l'alto al ritmo di crescita della produttività (in grossa parte frutto della tecnologia citata sopra).
Poco importa se le disuguaglianze sono aumentate o meno nel mentre, cosa peraltro non vera visto che al massimo sono rimaste costanti nei secoli, come mostrano di nuovo le ricerche di Piketty.
Quello che conta è che il salario reale è costantemente salito secondo la crescita della produttività, movimento questo opposto alla teorizzazione marxiana.
Ma c'è di più.
La tecnologia non sono solo nuovi mezzi e impianti di produzione.
Sono anche nuovi prodotti.
E nuovi prodotti sono nuove imprese.
Se quindi esiste un minimo di innovazione tecnologica, non solo il saggio di profitto non scenderà, ma nasceranno anche sempre nuove imprese impedendo lo scivolamento del sistema verso una concentrazione monopolista.
Anche qui, i dati empirici ci dicono proprio questo.
Come ricorda in altro contesto l'economista Jeremy Siegel, le 400 imprese che nel 1982 erano le più grandi d'america, a distanza di 35 anni sono cambiate per circa i 3/4 .
Ovvero la lista delle più grandi 400 multinazionali americane, in soli 35 anni è cambiata per oltre 300 di esse.
Alcune imprese sono morte, altre sono rimaste della stessa dimensione mentre il resto del mercato evolveva espandendosi, altre sono ancora presenti, ma lungi da dominare il mercato in senso monopolista, devono invece faticare in una continua lotta concorrenziale con nuove imprese, nate ripetutamente, più giovani e produttrici di nuovi beni e nuova tecnologia.
Ora, cosa rimane di questo lungo discorso?
Certamente una grande costruzione teorica che ha influenzato il mondo nel bene e nel male.
Ma una grande costruzione che dal punto di vista teorico vede l'erroneità dei suoi assunti fondamentali.
Erroneità trovata prima dagli economisti marginalisti, ma tutto sommato anche classici, visto che ad esempio bastava Marx leggesse meglio Ricardo per quanto riguarda la favola del saggio di profitto decrescente.
Ma erroneità certificata poi anche da ormai più di due secoli di storia del capitalismo e un secolo di storia del comunismo.
Storia che ci dice che:
1) il saggio di profitto è rimasto quasi perfettamente costante
2) i salari reali dei lavoratori sono aumentati
3) il concetto di valore-lavoro li dove applicato non ha mai funzionato
4) non solo il sistema non è diventato più monopolista, ma anzi continua a creare nuove imprese e a tenere viva la concorrenza
In sostanza i dati empirici ci dicono che almeno negli ultimi 250 anni, in realtà 1000 se estendiamo la vista fino ai primi dati economici più o meno certi che abbiamo, i sistemi economici sia capitalisti che alternativi ad esso, hanno funzionato sia nel bene e sia nel male in modo opposto a quanto teorizzato da Marx.
In una qualsiasi disciplina anche solo vagamente scientifica, il lavoro intellettuale di Marx sarebbe da un lato rigettato in toto con aperta disapprovazione di chi oggi lo difendesse, dall'altro sarebbe visto come una curiosità storica che ha causato solo gravi lutti e una enorme perdita di tempo per l'umanità.
Ma la vulgata, io direi più che altro la “chiesa”, cerca di scalare adesso su un'altra visione, ovvero rottamato il Marx economista si cerca di far sopravvivere il Marx sociologo.
Ma anche qui c'è un grosso problema: il Marx sociologo è figlio diretto del Marx economista.
Prendiamo un singolo esempio, ovvero il concetto di classe sociale.
Per Marx questa non è una semplice divisione della società.
No, è una divisione della società centrata su un rapporto economico.
Da un lato abbiamo i detentori dei mezzi di produzione che si appropriano del plusvalore.
Dall'altro abbiamo chi non detiene i mezzi di produzione e viene depredato del suo plusvalore da chi detiene questi maledetti mezzi di produzione.
Il concetto sociologico di classe quindi, in Marx, è legato a filo doppio alla sua teoria economica, nella fattispecie alla teoria del valore-lavoro e a chi si appropria legalmente del plus-valore tramite la proprietà dei mezzi di produzione.
Ma se la teoria del valore-lavoro viene meno, scompare anche l'appropriazione indebita del plusvalore da parte dei detentori dei mezzi di produzione, e quindi viene meno anche la distinzione netta tra chi possiede i mezzi di produzione e chi no, facendo diventare non necessariamente i “capitalisti” una classe sociale diversa dai salariati tout court.
E non a caso è dovuto intervenire successivamente il povero Max Weber a far notare che solo nei sogni dei marxisti i rapporti sociali funzionano in modo così netto come da loro ipotizzato.
Avviamoci verso la fine e cerchiamo allora di rispondere alla grande domanda che aleggia realmente come un fantasma nella società odierna: per quale accidenti di motivo stiamo non tanto celebrando, cosa in realtà legittima, ma celebrando come attuale, una costruzione teorica che ha la scientificità pari alla teoria geocentrica di Tolomeo?
Io credo che la risposta possa venirci da quello che è stato il più grande economista del '900, ovvero Joseph Schumpeter.
Come Marx, Schumpeter vedeva il capitalismo in senso dinamico, ovvero come un sovvertitore dell'ordine costituito.
Ma al contrario di Marx, che vedeva questo sovvertimento dal punto di vista della divisione in classi, Schumpeter più correttamente vede il sovvertimento in quel particolare processo che falsifica il grosso della teoria stessa marxiana, ovvero l'innovazione tecnologica.
Come detto sopra, l'innovazione tecnologica crea nuovi metodi di produzione e crea nuovi beni, mantenendo elevato il saggio di profitto e impedendo lo scivolamento verso una società monopolista.
Questo però vuol anche dire che i vecchi metodi di produzione e i vecchi beni diventano obsoleti e vanno semplicemente cancellati.
Da qui il noto concetto di distruzione creatrice.
Ed il capitalismo funziona esattamente così.
Ma la cancellazione di metodi produttivi e beni crea veri e propri sconfitti della società.
Sconfitti che non saranno certamente ben disposti ne verso i nuovi metodi produttivi, ne verso i nuovi beni, ne infine verso il capitalismo.
In Schumpeter questa dinamica avrebbe portato alla fine alla sostituzione del capitalismo puro con una società mista socialista-capitalista, nella quale il socialismo sarebbe stato essenzialmente lo statalismo.
Più modestamente, nella visione qui proposta, la dinamica Schumpeteriana possiamo considerarla come la fonte di alimentazione costante della fiamma anticapitalista che tiene viva la memoria di Marx.
Questo spiega anche perchè l'occidente della grande crisi e delle nuove tecnologie informatiche, e nella fattispecie l'Italia dell'incapacità di adattarsi al nuovo mondo globalizzato, vedano un aumento dell'interesse per Marx e le sue idee.
Lo scontento genera sempre mostri, o al limite la riesumazione di quelli vecchi.
In conclusione, Marx è sicuramente da celebrare, consapevoli però che ha sbagliato quasi tutte le sue analisi, anche sociologiche, e che se vogliamo capire in modo più profondo la realtà che ci circonda partendo comunque da ipotesi di crollo del capitalismo, è sicuramente meglio se leggiamo il buon vecchio Schumpeter.
Buona giornata a tutti.
Massimo Fontana
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