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La storia infinita

MessaggioInviato: 19/02/2017, 11:28
da mariok
Non c'è dubbio che il regista è ancora una volta lui, il conte Max.

Per Bersani e Speranza non c'è nessuna novità, si sono sempre fatti pilotare.

Quello che è più difficile da credere è che della partita possa essere anche Emiliano. E' un'alleanza che non credo durerebbe molto.

IL RETROSCENA
Renzi non cambia la linea: trattare? Hanno già deciso
L’idea voto a settembre. È convinto che Rossi e Emiliano resteranno.
Per dare il via al congresso dovrà dare le dimissioni dalla guida del partito
di Maria Teresa Meli

ROMA «In assemblea spiegherò che tra partito dei caminetti e partito delle primarie io scelgo il secondo»: Matteo Renzi si sente pronto per l’appuntamento di oggi. Lo spettacolo di ieri al Teatro Vittoria gli ha fatto una certa impressione: «Noi siamo la sinistra riformista che vuole governare. Dovremmo smettere di parlare tra di noi e di noi», ha detto ai suoi stupito per la kermesse, tutta bandiere rosse e «Avanti popolo».
I renziani, con Andrea Marcucci hanno sintetizzato così lo stato d’animo dell’ex premier: «La minoranza deve scegliere tra D’Alema e il Pd». Già, quel D’Alema che, rivela un suo fervente sostenitore, l’ex deputato Salvatore Buglio, «aveva deciso la scissione da tempo, da prima del referendum, perché sin da allora erano pronti i soldi e il nuovo partito». Perciò anche il solitamente cauto Lorenzo Guerini dice: «Basta ultimatum inaccettabili». Perché, come ha spiegato Renzi ai fedelissimi, la minoranza ha tutto il «diritto di volersi sentire a casa nel Pd, ma nessuno può porre ricatti».
Il segretario già ieri sera, leggendo le dichiarazioni del D’Alema scissionista, aveva capito quale fosse l’andazzo di una parte della minoranza. «Non c’è nessuna trattativa da fare con chi ha già deciso di andarsene», ha spiegato ai collaboratori. Perciò il ruolino di marcia resta lo stesso: Congresso ad aprile, primarie al massimo il 7 maggio. Del resto, ricorda il leader del Pd «la tabella di marcia rimane la stessa perché era quella che chiedeva la minoranza fino a poco tempo fa, quando minacciava carte bollate per avere il congresso subito». Ora quella minoranza a cui accenna Renzi, ossia Emiliano, sostiene che le assise anticipate sono uno strappo e chiede altro tempo. Ma non è detto che il governatore della Puglia alla fine rompa sul serio. Ha parlato con Renzi. Lui gli ha ripetuto quello che aveva già detto: «Sulla data delle elezioni non decido io e comunque noi sosteniamo Gentiloni». Ma Emiliano ha diffuso la notizia di un accordo in realtà mai nato. E i renziani hanno interpretato quell’uscita come il tentativo di fare marcia indietro rispetto alla scissione.
Il segretario ieri ha parlato anche con Speranza, che aveva già telefonato a Guerini ponendo come condizione, per evitare la scissione, di eleggere un nuovo segretario dopo le dimissioni di Renzi. «Ma dove pensi di andare?», ha chiesto il leader del Pd all’ex capogruppo. Come a dire: se pensi che Pisapia (con cui Renzi è in continuo contatto) si carichi tutti gli scissionisti ti sbagli. Secondo il segretario, comunque, sia Emiliano che Rossi stanno cercando di tornare sui loro passi e di non uscire dal partito, lasciando quest’onere a Bersani, Speranza e soci. Sì perché Emiliano preferirebbe fare il competitor di Renzi alle primarie, mentre Rossi ha un piccolo problema, e cioè che 20 dei 22 esponenti del Pd che fanno parte della sua maggioranza alla regione Toscana sono renziani. Un ostacolo non da poco: se invece rimanesse nel partito, potrebbe sempre ottenere in seggio al Senato. Per questa ragione ieri i renziani ironizzavano sulla minoranza in rivolta: «Si stanno già scindendo tra di loro».
Il segretario nel frattempo, convinto di non fare nessuna «trattativa a oltranza» pensa al dopo: è pronto a sostenere Gentiloni fino al 2018, ma ritiene che le elezioni il 24 settembre sarebbero un bene per l’Italia, perché quello «è l’ultimo momento utile per intavolare una trattativa sulla flessibilità con la Germania». È quella l’unica vera trattativa che interessa a Matteo Renzi.
18 febbraio 2017 | 23:09

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 20/02/2017, 9:28
da mariok
A sinistra le scissioni conoscono solo un giorno di entusiasmo. Per il resto fino ad oggi sono state delusioni, amarezze e dolori

Questa mi sembra non avere nemmeno un giorno di entusiasmo. I suoi protagonisti hanno già la sconfitta dipinta sul volto.

Ha ragione l'Unità nel definirla una scissione triste


LA CRISI DEL PARTITO DEMOCRATICO
Gli addii difficili e le lezioni della storia
A sinistra le scissioni conoscono solo un giorno di entusiasmo. Per il resto fino ad oggi sono state delusioni, amarezze e dolori
di Paolo Mieli

Quello che si è prodotto ieri nel Partito democratico è qualcosa che assomiglia più alla fuoruscita di un gruppo di pur rilevanti personalità che ad una scissione vera e propria. Nel senso che alcuni rappresentanti di quell’area di opposizione a Matteo Renzi che lo hanno contrastato fin dai primi giorni della sua segreteria, preferiscono adesso restare nel partito e valutare l’ipotesi di proporre la propria candidatura a congresso e primarie. Pensando, più che ad una improbabile vittoria, a ritagliare per sé quello spazio che ebbe Renzi quando il 2 dicembre del 2012 perse la prima partita contro Bersani. O, meglio, ritenendo conveniente arroccarsi nel Pd per continuare a dare filo da torcere al segretario, aspettare tempi migliori (quelli in cui usciranno allo scoperto i nuovi nemici dell’ex presidente del Consiglio, i quali negli ultimi giorni si sono limitati a vestire i panni dei pacieri) e nel frattempo andare ad occupare i posti che in ogni caso spetteranno alle minoranze.
Del resto tutte le persone consapevoli sanno che a sinistra le scissioni conoscono solo un giorno di felicità e di entusiasmo, il primo, quando tutti in coro si canta Bandiera rossa e si evocano i grandi del passato. Per il resto fino ad oggi sono state delusioni, amarezze e dolori. Eccezion fatta per coloro che ormai sono fuori dai giochi i quali, quantomeno, possono compiacersi per il danno provocato a quelli che sono rimasti nel partito. A cominciare ovviamente dal loro leader. Del resto l’unica scissione della nostra storia che ha avuto successo è stata quella, nel 1914, di Benito Mussolini che uscì dal Partito socialista italiano. Se vogliamo è stata premiata anche quella del Pcd’I a Livorno (1921) ma ci sono voluti venticinque anni — con tutto quello che c’è stato in mezzo — perché il Partito comunista raggiungesse in termini elettorali quello socialista per poi scavalcarlo. E ha avuto buon esito anche la decisione dei bolscevichi («maggioritari») di Lenin di separarsi dai menscevichi («minoritari») del Partito operaio socialdemocratico russo presa nel congresso di Londra (1903), giunta a termine nella stagione che intercorse tra le due rivoluzioni del 1917, quella di febbraio e quella di ottobre.
Ma queste scissioni di inizio Novecento hanno avuto come caratteristica comune quella di essere capeggiate da grandi leader e di dover passare attraverso sconvolgimenti non da poco, le guerre mondiali, prima di essere coronate da successo. Talché non si può neanche dire che i partiti giunti alla meta fossero gli stessi che anni prima si erano scissi dalla casa madre. Né va dimenticato il prezzo pagato per questi accidentati percorsi: la divisione tra comunisti e socialisti d’inizio anni Venti non è stata ininfluente nell’agevolare l’affermazione di Mussolini in Italia, così come quella tedesca non lo fu in tutto ciò che consentì ad Adolf Hitler di insediarsi al Reichstag.
Per il resto giova qui ricordare i tre principi fondamentali di queste separazioni politiche. Primo principio: la scissione è menzognera. L’avversione per il leader del partito abbandonato è tra i motivi prevalenti — spesso l’unico — di questo genere di divorzi. Al momento della separazione, però, tra i fuorusciti ci si dà forza favoleggiando di futuri successi per la propria formazione che sta nascendo e delle disgrazie di quella che si è abbandonata. Il che talvolta è stato vero, ma solo per quel che riguarda la seconda di queste affermazioni. Mai per la prima. In Germania la scissione di Die Linke di Oskar Lafontaine (2005) ha tenuto a battesimo il decennio di Angela Merkel e dell’Spd ridotta ad uno stato ancillare. Gli ultimi vent’anni ci insegnano che chi resta nel partito, invece, in qualche caso può ottenere una chance rilevante: in Inghilterra, la sinistra laburista — che ha resistito alla tentazione di lasciare il Labour party nei dieci anni e più in cui trionfava Tony Blair — oggi è con Jeremy Corbyn sulla tolda di comando; in Francia Benoit Hamon, che aveva sì lasciato nel 2015 il posto di ministro con Manuel Valls ma non il partito della rosa nel pugno, ha poi vinto le primarie (proprio contro Valls) ed è ora il candidato socialista alle elezioni presidenziali. Evidentemente Corbyn e Hamon non si sono fatti prendere dallo scoramento negli anni dei successi altrui e soprattutto hanno avuto fiducia nella loro capacità di farsi scegliere dal proprio elettorato.
Secondo principio: la scissione genera un sovrappiù di odio. Dal momento in cui ci si divide, l’obiettivo primario, checché se ne dica, non è quello di far vincere la propria parte, bensì di causare la sconfitta, se possibile rovinosa, del partito da cui ci si è o si è stati allontanati. Spesso provocando una crisi dell’assetto politico generale e pregiudicando quelli futuri. La scissione del Psiup nel 1964 indebolì irrimediabilmente il Psi al tempo in cui il partito di Pietro Nenni entrava «organicamente» nella compagine di centro-sinistra e necessitava di una maggiore forza contrattuale. La divisione, nel ’69, tra i due tronconi del Partito socialista — con i livori che ne seguirono — ottenne nell’immediato di far cadere un governo presieduto da Mariano Rumor e impedì al centro sinistra di avere un rilancio negli anni Settanta. L’uscita di Rifondazione comunista nel 1991 (l’unica, assieme a quella socialdemocratica del 1947, ad aver avuto quantomeno una motivazione pienamente comprensibile) rese più fragile il partito venuto alla luce sulle ceneri del Pci e la formazione che nacque da quello strappo passò alla storia per aver messo in crisi nel 1998 il primo governo presieduto da Romano Prodi e per essersi in quelle circostanze a sua volta divisa in due (per non parlare delle altre successive frammentazioni). Sicché non è detto che l’attuale scissione renda più stabile il governo presieduto da Paolo Gentiloni come, almeno in apparenza, dovrebbe essere nei conclamati propositi dei fuorusciti.
Terzo principio: la scissione non premia personalmente gli scissionisti, neanche a medio termine. Per quello che riguarda gli individui, queste traumatiche separazioni quasi mai hanno fatto risplendere l’astro di coloro che se ne sono andati, semmai hanno consentito l’ingresso sulla scena di figure fino a quel momento considerate secondarie. Unica eccezione, quella di Giuseppe Saragat nel ’47, ma lì la personalità dello scissionista era davvero di grande rilievo e l’occasione dello strappo meno pretestuosa della data di un congresso. Per il resto è sempre accaduto che le figure di coloro che decidono di andarsene, ancorché di prim’ordine, siano presto finite nel dimenticatoio. E che, semmai, per ottenere un qualche consenso si sia dovuta attendere una seconda generazione come è accaduto con i radicali di Marco Pannella (anche qui, però, ci troviamo di fronte ad una personalità di prim’ordine). Radicali pannelliani che avevano oltretutto ereditato, a metà degli anni sessanta, un partito — nato nel 1955 da una separazione dal Pli — il quale, dopo una serie di litigi solo in parte comprensibili, si era pressoché estinto.
Ma tutto questo i leader che prendono parte alle scissioni non se lo vogliono sentir dire, gli amici forse proprio per salvare il rapporto amicale non glielo ricordano, i congiunti men che meno e le seconde o terze file dei seguaci, pur essendo in grado, loro sì, di prevedere come andrà a finire, li incoraggiano verso il baratro nell’attesa di poterli soppiantare. Conquistando così una posizione di primo piano che nel partito madre mai avrebbero avuto. E qui sta il senso del perché, a dispetto degli esiti — almeno stando alla storia — sempre inevitabilmente catastrofici, queste separazioni continuano ad essere grandemente apprezzate.
19 febbraio 2017 (modifica il 19 febbraio 2017 | 21:47)

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 20/02/2017, 10:35
da ranvit
8-) :lol:
Perché la vera storia della scissione Pd è la nascita del movimento 5 sinistre
La sinistra che non accetta le logiche di mercato è destinata a spianare la strada ai populismi. La retorica anti liberista non produce nuovi soggetti, ma legittima il grillismo, il leghismo e il trumpismo. Un bel libro da leggere
Claudio Cerasa
di Claudio Cerasa
20 Febbraio 2017 alle 08:05Perché la vera storia della scissione Pd è la nascita del movimento 5 sinistre
foto LaPresse
Quando terminerà la sceneggiata patetica legata alla scissione del Partito democratico, la sinistra che uscirà dal Pd, prima di scegliere se stare a fianco di Fassina o di D’Alema o di Civati o di Pisapia o di Vendola o del Partito Marxista Rivoluzionario e Leninista, dovrebbe fare un rapido salto in libreria e acquistare un volumetto di poche pagine che gli permetterebbe di guardare il mondo, il proprio mondo, con occhi diversi. Il libro si intitola “Verso l’estremo”, è stato scritto due anni fa da due sociologi francesi di talento, Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, e ha il merito di spiegare con chiarezza un fenomeno insieme culturale e politico che non riguarda solo la Francia. Il sottotitolo perfetto del libro potrebbe essere questo: la sinistra che non accetta fino in fondo le logiche di mercato è destinata a spianare la strada ai movimenti populisti. Si parla di Francia, nel libro di Esquerre e Boltanski, ma in realtà è come se si parlasse dell’Italia di oggi e di un grande non detto che si nasconde dietro il tema della scissione del Pd. “La sinistra critica – scrivono gli autori – ha cercato di ricompattarsi raffigurando il neo liberalismo come il proprio nemico principale. In questo modo, si è immersa nella configurazione ideologica dell’estrema destra e da quel momento in poi la critica al neoliberismo è diventata una critica alle società moderne e all’interno di quella configurazione ideologica il tutto si è caricato di significati nazionalisti”. Il ragionamento dei due sociologi centra un punto importante che riguarda anche una questione chiave della scissione del Pd.

La sinistra che oggi si sente incompatibile con il progetto neoliberale renziano si rifiuta di riconoscere però una verità difficile da contestare: le parole d’ordine che portano la sinistra a criticare l’impostazione “liberista” data al Pd sono le stesse utilizzate dai populisti per giustificare la propria dottrina. E quel mix fatto di nazionalismo, protezionismo, sovranismo e anti europeismo è destinato a essere sempre più legittimato nel momento in cui un pezzo di sinistra sceglie di giocare sullo stesso campo dei populisti. Non è un caso che la sinistra del Pd oggi si senta più vicina ad alcune idee di Grillo (sul lavoro, per esempio) che a quelle di Matteo Renzi. Non è un caso che la sinistra uscita dal Pd (compresa la Cgil) oggi si senta più vicina alle idee di Salvini (i voucher, le pensioni, l’articolo 18, la legge Fornero) che a quelle di Nannicini. Non è un caso che la sinistra devota al verbo del carlin petrinismo oggi si senta più vicina a Donald Trump che a Emmanuel Macron. Come lo si spiega?

Scrivono ancora Esquerre e Boltanski: “Questo slittamento ideologico ha permesso di trasformare la critica al liberalismo economico in una critica al liberalismo politico, alla socialdemocrazia, alla democrazia tout court. A tal riguardo bisogna anche constatare che l’inflessione nazionalista data alla critica del liberalismo dall’estrema destra è stata ampiamente ripresa da intellettuali, giornalisti e personalità politiche provenienti dalla sinistra, così che, sempre più spesso, il riferimento a questa figura critica che associa la stigmatizzazione del liberalismo e del potere della finanza all’odio delle istituzioni europee della democrazia, alla difesa del popolo nazionale, si trova ripreso da movimenti di estrema sinistra che non si distinguono più dall’estrema destra, se non per la loro attenzione compassionevole ai migranti: residuo dell’antico internazionalismo proletario, ormai finito nel dimenticatoio della storia”.

La tesi dei due sociologi ci porta a comprendere meglio un fenomeno trascurato in questi giorni e che tocca direttamente le conseguenze che deriveranno dalla scissione del Pd. Non si sa se l’uscita di pezzi di classe dirigente dal Pd permetterà al partito di diventare più forte (possibile) o di essere semplicemente più debole (da dimostrare). Si sa invece che, non solo in Italia, la rinuncia a costruire un partito inscritto compiutamente all’interno del perimetro del pensiero liberale avrà l’effetto di legittimare sempre di più le posizioni più estremiste. E alla fine la sinistra che uscirà dal Pd contro “il populista Renzi” (ma che in realtà uscirà dal Pd per dire “no al neoliberismo”) è destinata a ingrossare un bacino da cui potranno pescare con maggiore facilità i populisti veri, e pericolosi, alla Grillo e alla Salvini.

Sintesi finale: la sinistra tradizionalista (il responsabile economico del Pd di Bersani era Stefano Fassina, che non a caso oggi in consiglio comunale, a Roma, cerca di dialogare con il movimento 5 stelle di Virginia Raggi) che ha aperto la strada ai populisti sui temi della politica economica e anche sui temi della politica moralistica non poteva che dire no a una sinistra che oggi cerca di forzare la sua identità per creare un’alternativa razionale al nazionalismo, al protezionismo, al salvinismo, al grillismo. Conclusione dei due sociologi francesi: “A lungo, l’estrema sinistra è stata accusata di dipendere da un’ideologia rigida e superata. Ma ciò che colpisce nella estrema sinistra attuale è, al contrario, l’assenza quasi totale di ideologia. Ovverosia, non il compimento di azioni dettate da analisi sbagliate, ma l’assenza di analisi e quindi di un orientamento consapevole tale da far discendere delle azioni. L’ondata altermondialista di inizio anni 2000 e quella registrata dieci anni dopo degli indignati dei movimenti, ispirati da Occupy Wall Street, si sono esaurite senza riuscire a impedire alle società europee di finire in balia di una destra sempre più tirata verso l’estremo. In sostanza, l’estrema sinistra attuale rimane passiva di fronte a una situazione politica in cui è in posizione di inferiorità, e rinunciando a dedicare attenzione al presente si rivolge a un passato a cui non smette di dar lustro e a un avvenire lontano che non si capisce bene come potrà realizzare”.

Alla fine, dunque, la sinistra che uscirà dal Pd non rifonderà una nuova sinistra, riuscirà al massimo a creare un movimento 5 sinistre: una costola del grillismo o del leghismo, come da vecchio e indimenticato sogno di Massimo D’Alema, diciamo.

http://www.ilfoglio.it/politica/2017/02 ... nRead=true

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 20/02/2017, 11:00
da pianogrande
Bene.
Qualcuno comincia a dire "fuoriuscita".
Interessante anche il discorso delle seconde file che vengono promosse.

Rimane ancora misterioso il discorso di come fanno a portarsi dietro il voto.

Quella sarebbe una vera scissione.
Se gli elettori, pari pari, gli andassero dietro.

Se gli elettori restassero col PD sarebbe davvero una vittoria per il paese.

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 21/02/2017, 11:21
da mariok
un Paese che ha un server di memoria collettiva pari a quello di un cellulare di venti anni fa

Rinfrescarsi ogni tanto la memoria non fa male.

Pd, vi ricordate le imprese degli scissionisti Bersani e D’Alema?
di Domenico Valter Rizzo | 20 febbraio 2017

Faccio una premessa a beneficio delle anime belle che di sicuro mi iscriveranno d’ufficio al renzismo militante. Non sono renziano, non sono del Pd e l’unica volta che sono andato a votare alle primarie ho votato per Pier Luigi Bersani. Punto. Non ho idea di cosa voterò alle prossime elezioni politiche, di certo non la destra o il M5S.

Detto questo vorrei consegnare ai miei pochi pazienti lettori il senso di sgomento, ma soprattutto di “già visto” che in queste ore mi suscita il penoso spettacolo che arriva dall’assemblea del Pd. Ho registrato per primo al microfono della Rai, la scelta di Enrico Rossi di candidarsi legittimamente alla guida del Pd, ho letto con grande attenzione il suo libro, che racchiude contenuti importanti per la ricostruzione della sinistra italiana. Rossi a mio parere ci crede e fa bene. Il problema sono però i tempi e le azioni che si sono determinate e soprattutto le cattive compagnie. Non discuto dei contenuti programmatici che in larga parte sono condivisibili. Il punto sono le gambe sulle quali questi contenuti dovrebbero camminare. Le storie delle persone che oggi, di buon mattino si sono ricordarti di essere figli del partito che fu di Berlinguer.


Il problema vero è la regia folle che sta dietro quello che sta accadendo in questi giorni e in queste ore. La regia di questo film, nel quale gli aspetti comici, si intrecciano ad un macabro gusto splatter, come nel miglior Romero, appartiene ancora a Massimo D’Alema. Un signore al quale nella vita sono riuscite perfettamente due cose: accreditarsi inspiegabilmente come persona “intelligente” e fare danni colossali alla sinistra di questo Paese. La cosa che più sorprende in questa surreale vicenda, dove sembra che tutti vogliono separarsi, ma nessuno ha il coraggio di uscire di casa, sono le reazioni. Ancora una volta non sono preoccupanti le scelte dei mammasantissima, sono assai più preoccupanti le scelte e le motivazioni, la totale disinformazione e mancanza di memoria e di analisi politica da parte della gente che sostiene quella che oggi si accredita come la “sinistra” del Pd.

L’Italia è un Paese che ha un server di memoria collettiva pari a quello di un cellulare di venti anni fa. Nessuno ricorda nulla, nessuno conserva traccia delle azioni e delle scelte che si compiono. Tutto si metabolizza e tutto si digerisce. Soprattutto ogni cosa viene dimenticata nello spazio massimo di un paio di mesi. Tutti così possono riciclarsi e ricostruire improbabili verginità. Nessuno si ricorda più i guai giudiziari di Beppe Grillo, e sono quasi scordati o assolutamente evanescenti le condanne per i dirigenti della Lega Nord per la maxitangente Enimont o le inchieste sempre sui dirigenti leghisti per i soldi del finanziamento pubblico trasformati in diamanti o intascati dal Trota per le sue spesucce. Nessuno si ricorda ad esempio del Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema…

Nessuno ricorda che uno dei suoi capolavori fu la caduta del governo guidato da Romano Prodi e che la sua esperienza di governo riportò al centro della scena politica un Silvio Berlusconi, sconfitto e azzoppato che aspettava solo il colpo di grazia. Uno scambio di amorosi sensi con il Cavaliere, che ottenne che non venisse mai approvata una legge sul conflitto di interessi, per il quale venne appositamente coniato il neologismo “Inciucio”. Una collaborazione nella commissione bicamerale dalla quella venne partorita un’ipotesi di riforma costituzionale di stampo presidenzialista (disegnata da quello che a dicembre si è scoperto strenuo difensore della Costituzione così com’è) che sembrava scritta da Licio Gelli, alla quale era legata ad un’ipotesi di riforma della giustizia che prevedeva la separazione elle carriere e il controllo politico del pubblico ministero. Fortunatamente tutto finì a tarallucci e vino. Finì invece peggio in politica estera. D’Alema infatti portò in guerra l’Italia contro la Serbia in un’operazione Nato per sostenere un’organizzazione paramilitare di stampo mafioso come l’Uck in quel Kosovo che oggi è un crocevia di trafficanti internazionali e di terroristi. Oggi i duri e puri pacifisti, quelli sempre pronti a manifestare contro le missioni all’estero sono tutti ad applaudirlo e a sostenere la sua santa guerra contro la dittatura di Renzi.

Ma non solo lui. Tra coloro che sembrano aver ottenuto un comodo diritto all’oblio c’è anche Pier Luigi Bersani. L’uomo che doveva smacchiare il giaguaro e che riuscì a perdere elezioni praticamente già vinte. Bersani che oggi si batte strenuamente contro le politiche che ledono i diritti dei lavoratori messe in campo dal governo Renzi (il Jobs act è un provvedimento sbagliatissimo e su questo non ci piove) lo si ricorda steso come uno zerbino quando venivano approvati, con i voti del suo Pd, le misure del peggiore governo della storia repubblicana guidato da Mario Monti e quindi quello post batosta elettorale presieduto da Enrico Letta. Quanti ricordano la frase, detta tra i sospiri, “ce lo chiede l’Europa”.

Tra le strepitose misure approvate, senza che Bersani e D’Alema muovessero un sopracciglio, vale la pena di ricordare la riforma Fornero che, mentre la ministra asciugava le sue lacrimucce da coccodrillo, creava una categoria sociale nuova di zecca: gli esodati. Per non parlare delle leggi di stabilità con i tagli lineari, che hanno portato il Paese a sprofondare in una recessione nera, della quale ancora stiamo pagando le conseguenze, ed infine la follia della pareggio di bilancio in Costituzione. Tutte misure contro le quali non ricordo di aver sentito alzarsi la voce degli scissionisti di oggi.

Ecco, una scissione, una guerra totale su quelle misure l’avrei capita. Oggi vedo solo una guerra tra bande sulla pelle di milioni di persone in buona fede che si ritroveranno a breve, grazie alla lungimiranza di questi geni della politica a vivere in un Paese consegnato mani e piedi alla peggiore destra e al fascismo 2.0 dei grillini. Complimenti vivissimi.

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 21/02/2017, 12:09
da trilogy
mariok ha scritto:un Paese che ha un server di memoria collettiva pari a quello di un cellulare di venti anni fa

Rinfrescarsi ogni tanto la memoria non fa male.

Pd, vi ricordate le imprese degli scissionisti Bersani e D’Alema?
di Domenico Valter Rizzo | 20 febbraio 2017


Bell'articolo! Riassume bene lo "spessore politico" di D'Alema, e alcuni dei danni che ha fatto al paese, e alla sinistra italiana.8-)

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 21/02/2017, 12:27
da Robyn
Per realizzare la PAX interna la strada da praticare è per prima cosa fermare la min dem "state fermi e lasciate fare noi "in secondo lavorare sù renzi per evitare che le cose prendano una piega che non è positiva.Rosy Bindi ha detto a Renzi di tenere unito il PD e a considerare le diversità una ricchezza e non un'ostacolo che è in qualche modo quello che diceva Popper serve il consenso sul dissenso.Dall'altra Romano Prodi che dice che la spaccatura è un suidicio e che è assolutamente da evitare.Bisogna ragionare sui contenuti e non sulle rivalità.La posizione di Emiliano era quella giusta.Esiste un modo per disinnescare lo status belli?c'è un modo per portare ad una sintesi che non sia a ribasso?Perche non si vince rinunciando ad essere se stessi ma se si è bravi se si sà sviluppare un'autentico riformismo

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 21/02/2017, 12:39
da Robyn
Matteo Renzi dalla sua e-news
rimettiamoci in cammino tutti insieme

Re: La storia infinita

MessaggioInviato: 21/02/2017, 18:04
da mariok
Cuperlo propone alla direzione di tenere le primarie nel mese di luglio.

Non si capisce se la sua è una proposta personale o se è fatta a nome degli scissionisti.

Tuttavia lo statuto prevede le primarie entro quattro mesi dalle dimissioni del segretario.

Per andare oltre occorrerebbe una modifica statutaria la cui competenza risiede nell'assemblea nazionale, non nella direzione.

Mi sembra al momento impraticabile.

Vai avanti tu che a me mi viene da ridere

MessaggioInviato: 21/02/2017, 18:18
da pianogrande
Emiliano resta.

http://www.repubblica.it/politica/2017/ ... ef=HRER3-1

Certo che è un personaggio molto affidabile.

Bersani risulterebbe ormai fuori.

Se resta anche D'Alema è una mezza tragedia.