Michele Boldrin contro tutti
Tanto vale lasciar vincere il voto di protesta: gli italiani sognano di tornare agli anni Settanta e il declino è inesorabile. Intervista all'economista ed ex leader di Fare.
DI PAOLO MOSSETTI
28/02/2018
Alle prossime elezioni bisognerebbe saltare un giro e starsene a casa: perché l’Italia declina, è destinata e declinare sempre di più ed è utopico aspettarsi una risposta dal ceto politico attuale. Questo sostiene - offrendo una prospettiva storica più amara e ragionata di come potrebbe apparire in questo incipit - l’economista e polemista d’assalto Michele Boldrin, in una serie di post che stanno facendo molto discutere sui social. Lasciar vincere il populismo di Grillo e Lega come ultima spiaggia? No - l’ultima spiaggia l’abbiamo già perduta - ma qualunque alternativa renderebbe gli italiani ancora più razzisti, complottisti e incattiviti.
La frana secondo Boldrin (classe 1956, professore di Macroeconomia alla Washington University di St. Louis) è ormai inevitabile e ha radici profonde, negli anni Settanta (“Nonostante tutte le cazzate che sentiamo sull’euro”). Il paese è rimasto indietro e per farlo ripartire occorrerebbero riforme profonde che nessuno ha voglia di fare. Da qui il suo richiamo a fare il contrario di ciò che diceva Montanelli: a stapparsi il naso - cioè astenersi - stando alla larga dal “meno peggio”: perché, nel 2018, vorrebbe dire votare proprio per il peggio.
"LA GENTE È SEMPRE PIÙ CONVINTA CHE SIA TUTTO UN COMPLOTTO. IL PROBLEMA È CULTURALE"
Non assomiglia troppo ai suoi colleghi universitari, Boldrin. Nato a Padova e cresciuto nelle campagne del Veneto, da oltre tre decenni vive negli Stati Uniti facendo continua spola con l’Europa e l’Italia, dove si imbarca in avventure politiche e consulenze prestigiose con l’approccio del filibustiere professionale. Ora, tra le sue mille attività (è stato anche leader del partito Fare per fermare il declino tra il 2013 e il 2014) è assurto a nemesi degli antieuropeisti e considera l’Italia un paziente ormai andato: “La gente è sempre più convinta che sia tutto un complotto, dei ‘nemici esterni’: Merkel, l’euro, i migranti, i musulmani, gli africani. Il problema è culturale.”
Acronimizza Silvio Berlusconi in BS, che nello slang americano sta per bullshit (c’è bisogno di tradurre?), definisce il santino dei mercantilisti Margaret Thatcher una reazionaria ultranazionalista che ha fertilizzato il terreno per la Brexit, se la prende con l’invadenza della Chiesa in ogni campo del sapere. Sempre irrequieto nei dibattiti televisivi, “blastatore” seriale su Facebook (cioè uno che non le manda a dire a coloro che ritiene stolti, provocatori o incolti; “anche se scriverò sempre di meno”, promette) con una chioma e un cipiglio che ricordano un po’ quelli del Depardieu degli anni d’oro, un orecchino da pirata e una verve contagiosa. Con il sottoscritto è stato un interlocutore molto grazioso, che per quasi due ore di conversazione non è sembrato mai perdere un grammo dell’entusiasmo per cui è famoso.
Per accendere da subito la conversazione gli riporto un paio di prese di posizioni sul debito pubblico circolate di recente, e molto lontane dalla sua. Mal me ne incoglie: “Lei, Paolo, frequenta gentaglia, se lo lasci dire. Ma dove le ha sentite queste cose? Questa è gente che straparla.”
Beh, ad essere sincero non so da che parte cominciare, Professor Boldrin. Sono troppe le cose da chiederle, compreso il suo ultimo editoriale, in cui dice - sintetizzo molto - che non c’è niente da salvare di questa classe politica, e tanto vale lasciar vincere il voto di protesta.
Io vorrei solo che gli italiani capissero quello che gli si va dicendo da tempo: cioè la maniera in cui vivono e in cui concepiscono il proprio paese li sta portando verso un inesorabile declino. Il guaio è che la percentuale di persone in Italia, anche nelle élite, disposte a riconoscere questa realtà non solo è bassissima, ma sta andando riducendosi. Il 90% degli italiani ha un sogno fisso.
Quale?
Tornare agli anni Settanta, mi pare evidente. E allora io dico una cosa molto semplice: lasciamo che il paese venga governato da chi meglio esprime questo sentire, questo neofascismo populista: il mischiotto tra pentastellati, Lega nord, Forza Italia e Meloni. Distruggeranno il paese? Magari sì. O magari no: potrebbero pur sempre comportarsi come la solita destra italiana, che promette rivoluzioni e poi continua col solito tran tran.
Nel mentre Toni Negri, su «Vanity Fair», si augura che Bruxelles prenda le redini del Governo italiano. Non è un paradosso che qui l’anarcoide sembri lei?
Che vuole che le dica? Se uno come Toni Negri se ne esce dalle fogne da cui era sparito per tifare anche lui il meno peggio, allora ho certamente ragione io. Innanzitutto chiariamo una cosa: non verrà nessuna Merkel. Quello è un livello di discussione che può accettare solo Negri, uno mandava gli studenti col passamontagna a picconare i colleghi che gli stavano antipatici, capisce? L’unica cosa intellegibile che si può leggere nel suo discorso, forse, è l’idea di trasformare l’Italia in una nuova Grecia, cioè un paese dove il cittadino medio si sente minacciato da una tecnocrazia, cosa che io non auspico.
Mi sembra di capire che lei non crede alla ripresa esibita dal governo Gentiloni.
Ma quale ripresa! L’economia italiana non è cambiata di una virgola. Non sono state fatte riforme adeguate, il sistema educativo è sempre lo stesso, la fuga del capitale umano ad alta preparazione continua; il sistema pubblico continua ad essere un disastro. Di buono c’è il fatto che, dopo le grandi sberle del 2008-2013, quella parte dell’industria italiana che è sopravvissuta è piuttosto solida. Grazie alla congiuntura internazionale che tira le cose sembrano andare meglio. Ma è la congiuntura mondiale che ci trascina, non è una crescita endogena che venga da un cambio nel sistema economico italiano. Il rimbalzo viene da quella fetta eterna che da 40 anni tiene in piedi il paese. Cantare vittoria come ha fatto Padoan fa ridere, ma capisco: siamo in campagna elettorale.
Ma nemmeno il programma di +Europa di Bonino la convince? Congelamento immediato della spesa pubblica, meno tasse per le imprese, più Iva.
Guardando gli ultimi vent’anni di Emma Bonino politica credo che sia venuto per lei il momento della pensione. Sì, il suo programma è una scopiazzatura delle cose che dicevamo noi di Fare. Ma +Europa si focalizza sul contenimento della spesa senza affrontare questioni gravi: il Sud, il federalismo, il decadimento di Roma, il sistema scolastico e universitario, le pensioni. Non basta pensare che la questione italiana sia tutta nella riduzione del rapporto debito/Pil, nel proseguire il lavoro per cui venne chiamato Monti a Palazzo Chigi.
Mi faccia interpretare un po’ la vox populi, dell’italiano che si sente vittima di qualche grande ingiustizia. Un gioco un po’ masochista. Le va?
Se proprio vuole, giochiamo.
I critici della “cura Mario Monti” si chiedono: perché dopo tutti questi sacrifici non siamo nemmeno riusciti ad abbatterlo, questo debito?
Monti fece alcuni tagli ed aumentò le tasse in maniera troppo rapida, nella solita logica emergenziale italiana. Forse aveva fretta, forse aveva paura. Forse sapeva che di tempo gliene sarebbe rimasto poco. Non lo so. Poi, senta: se uno mi parla di “austerity” me la deve dimostrare. Monti nemmeno la toccò, la composizione della spesa. Il problema della spesa italiana non è solo che è tuttora una delle più grandi in percentuale sul PIL in Europa, ma il fatto che spendiamo malissimo: è per metà soldi buttati via. La cosa grave è che Monti ha fatto disastri nonostante rappresentasse il centro socio-economico e culturale del paese, perché questo centro non ha capito che la crisi sul debito era solo uno dei sintomi di una crisi strutturale. Si sono tutti focalizzati sul bubbone senza affrontare la malattia.
Un’altra critica dei ribelli dell'austerità è che nel debito pubblico la spesa per interessi conta più della spesa pubblica.
Eh no, non funziona così. C’è l’intera storia di un paese, dietro questa balla. In paese che per decenni si è indebitato fortemente. Però l’italia è un paese anche molto fortunato: vent’anni fa, grazie all’euro, ci siamo beccati un favoloso crollo dello spread, abbiamo risparmiato decine di miliardi all’anno senza mai fare alcun taglio, senza mai fare i compiti a casa.
Si riferisce al cosiddetto "dividendo" dell'euro: circa 500 miliardi risparmiati sui tassi d'interesse realizzati dall'Italia dal 1995 a oggi.
Esatto. E grazie a Draghi, per tenere bassi i nostri tassi d’interesse, abbiamo imposto un quantitative easing ai nostri vicini europei, che non ne avevano nemmeno tanto bisogno. Abbiamo approfittato dell’euro più che potevamo. Senza contare che negli ultimi vent’anni abbiamo ottenuto svariate centinaia di miliardi in più di Pil soprattutto grazie agli immigrati, che hanno fatto crescere la forza lavoro. Ma questo i nemici della globalizzazione si guardano bene dal dirlo.
Intanto al sud Italia molti ospedali se ne stanno cadendo letteralmente a pezzi: mancano ambulanze, macchinari, personale sufficiente. Immagino che molta gente si guardi intorno e pensi: ma se quello che abbiamo è questo, immaginiamo tagliare ancora di più la spesa.
Negli ultimi due decenni la spesa primaria è cresciuta eccome. Negli ultimi anni si è appiattita, ma è non certo diminuita. Il problema è che è fatta male. Ecco, lei mi fa un esempio perfetto. La spesa sanitaria pro capite è uguale identica da Nord a Sud, con differenze di poche centinaia di euro, con un costo della vita, dei terreni, abissalmente diversi tra Milano e Ragusa. Com’è possibile che passata la linea appenninica, 200 km sotto il Po, la qualità crolli?
Quindi la soluzione non è la cosiddetta “austerity espansiva”, dice lei, ma attaccare il vecchio clientelismo, il laurismo, i baronati.
Ma non lo dico io, lo dicono i fatti. Il problema dell’italia non è un problema ciclico, o un qualche disastro temporaneo da risolvere tagliando la spesa: è la mancanza di un piano di sviluppo, di un’idea di paese da riformare da capo a piedi.
A questo punto, la voce dei “sovranisti” monetari direbbe: torniamo a stampare la nostra vecchia lira, facciamo comprare il debito dalla Banca D’Italia e facciamo più spesa pubblica mirata, nella ricerca, nella domanda di servizi pubblici.
Parole al vento! È gente che ha come modello il Fanfani dell’economia corporativa, capisce? Che vuol dire più spesa pubblica mirata? Vogliono diminuire le pensioni aumentando drasticamente i fondi nell’università e nella ricerca adottando criteri meritocratici per il personale, e quelli che non sanno né leggere né scrivere li licenziamo? Questo vogliono davvero? Si figuri, io sono assolutamente a favore dell’aumento di investimenti nella ricerca. Dico solo che è perfettamente inutile aumentare la spesa educativa se non si riformano i criteri con i quali viene distribuita, se non si premia merito e concorrenza.
Fedeli e Camusso hanno deciso l’altro giorno di fare ancor più danno alla scuola togliendo quel minimo di ovvio buon senso che c’era nella Buona Scuola di Renzi. Con il contratto per la scuola hanno confermato che da sinistra a destra l’atteggiamento è sempre lo stesso: chi ha privilegi se li difende.
E quanto ai sovranisti: come fanno a non rendersi conto che se fosse solo un problema di “sovranità monetaria” , allora di sovranità ce ne dovrebbero essere venti o cento? Basterebbe che Enna stampasse il suo “ennino” per diventare una provincia ricchissima, non crede?
Le teorie dei No-euro saranno anche così strampalate, ma intanto un economista “controcorrente” come Alberto Bagnai ha riscosso e continua a riscuotere un certo consenso anche a sinistra, anche adesso che è candidato per la Lega.
Beh avendo prodotto miserrima ricerca ma avendo una certa abilità a scrivere retoricamente, ed una faccia tosta notevole, Bagnai ha trovato un mercato di sbocco. Io ho fatto un solo dibattito con lui, ero suo ospite, e lì sul momento mi diede pure ragione, poi ai suoi follower disse l’esatto opposto [ride]. E poi m’ha bannato [ride più forte]. Vede, lui vende una cura taumaturgica, un elisir di lunga vita che si chiama svalutazione. Svalutiamo - dice Bagnai - rispetto alla “cattiva Germania”, che è un’altra cosa divertente che si è inventato: ha presente i quadri di Grosz, i borghesi dalle mani grasse?
Ma Bagnai ai suoi lemming non dice che ci sono due problemi: primo, l’uscita dall’Euro è un tal casino, un tal disastro che viene da ridere visto che piangere non basta. Guardi alla Brexit, che pure è molto più semplice: non sanno che pesci pigliare e maledicono il referendum ogni giorno. Secondo: nella nostra storia recente abbiamo svalutato tre volte per davvero. Cosa abbiamo ottenuto? Passata la fiammata iniziale, durante cui salvi un po’ di imprese poco produttive, tutto torna come prima o peggio. Gli imprenditori incapaci, che son tanti, dicono: perché investire per innovare quando, svalutando, sopravviviamo pagando meno i lavoratori? In più, svalutare ora è doppiamente stupido, perché stiamo esportando già!
Anche perché la svalutazione causa dipendenza.
Sì, è quello che ho cercato di spiegare una volta anche a quello scappato di casa di Claudio Borghi (altro economista di sponda Lega, N.d.R.): la crescita può venire solo dalla crescita della produttività, mai da giochetti di prezzi. Il male delle svalutazioni è quello: mantengono in piedi imprese che avrebbero dovuto essere eliminate e sostituite da imprese più capaci. E l’abbiamo pagata. La logica economica è questa. Il resto è un’operazione cosmetica.
A queste nostre osservazioni i fan di Bagnai risponderebbero, e se non lo fanno loro lo facciamo noi, che comunque un minimo di crescita durante gli anni Settanta si ottenne, mentre a partire dalla metà degli anni Novanta, quando le parità di cambio vennero fissate in preparazione dell’entrata nell’Euro qualche anno dopo, le cose andarono ancora peggio. Non è un fatto incontrovertibile questo, oggetto di molta discussione oggi?
Ma non è vero. La crescita negli anni Settanta era bassa, è il decennio in cui inizia la crisi! Nel 1977 - sto controllando proprio ora i dati - il tasso di occupazione era inferiore a quello di adesso, anche se certo dipende pure dal fatto che le donne allora lavoravano meno, ma è stato basso e in calo fino, in soldoni, all’arrivo dell’euro! Guarda caso, nell’unico periodo di crescita forte dell’economia italiana, negli anni Cinquanta e Sessanta, c’era anche alta occupazione e la lira era forte. La crescita residua degli anni Settanta e Ottanta è una crescita residuale dovuta in pochissima parte alla svalutazione e in buona parte alla crescita pregressa della produttività. Ma il punto è un altro.
Quale?
È che le crisi strutturali mica le noti dalla sera alla mattina: il crollo di borsa se causa una crisi del credito lo vedi nel giro di una settimana, e così altri eventi traumatici come un governo che introduce un improvviso aumento delle tasse, facendo ritrarre di botto le famiglie dai consumi, eccetera. Il degenerare del sistema produttivo accade nell’arco di anni. Bisogna saperli vedere i sintomi. E i sintomi sono tutti lì, dall’inizio dei Novanta.
L’assioma che va per la maggiore al momento - glielo ripeto anche se sospetto che lo conosca già – è che l’Unione Europea vuol dire più liberismo; più liberismo vuol dire più disoccupazione; più disoccupazione vuol dire più xenofobia.
Ennesima cialtronata, degna di quella soubrette televisiva con la quale mi sono confrontato a La Gabbia, una volta. Come si chiama? Quel Fusaro là. [Diego, filosofo. N.d.R.] Prendiamo la Spagna: lì la disoccupazione è aumentata tantissimo dopo la caduta di Franco, in preparazione all’entrata nell’UE. Non è cresciuto però in Spagna l’appoggio alla Falange, ma al PSOE! Per non parlare della famosa Repubblica di Weimar, dove si stampava moneta come forsennati, altro che austerity, e poi la spesa pubblica è stata trasformata da Hitler in cannoni.
Mi sembra però che anche gli europeisti più spassionati sognino una nuova utopia: gli Stati Uniti di Europa. Che forse è un altro modo per declinare il sovranismo. Nonché l’idea di un debito pubblico condiviso: sostenuta, mi pare anche dal presidente francese Emmanuel Macron fino al 2015.
Pensare che la chiave di volta sia il debito federale sarebbe un’altra follia, per tante ragioni: perché in Europa non esiste una lingua comune, non esiste un popolo europeo che possa muoversi da uno Stato all’altro a costo zero, come avviene negli Stati Uniti. Devi fare leggi nuove. Imporre una lingua comune. Devi rompere, integrare davvero: anche le banche! Comunque sì: l’utopia degli europeisti è quella che descrive lei. Il problema è che le classi dirigenti costruiscono le loro fortune con miraggi nazionalisti, e poi vogliono pretendere di più dall’Europa, che è stata venduta un po’ ovunque come una mangiatoia.
Olanda e Germania fanno eccezione, a dire il vero. La Francia invece fu più astuta: “I tedeschi son tonti e ci mettono i soldi, ma poi comandiamo noi”. E per un po’ fu davvero così. Ma in Italia, in Spagna, in Portogallo, l’Europa è stata venduta come lo Zio d’America. Da noi, passati i primi anni “degasperiani”, dagli anni Settanta in poi l’UE è stata venduta come un buffet. Poi certo, i politici italiani sono così imbranati da farci prendere solo il 30% di fondi strutturali che ci spetterebbero, ma è un altro paio di maniche.
Quindi bisogna fare riforme strutturali negli stati nazionali prima di dire “ci vuole più Europa”.
Aspetti, le dico una cosa: nel 1992, nelle prime fasi dell’Euro io ero contrario alla moneta unica, sa? OK, facevo il destro, della destra cosiddetta “di Chicago”. Ma non ero contrario mica perché pensavo che la crescita economica potesse dalla svalutazione, ma perché mi rendevo conto che fare una moneta comune con un mercato che non c’era avrebbe creato tensioni politiche tremende. Perché in una situazione di forte disuguaglianza qualcuno avrebbe fatto il free rider. Si vada a rivedere il dibattito dell’epoca: la preoccupazione era che i paesi del Sud Europa si sarebbero fatti pagare le spese da olandesi e tedeschi.
La verità è che l’euro è stato imposto a Kohl da Mitterand, Gonzales e Prodi: “Vuoi la Germania unita? Ci devi dare il marco, altrimenti noi siamo fottuti.” Kohl secondo me ha sbagliato: avrebbe potuto fare cippirimerlo a Mitterand, e dirgli: “Prova a fermare 20 milioni di tedeschi, manda pure le armate, se vuoi”. Detto questo, e detto che l’euro si è dimostrato per nostra colpa la fuga in avanti che temevo venticinque anni fa, ciò non implica che si debba tornare indietro.
Insisto: ma il nostro reddito nazionale rispetto alla media Oecd è crollato dalla metà degli anni Novanta.
E sarebbe andata peggio, se non fossimo entrati.
Ma è possibile che non ci siano sfumature tra un europeismo ingenuo e un nazionalismo criminale?
Ci dovrebbero essere eccome. Una classe dirigente seria guarderebbe la situazione e si farebbe delle domande: un’agricoltura del Sud che vive schiavizzando gli africani, ma come la reggo? In tutta Italia c’è un razzismo profondo mentre le politiche di sostegno alla famiglia, con cui siamo ossessionati, fanno ridere: non è vero che invertono il calo demografico, nemmeno in Francia, nemmeno negli Stati Uniti. Ma invece che lavorarci la classe dirigente fa l’opposto: escludo alcuni immigrati, caccio altri, forse apro dei campi di concentramento. Non tutti i paesi reagiscono alla crisi allo stesso modo: l’Inghilterra forse diventerà il 51° Stato americano, mentre l’Italia, più che la Spagna o la Grecia, sembra avviarsi a diventare l’Ungheria o la Polonia.
Non ci sono proprio differenze tra le coalizioni che si affronteranno il 4 marzo?
La differenza tra pentastellati e Lega e tutto il resto è che questi due sono più ruspanti: il popolo minuto, gli arraffatori - vedi la storia grottesca dei rimborsi - e quindi si esprimono in una maniera più volgare e allucinante, hanno una minore conoscenza del sistema economico. Tutto qui. Oggi tutti i partiti italiani promettono la luna nel pozzo. Chi si astenesse direbbe “no, non sono parte di quel consenso lì”. È anche un fatto di democrazia, no? Perché chiedere l’intervento di qualche tecnocrazia quando si è predicato per quarant’anni un’idea di democrazia populista, Toni Negri per primo? Che ci provino: speriamo gli vada bene.
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