Pagina 1 di 1

«A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta»

MessaggioInviato: 13/02/2017, 13:31
da ranvit
http://milano.corriere.it/notizie/crona ... 64d9.shtml

L’INTERVISTA
Piercamillo Davigo: «A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta»

Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge»
di Giuseppe Guastella

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella
e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione.
A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?
«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».
Un Paese corrotto?
«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?
«Bisogna cominciare dalla scuola».
Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?
«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».
Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.
«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?
«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».
La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire.
«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».
Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?
«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori?
«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».
Forse fino a un’epoca determinata.
«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».
Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.
«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».
I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro?
«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».
Ha un giudizio molto negativo sui politici.
«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».
Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste?
«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».
Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?
«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».
Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.
«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».
I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?
«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».
Non c’è il rischio di finire nel moralismo?
«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».
L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?
«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».
Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?
«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».
Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».
«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».
Solo carcere? E l’esecuzione esterna?
«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».
E stato mai tentato di forzare le regole?
«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».
Un sistema che protegge l’impunità?
«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».
Qual è la priorità?
«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».
La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale.
«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».
Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?
«Non lo conosco, non posso sapere tutto».
È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti...
«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».
E allora, a cosa serve la discussione?
«Si può cambiare la decisione».
Lei lo fa?
«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno». Vivimilano

----------------------------------------------------------------
http://www.corriere.it/extra-per-voi/20 ... 6da4.shtml

Tangentopoli
«E invece Mario Chiesa parlò»
Craxi, Di Pietro e quei due anni
che non salvarono l’Italia
Venticinque anni fa — il 17 febbraio 1992 — l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano venne arrestato. Fu l’inizio di un percorso che, in 27 mesi, portò all’esilio di Craxi — e a uno strappo mai ricucito nel tessuto della nostra convivenza democratica
di Goffredo Buccini
0
0
«Figuriamoci se quello parla!», dicevamo. Invece Mario Chiesa parlò. E in fondo può stare tutto qui, in un paio di righe che il 17 febbraio del 1992 apparivano ancora un improbabile accidente della storia, il senso di Mani pulite e dei successivi due anni e rotti: i ventisette mesi che portarono, nel maggio ‘94, alla fuga di Bettino Craxi in Tunisia e, in definitiva, a uno strappo nel tessuto della nostra convivenza democratica mai ricucito davvero. Intendiamoci: è stupido oltre che assai ingiusto ridurre la dimensione d’un uomo di Stato, il primo a intuire (con forte anticipo) la necessità d’una grande riforma delle istituzioni repubblicane, a quella del «latitante di Hammamet» disegnata da certa pubblicistica. I figli di Craxi hanno sacrosante ragioni per dolersene e magari per considerare il loro padre vittima di un infernale marchingegno mediatico e giudiziario, a diciassette anni dalla morte. Se tuttavia quell’uomo di Stato, gravato da condanne e procedimenti penali, decide di abbandonare l’Italia, non è necessario essere discepoli di Socrate per vedere come, proprio in virtù del suo ruolo, stia negando alla radice legittimità ai processi, alle sentenze e, in definitiva, allo Stato che lui stesso ha rappresentato ai massimi livelli. Mai come nell’ultimo ventennio della storia repubblicana s’è andata allargando la distanza tra cittadini e istituzioni, assieme all’idea che ciò che vediamo sia mera mistificazione di ciò che accade davvero in stanze più o meno segrete. Quest’idea storta che, per dirla col sociologo Gérald Bronner, genera dalla crisi della reciproca fiducia, sta ormai ponendo in questione la sopravvivenza stessa della democrazia e ha, ovviamente, una dimensione planetaria: ma, per ciò che riguarda gli affari di casa nostra, nasce forse proprio allora. Da una frattura dentro lo Stato.

Le origini di un duello
I due anni che prendono le mosse dall’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, fedelissimo craxiano (sopra, foto Ansa), colto in flagranza da Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani con la famosa mazzetta da sette milioni (di lire) pagata dall’imprenditore Luca Magni, si possono riassumere in realtà come una sfida quasi personale tra i magistrati di Milano e il segretario nazionale del Psi. Ha scritto Sergio Romano che «la notizia dell’arresto di Mario Chiesa non rivelò niente che gli italiani non sapessero». Vero. Le bustarelle erano oggetto di barzellette al bar. Quanti in Italia erano al corrente del sistema? Tra quelli che intascavano almeno una frazione di tangente e i loro familiari «non meno di qualche milione» di persone, osserva Romano. Un bel segreto di Pulcinella, insomma. Molto s’è congetturato, dunque, sul perché si sia rotto il meccanismo proprio allora.
I teorici della cospirazione
Immancabili sono le ricostruzioni complottistiche, a partire da quella secondo cui gli americani abbiano lavorato sottotraccia coi nostri (immancabili) servizi per far pagare a Craxi «lo schiaffo di Sigonella»: quando, da presidente del Consiglio, rivendicò la sovranità nazionale fino a far circondare dai carabinieri i marines che stavano catturando in territorio italiano i terroristi responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro. Tra Garofano e Procure le relazioni erano in verità difficili già dagli anni Ottanta, almeno dal caso Tortora in poi. Il nuovo codice di procedura penale firmato da Giuliano Vassalli nell’89, introducendo il rito accusatorio (all’americana, diremmo, banalizzando) avrebbe inoltre potuto avere prima o poi come logica conseguenza la separazione delle carriere tra pubblica accusa e funzione giudicante (pm e gip) e può darsi che anche questo inasprisse negli anni successivi l’animo di taluni pubblici ministeri. Teorie, concause, suggestioni, zero prove. La spiegazione forse più semplice (e dunque più plausibile) è che i soldi erano finiti: il ‘92, ricordiamolo, anno in cui tutti gli equilibri italiani si infransero (persino con la svolta stragista della mafia), fu anche l’anno della finanziaria «lacrime e sangue» varata da Giuliano Amato e dell’uscita della lira dallo Sme; il sistema dei partiti aveva perso presa dalla caduta del Muro di Berlino che tutto stava rimodellando. Gli imprenditori (che avevano avuto dal sistema il loro bel tornaconto in termini di protezione dalla libera concorrenza) si sentirono infine strangolati e scaricarono i politici: Luca Magni, con la sua piccola impresa di pulizie, fu insomma un apripista. Come lo fu Milano rispetto al resto d’Italia.
Il rito ambrosiano
La notizia vera non fu però l’arresto di Chiesa. Anche Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto di tangenti per maggioranza e opposizione, era finito in galera sette anni prima: non aveva aperto bocca. Craxi, che lo considerava una sorta di papà politico, s’era mosso personalmente per fargli una visitina d’incoraggiamento a San Vittore, poi l’aveva fatto eleggere senatore: quando Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra gli applausi della destra, del centro e della sinistra dell’emiciclo. Chiesa parlò, invece: eccola, la notizia. Aveva resistito quando Di Pietro, forte delle micidiali carte bancarie raccolte dalla moglie per la causa di separazione, gli aveva contestato i conti svizzeri Levissima e Fiuggi, sibilando al suo avvocato: «L’acqua minerale è finita... lo dica al suo cliente». Aveva retto giorni in cella con tenacia. Poi però, aveva sentito alla tv il suo leader, Bettino, che, sotto la pressione popolare, lo scaricava, marchiandolo con una parola terribile perché beffarda: mariuolo. Parlò per sette giorni l’ex enfant prodige del Psi milanese, detto il Kennedy di Quarto Oggiaro per via del ciuffo giovanilistico, e fu il primo dei grandi collettori di tangenti a vuotare il sacco. Non avesse parlato, la faccenda sarebbe finita come le altre volte, forse. In quell’epiteto, mariuolo, c’è la hybris di Bettino e il ghigno del fato che si diverte a cambiare l’esito delle battaglie. È questo l’elemento più forte contro tutte le teorie del complotto prodotte ex post: che tutto nacque da un evento francamente imprevedibile, Chiesa parlò. E probabilmente parlò perché Craxi lo insultò in tv per difendere il Psi e se stesso. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale: il 5 aprile segnò il tracollo dei partiti della Prima Repubblica. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo a Chiesa. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Pochi mesi prima tutti i partiti milanesi avevano fatto una riunione per gestire il sistema degli appalti: ora tutto emergeva. Gli avvocati venivano fuori dai primi interrogatori annunciando «centinaia di arresti in arrivo!».

Il sistema di Tonino e il pool
Il grande balzo in avanti di Mani pulite avvenne in effetti perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, i cosiddetti «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: l’omertà si ruppe. Un boiardo del calibro di Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Fu una reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista: la carcerazione ne fu elemento essenziale. E tuttavia anche confessioni perfettamente legali. Si potrà discutere fino a perdere la voce sull’accettabilità di una procedura del genere (si badi: sempre avallata da un gip, ma sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Ormai però tutto questo è storia. Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli affiancò a Di Pietro due pm di cui aveva grande fiducia, Gherardo Colombo, che aveva scoperto gli elenchi della P2 e s’era scornato sui fondi neri dell’Iri, e Piercamillo Davigo, detto dai nemici Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. Ancora giovani ma molto esperti, e con una forte cultura della giurisdizione, come usava dire, sottintendendo che Tonino il tribuno ne era alquanto sprovvisto.

Libera nos a malo
Messo a punto un sistema, molto controverso, nato il primo nucleo del pool, l’Italia cominciò a tifare come a un campionato del mondo. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivevano a Tonino da ogni parte. Nacquero comitati, si fecero fiaccolate, manifestazioni sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolarono le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. In libreria apparvero le prime agiografie in cui Di Pietro era descritto come un mix tra Superman e Padre Pio. Il poster degli «Intoccabili» con le facce del pool in fotomontaggio diventò un gadget irrinunciabile in quella Milano, quando Borrelli e i suoi si concessero due passi in Galleria e l’evento diventò un bagno di folla. E naturalmente si può dire molto male di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e blandito potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire coloro che ne stavano mozzandone la testa. Tuttavia, per un breve momento, in quella babele di voci, desideri, rivendicazioni, rivalse e aspettative ci fu anche dell’altro: una voglia di cambiare genuina, poi andata persa, come sempre, nei momenti chiave del nostro Paese.

Quando Bettino diventò «il Cinghialone»
Il soprannome gli fu affibbiato un po’ al bar e un po’ nella sala stampa di Palazzo di giustizia e rivelava l’immutabile tendenza italica a maramaldeggiare su chi sta perdendo, soprattutto se è stato un potente. Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio: una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa (di cui certo dovremmo discutere provenienza e legittimità) arrivò nelle redazioni e ne stroncò le ambizioni. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono.
La processione degli avvocati accompagnatori
Ciascuno può oggi rileggere la storia come vuole, dalla citatissima Mercedes facile fino alla «sbiancatura» del finanziere Chicchi Pacini Battaglia: ma va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi subiti da imputato e vincitore da molti altri in qualità di querelante. Più grave del «poker», probabilmente, perché avveniva sotto gli occhi dei giornalisti, fu la processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in Procura non per difendere il cliente ma soltanto per fargli confessare in fretta ciò che i pm volevano: nessuno vi diede gran peso, sembrando quella specie di liturgia parte integrante di un rito catartico nazionale. Gravi, e grave segno dell’eccessiva vicinanza dei cronisti all’inchiesta, furono le grida di esultanza che il 15 dicembre del ’92 si levarono dalla sala stampa del Palazzo di giustizia quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Imperdonabile fu non rammentare che dietro ogni provvedimento c’erano famiglie, figli, mogli, reputazioni: vite.

Il «clima infame»
Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: «Mi hanno sputtanato», disse, e uscì di scena con dignità, in punta di piedi. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzò il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione civile, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». «Hanno creato un clima infame», disse Craxi, commosso, uscendo dalla visita di condoglianze a casa Moroni. Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. Accanto a un’Italia che festeggiava ogni arresto e ogni avviso di garanzia come una liberazione dal nemico, c’era un’altra Italia frastornata, confusa, abbandonata in un angolo con le proprie paure e talvolta i propri rimorsi, incapace di resistere in un mondo che di colpo si era rovesciato.
Poster azzurri e tangenti rosse
In vista delle elezioni di marzo ’94, mentre gli altri partiti affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra». Ma già sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Il Paese stava cambiando in fretta, perché nulla cambiasse davvero. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana «Titti» Parenti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. L’inesperta Titti, spaesata nella macchina ormai rodata del pool, accusò i colleghi più anziani di «isolarla». L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi. Titti ottenne un seggio con Forza Italia e poi mollò la politica, D’Ambrosio divenne più tardi senatore del Partito democratico.

Il tempo dei latitanti
È la stagione dei fuggiaschi, e dei ritorni. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, il più famoso, pirotecnico ed enigmatico di loro: Silvano Larini. Architetto amico di Craxi, Larini è l’incarnazione stessa dei luoghi comuni sulla «Milano da bere» degli anni Ottanta, grande protagonista delle notti al Giamaica di Brera. Ma soprattutto è il detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo.

Eutanasia di un sistema in diretta tv
In un gioco di specchi senza precedenti per una democrazia occidentale, quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia che sino ad allora avevano conosciuto e alla quale appartenevano. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera dagli ascolti clamorosi. Si trattò in termini mediatici della frattura totale tra elettori ed eletti, rappresentanti e rappresentati: l’altra parte dello strappo nel tessuto della democrazia italiana nata nel 1946. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori »: Giuliano Spazzali, ex Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite (sopra, i due davanti a Palazzo di giustizia a Milano, Fotogramma). Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle di fatto concludere con un espediente mediatico il processo all’intera Prima Repubblica, trascinando alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Politicamente, un cataclisma.
La neolingua «dipietrese»
Le udienze, memorabili e piene di pathos, vennero recitate dal pm di Montenero di Bisaccia in una neolingua fatta di dialetto, smorfie e motti popolari, il «dipietrese», che anticipava di due decenni la svolta pop dei grillini. I milanesi facevano la fila per trovare posto in aula. Tutti o quasi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Se la cavò solo Craxi, orgoglioso fino all’arroganza: a lui Di Pietro, con gli altri irridente, concesse una specie di onore delle armi che molto fece almanaccare le tricoteuse incollate alla tv. In capo a qualche mese, Bettino sarebbe partito per la Francia e poi per la Tunisia, proprio mentre stavano per bloccargli il passaporto. La sua vicenda politica s’era del resto già conclusa da un pezzo, la sera che una folla indignata lo aveva aspettato sotto il suo albergo romano, il Raphael, per tirargli monetine e coprirlo di insulti. A Palazzo Chigi nella primavera del ‘94 si stava insediando Berlusconi: la reciproca delegittimazione tra potere politico e potere giudiziario avrebbe segnato nei vent’anni successivi la vita dell’Italia.
4 febbraio 2017