Mario Lavia @mariolavia · 24 marzo 2017
La grande paura di un partito che non le azzecca più
Ora Grillo inquieta davvero. Gli errori recenti e un Congresso che stenta
Una sorta di panico non esplicitato circola nel Pd. La grande paura di perdere. Non le elezioni e basta ma qualcosa di più profondo: di perdere la scommessa di portare una nuova classe dirigente alla guida del Paese in grado di rinnovarlo radicalmente.
Una grande paura che si avverte fra i militanti, in una certa misura anche fra i dirigenti, specie alcuni. Se ne parla nelle cene, anche quelle dei massimi esponenti, di uno stato di cose che inquieta assai. “E’ dal 4 dicembre che il Pd sembra non azzeccarne più una”, ci ha detto uno di loro.
E’ l’effetto della campagna tambureggiante del M5S, certo. L’onda propagandistico-mediatico-psicologica sta sortendo i suoi effetti, complici talk show e social network e quant’altro. Per cui gli italiani si stanno convincendo che Grillo vincerà le elezioni e che è già al 40%. Nulla pare scalfire la forza del M5S. Non l’inettitudine di una Virginia Raggi, non la violenza verbale e fisica dei suoi parlamentari, non la banalità di un Di Battista né l’arroganza vacua di un Di Maio, tantomeno il cesarismo d’accatto di Beppe Grillo.
Tuttava il tempo sembra essere dalla loro parte. Il famoso spirito del tempo infatti è un grumo di insicurezza, insoddisfazione, odio per i governanti, antiparlamentarismo, anti-solidarismo. Grillo lo ha intercettato da tempo. Il “vaffa” fu sottovalutato. Non era solo colore, era l’antipasto del suo successo di oggi.
Non si tratta di uno spirito del tempo solo italiano. Se si legge l’intervista di Michel Houellebecq al Corriere della Sera si comprende che il nazionalismo (che oggi si declina come “sovranismo”), la ripulsa delle istituzioni democratiche classiche a cominciare dal Parlamento, la velleità di una democrazia diretta che non può che essere l’anticamera del caos o della dittatura, sono ingredienti che il M5S mescola a casaccio e che lo scrittore francese mette in tavola in maniera più “razionale” (fra virgolette), quasi che essi fossero il naturale approdo della Storia.
Lo scrive benissimo Ian McEwan nel suo ultimo romanzo: “La democrazia liberale non è più l’ovvio porto di destinazione. Il socialismo è in disgrazia. Il capitalismo corrotto, rovinoso e non meno in disgrazia. Nessuna alternativa in vista”.
La sinistra mondiale accusa i colpi. O rincula verso anacronismi identitari (Corbyn, Hamon, D’Alema) o si confonde, nella percezione popolare, con un establishment ripudiato dal senso comune (Hillary, Renzi).
Il Pd si trova nel bel mezzo di questa gigantesca crisi della politica. I suoi sforzi riformisti appaiono vacui. E’ come se giocasse a tennis ma senza la pallina, come in Blow up di Antonioni. E’ come se suonasse una sinfonia di Mahler ma senza violoncelli. Vuole fare politica senza più la cornice di un normale contesto politico. Vuole le regole in un Paese che ormai rifiuta le regole. Si trova insomma in una situazione surreale, nella quale suscita reazioni negative in chi non vuole cambiamenti e altre reazioni negative in chi vuole che cambi tutto.
Questo è il paradosso del renzismo. E’ forse il destino del riformismo, che funziona quando le cose vanno bene ma che nelle grandi crisi si smarrisce e perde. E’ successo negli anni Venti prima a Roma e qualche anno dopo a Weimar .
Però non è tutto imputabile alle grandi tendenze, alle macro-storia. E nemmeno all’economia. C’è poi la politica. Ed è su questo terreno che il Pd sta avendo problemi.
Per colpa dei mille giorni di Renzi o perché Renzi se n’è andato? Per entrambe le cose.
La sconfitta del referendum del 4 dicembre è stata la sconfitta dell’uomo politico che ne aveva fatto lo spartiacque della storia italiana. Portandosi via l’idea di una certa idea superomistica e salvifica del leader. Lo nota molto bene il report di questa settimana di Swg (qui un ampio stralcio).
La vera domanda riguarda pertanto il “nuovo” Renzi, non più leader solitario a capo del Giglio magico, ma guida politica di una squadra plurale. Ci sono dei segnali che vanno in questa direzione, ma è troppo presto per capire come finirà.
Nel frattempo la storia non aspetta il Pd e le evoluzioni di Renzi.
In questa fase di non-governo del partito, senza Renzi e comunque senza segretario, il “Pd reale” in questi giorni si è sparato sui piedi due volte: prima con il voto sulla decadenza di Minzolini – è passata l’idea di una “salvataggio” magari per inconfessabili scambi di favore – perché, come abbiamo già scritto, non c’è stata la forza di darsi una linea precisa (anche Renzi, fra parentesi, l’ha osservato).
E poi ancora subendo l’iniziativa dei Cinquestelle, condotta con metodi fascistoidi, sulle pensioni dei parlamentari. Anche in questo caso l’impressione è che si vada un po’ a tentoni. Che si segua l’agenda altrui mettendoci qualche pezza. Il Pd ha la proposta di legge di Matteo Richetti. Bene, perché non la porta in aula e la fa votare?
Poi c’è stata questa scelta del Congresso, scelta obbligata nel momento in cui Renzi si è dimesso chiedendo una riconferma della sua leadership. Dalle primissime battute – si perdoni l’approccio un po’ tranchant – questo Congresso non parla per nulla al Paese.
Certo, ci sono ancora i militanti, quelli che vanno nei circoli per mantenere aperto un spazio di discussione. Che vorrebbero essere coinvolti sempre, giustamente. Sono degli eroi, di questi tempi. Se n’è curato abbastanza, in questi anni, il gruppo dirigente del Pd?
I documenti dei tre candidati non eccitano particolarmente, diciamo così. Si è capito che Renzi è Renzi un po’ più aperto del solito, Orlando è una variante del renzismo che parla molto a un certo mondo ex ds, Emiliano un energico demolitore del renzismo in salsa paragrillina. Obiettivamente, non è molto.
Perché questo Congresso finora sembra soprattutto un’occasione per i gruppi dirigenti, centrali e periferici, di posizionarsi. Renzi, Orlando e Emiliano sono come dei taxi: per molta gente si tratta di capire quel sia il migliore per arrivare a destinazione. E comunque non si vede l’ora di andare a votare alle primarie il 30 aprile e sciogliere il nodo gordiano (e pensare che c’erano quelli che volevano un iter ancora più lungo, e che, non essendo stati accontentati, hanno fatto un altro partito!).
Se, come i più pronosticano, Renzi vincerà il Congresso – nei circoli, e poi alle primarie – ci sarà una “ripartenza” vera del Pd? Ci sarà un segretario che faccia il segretario, che “diriga il partito”, come si diceva ai tempi dei partiti? Ci sarà un gruppo dirigente pacificato che discuta e susciti discussione? Ci sarà soprattutto un programma chiaro di riforme economiche (perché è su questo che il Pd è mancato) rigoroso, credibile, organico e di governo? E, insieme a mille altre cose (l’informazione e la formazione su tutti), saranno poste le condizioni per sfidare i nuovi sfascisti con Renzi indicato come premier alla guida di una grande squadra di governo, Paolo Gentiloni in primis?
E’ difficile, infatti, opporsi all’arroganza populista in un tempo in cui tutto deve essere ‘semplice’, facile da capire con pochissimo sforzo , con accenti che strizzano l’occhio alla violenza non solo verbale, tutto deve essere adattabile al numero di parole concesse dagli spazi sui social e che porta a risposte alla complessità tanto becere quanto inutili tipo: “L’immigrazione? Ruspe e rimandiamoli a casa loro!”; “l’economia non va? Colpa dell’Euro e dei politici che rubano…”; “la sicurezza? Fuori gli immigrati e pistola sul comodino per tutti…”.
Dicevamo di Weimar, ma le dittature fascista e nazista non proponevano anche loro soluzioni ‘semplici’ e banali alla complessità dei problemi del tempo? “Credere, obbedire, combattere”, oppure, “Un popolo, un Fuhrer”, e la criminalizzazione nemici comuni quali gli ebrei e le democrazie.
Reagire si può, ma occorre rendersi conto della gravità del momento e mettere a punto un piano di combattimento/comunicazione da attuare sui media e nel rapporto diretto con le persone in carne ed ossa.
Ascoltare, dunque. Per poi decidere. Come scrive Massimo Salvadori nel suo ultimo libro, Lettera a Matteo Renzi: “Un leader forte ha bisogno di affiancare alla volontà e alla determinazione le doti dell’attenzione, della valutazione prudente dei passi da compiere, della capacità di manovra e di trattativa, della disposizione non soltanto di parlare agli altri per trascinarli ma anche di ascoltare prima di scegliere”.
Di queste cose bisogna discutere. E predisporre le condizione per sviluppare liberamente una profonda riflessione, a tutti i livelli. Chiamando anche esterni, intellettuali, competenze. E tutte le personalità dentro e fuori il Pd che abbiano voglia di parlare.
Un Lingotto non basta. Un Congresso nemmeno.
Non sappiamo cosa riservi il futuro. Ma il passato ormai è passato e il presente è abbastanza tempestoso. Se non cambia passo, per il Pd si fa notte fonda.