Un’Europa differenziata non quella dei club

Un’Europa differenziata non quella dei club
–di Sergio Fabbrini Domenica 05 Febbraio 2017
Occorre elaborare il lutto. Prendendo atto che il nuovo inquilino della Casa Bianca non ama l’Europa integrata. Un sentimento peraltro condiviso anche dal vecchio proprietario del Cremlino. L’Europa integrata non può continuare ad indignarsi per i cambiamenti radicali che sono intervenuti sul piano globale. Non solamente perché l’indignazione è una risorsa scarsa che non va sprecata, ma anche perché quei cambiamenti sono destinati a durare nonostante la nostra indignazione. È vero, l’Europa integrata è oggi assediata, a oriente ed occidente, come non lo era mai stata nel passato. Non si esce però da un assedio senza una strategia.
Naturalmente, gli Stati Uniti e la Russia non sono la stessa cosa, essendo i primi un regime democratico e la seconda un regime autoritario. Tuttavia hanno uno scopo comune, la disarticolazione dell’Unione europea (Ue), che ovviamente perseguono con tattiche differenti.
Trump non ama il multilateralismo, perché è un sistema che imbriglia le grandi potenze. La sua America vuole rapporti bilaterali con i singoli Paesi europei, perché nel bilateralismo ritorna ad essere il partner più forte. Nello stesso tempo, Putin vuole disarticolare l’Europa integrata, perché così può ricostruire una sfera di influenza russa sui Paesi dell’Est. Così, da un lato, Trump promette a May un accordo commercial speciale tra i loro Paesi (a condizione che la Gran Bretagna si stacchi nettamente dall’Ue) e, dall’altro lato, Putin rassicura Orban che continuerà a ricevere l’indispensabile energia (petrolio e gas naturale) dal suo Paese (a condizione che l’Ungheria si distacchi dalla politica delle sanzioni dell’Ue).
[b]L’accerchiamento sta dando risultati. I britannici stanno uscendo dall’Ue, i Paesi dell’Est europeo è come se ne fossero già usciti. Il nazionalismo britannico assomiglia sempre di più a quello dominante a Washington D.C. L’involuzione illiberale di Paesi come la Polonia, l’Ungheria o la Romania li avvicina sempre di più a Mosca.
Se così è, sarebbe meglio lavorare per risolvere la debolezza politica dell’Ue, piuttosto che indignarsi.
[/b]
Perché è questa debolezza che incentiva gli appetiti di Trump e Putin. Infatti, nonostante l’Europa integrata abbia il più grande mercato unico del mondo o un sistema legale tra i più avanzati, essa non ha però una politica. Non dispone di istituzioni efficienti e legittime e, soprattutto, ha smarrito il senso della sua missione. Assomiglia a coloro che nascono poveri e poi diventano ricchi con fatica e intelligenza. Ma, invecchiando, si adagiano compiacenti a guardarsi indietro, per essere travolti da chi non si è fermato. Anche l’Ue ha pensato che la storia fosse finita con i suoi successi. Ma così non è. Con il risultato che, frastornata, è ritornata a fare i conti con il problema che aveva esorcizzata per 60 anni. La sua sicurezza.
È ritornata cioè a quel 30 agosto del 1954, quando l’Assemblea nazionale francese bocciò il progetto di costruzione di una Comunità europea della difesa, fortemente voluto da uomini come Schuman, De Gasperi e Adenauer. Quegli uomini sapevano che le unioni di Stati nascono per necessità prima che per amore. Nascono per neutralizzare le ambizioni espansive di potenze lontane e per prevenire i conflitti tra Stati vicini. È stata la preoccupazione di garantire la sicurezza che spinse le élite degli Stati americani a sostituire gli Articoli della Confederazione del 1781 con la nuova costituzione federale del 1787. Anche allora, le potenze del tempo (Gran Bretagna, Francia e Spagna) avevano cercato di lavorare ai fianchi la vecchia confederazione, così da portare l’uno o l’altro gruppo di Stati sotto l’influenza dell’una o dell’altra potenza. E così è avvenuto in Svizzera nel 1848. Dopo la sconfitta del 1954, in Europa, la risposta alla domanda di sicurezza fu fornita dagli Stati Uniti e dalla loro egemonia all’interno della Nato. Ma così l’Europa ha finito per addormentarsi sul divano di un mondo sicuro, dimenticandosi che ciò era dovuto all’azione di altri. Trump e Putin l’hanno risvegliata.
È dalla necessità di garantirci la sicurezza che dovrebbe partire la Dichiarazione di Roma per i 60 anni dei Trattati. Una sicurezza che va intesa nelle sue componenti inestricabili (militare, territoriale ed economica). E su cui poco si sta facendo. Per quanto riguarda la sicurezza militare, é vero che il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha inviato una lettera allarmata ai capi di governo in preparazione dell’incontro tenutosi l’altro ieri a La Valletta. Scrive Tusk che le sfide che l’Ue deve affrontare «sono le più pericolose mai fronteggiate da quando sono stati firmati i Trattati di Roma». E tra di esse include la sfida proveniente dalla nuova presidenza Trump che sta mettendo «in discussione gli ultimi 70 anni di politica estera americana». Eppure all’allarme non segue alcuna proposta. Ad esempio, di avviare almeno una cooperazione rafforzata sul piano della difesa tra i Paesi che ne condividono la necessità. Una cooperazione che consenta a quei Paesi di agire collegialmente all’interno della Nato, così da aumentare il loro potere negoziale nei confronti di Washington D.C. Ma anche sulla sicurezza territoriale si abbaia e non si morde. È vero che nella riunione di La Valletta si è assunta una visione più ampia dei flussi migratori, prendendo in considerazione anche la cosiddetta strada del Mediterraneo centrale in cui passano (e muoiono) centinaia di miglia di persone. Ma poi, dietro le parole, la sostanza latita. Si continua a proporre una politica volontaristica, basata su una maggiore “cooperazione operativa” tra gli stati membri e lo European Border and Coast Guard oppure ci si impegna ad investire 200 milioni di euro in Libia (tolti dal Fondo per l’Africa), ma di una politica comune di sicurezza territoriale dell’Ue non si parla. Eppure, senza un sistema europeo di protezione delle frontiere dell’Ue e un’intelligence europea per combattere il terrorismo internazionale, sarà difficile rassicurare i cittadini europei. E infine anche sulla sicurezza economica i passi avanti sono troppo timidi. Basti ricordare che non è stata ancora messa in sicurezza l’unione bancaria oppure non è stata ancora avviata un’assicurazione europea contro la disoccupazione che metta in sicurezza il futuro dei nostri giovani.
Non è vero che l’Europa integrata non abbia fatto nulla. Anzi. Senza l’Europa integrata la nostra vita sarebbe di gran lunga più insicura. Tuttavia, non ha fatto abbastanza, perché prigioniera delle sue divisioni interne e degli egoismi nazionali dei suoi stati membri. Certamente, sarebbe meglio andare avanti tutti insieme. Ma ciò non è possibile. Lo ha riconosciuto anche il cancelliere Merkel, uscita dalla riunione di La Valletta proponendo un’Europa a più velocità. Ben arrivata. Tuttavia, non basta. Le differenze all’interno dell’Ue non riguardano le velocità di percorrenza, ma la direzione da percorrere.
Occorre andare verso una differenziazione istituzionale, se non costituzionale, che consenta ad un gruppo di Paesi di darsi un’identità politica, preservando il mercato unico come ambito di cooperazione con gli altri Paesi. Altrimenti, dietro l’Europa a più velocità, si corre il rischio di creare coalizioni diverse di paesi intorno a regimi diversi di policy. Un club di tanti clubs che, oltre a non essere una democrazia, sarebbe più facilmente preda delle ambizioni di Trump e di Putin. L’Europa integrata non ha bisogno di dichiarazioni retoriche. Ha bisogno di una strategia per uscire dall’assedio.
sfabbrini@luiss.it
–di Sergio Fabbrini Domenica 05 Febbraio 2017
Occorre elaborare il lutto. Prendendo atto che il nuovo inquilino della Casa Bianca non ama l’Europa integrata. Un sentimento peraltro condiviso anche dal vecchio proprietario del Cremlino. L’Europa integrata non può continuare ad indignarsi per i cambiamenti radicali che sono intervenuti sul piano globale. Non solamente perché l’indignazione è una risorsa scarsa che non va sprecata, ma anche perché quei cambiamenti sono destinati a durare nonostante la nostra indignazione. È vero, l’Europa integrata è oggi assediata, a oriente ed occidente, come non lo era mai stata nel passato. Non si esce però da un assedio senza una strategia.
Naturalmente, gli Stati Uniti e la Russia non sono la stessa cosa, essendo i primi un regime democratico e la seconda un regime autoritario. Tuttavia hanno uno scopo comune, la disarticolazione dell’Unione europea (Ue), che ovviamente perseguono con tattiche differenti.
Trump non ama il multilateralismo, perché è un sistema che imbriglia le grandi potenze. La sua America vuole rapporti bilaterali con i singoli Paesi europei, perché nel bilateralismo ritorna ad essere il partner più forte. Nello stesso tempo, Putin vuole disarticolare l’Europa integrata, perché così può ricostruire una sfera di influenza russa sui Paesi dell’Est. Così, da un lato, Trump promette a May un accordo commercial speciale tra i loro Paesi (a condizione che la Gran Bretagna si stacchi nettamente dall’Ue) e, dall’altro lato, Putin rassicura Orban che continuerà a ricevere l’indispensabile energia (petrolio e gas naturale) dal suo Paese (a condizione che l’Ungheria si distacchi dalla politica delle sanzioni dell’Ue).
[b]L’accerchiamento sta dando risultati. I britannici stanno uscendo dall’Ue, i Paesi dell’Est europeo è come se ne fossero già usciti. Il nazionalismo britannico assomiglia sempre di più a quello dominante a Washington D.C. L’involuzione illiberale di Paesi come la Polonia, l’Ungheria o la Romania li avvicina sempre di più a Mosca.
Se così è, sarebbe meglio lavorare per risolvere la debolezza politica dell’Ue, piuttosto che indignarsi.
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Perché è questa debolezza che incentiva gli appetiti di Trump e Putin. Infatti, nonostante l’Europa integrata abbia il più grande mercato unico del mondo o un sistema legale tra i più avanzati, essa non ha però una politica. Non dispone di istituzioni efficienti e legittime e, soprattutto, ha smarrito il senso della sua missione. Assomiglia a coloro che nascono poveri e poi diventano ricchi con fatica e intelligenza. Ma, invecchiando, si adagiano compiacenti a guardarsi indietro, per essere travolti da chi non si è fermato. Anche l’Ue ha pensato che la storia fosse finita con i suoi successi. Ma così non è. Con il risultato che, frastornata, è ritornata a fare i conti con il problema che aveva esorcizzata per 60 anni. La sua sicurezza.
È ritornata cioè a quel 30 agosto del 1954, quando l’Assemblea nazionale francese bocciò il progetto di costruzione di una Comunità europea della difesa, fortemente voluto da uomini come Schuman, De Gasperi e Adenauer. Quegli uomini sapevano che le unioni di Stati nascono per necessità prima che per amore. Nascono per neutralizzare le ambizioni espansive di potenze lontane e per prevenire i conflitti tra Stati vicini. È stata la preoccupazione di garantire la sicurezza che spinse le élite degli Stati americani a sostituire gli Articoli della Confederazione del 1781 con la nuova costituzione federale del 1787. Anche allora, le potenze del tempo (Gran Bretagna, Francia e Spagna) avevano cercato di lavorare ai fianchi la vecchia confederazione, così da portare l’uno o l’altro gruppo di Stati sotto l’influenza dell’una o dell’altra potenza. E così è avvenuto in Svizzera nel 1848. Dopo la sconfitta del 1954, in Europa, la risposta alla domanda di sicurezza fu fornita dagli Stati Uniti e dalla loro egemonia all’interno della Nato. Ma così l’Europa ha finito per addormentarsi sul divano di un mondo sicuro, dimenticandosi che ciò era dovuto all’azione di altri. Trump e Putin l’hanno risvegliata.
È dalla necessità di garantirci la sicurezza che dovrebbe partire la Dichiarazione di Roma per i 60 anni dei Trattati. Una sicurezza che va intesa nelle sue componenti inestricabili (militare, territoriale ed economica). E su cui poco si sta facendo. Per quanto riguarda la sicurezza militare, é vero che il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha inviato una lettera allarmata ai capi di governo in preparazione dell’incontro tenutosi l’altro ieri a La Valletta. Scrive Tusk che le sfide che l’Ue deve affrontare «sono le più pericolose mai fronteggiate da quando sono stati firmati i Trattati di Roma». E tra di esse include la sfida proveniente dalla nuova presidenza Trump che sta mettendo «in discussione gli ultimi 70 anni di politica estera americana». Eppure all’allarme non segue alcuna proposta. Ad esempio, di avviare almeno una cooperazione rafforzata sul piano della difesa tra i Paesi che ne condividono la necessità. Una cooperazione che consenta a quei Paesi di agire collegialmente all’interno della Nato, così da aumentare il loro potere negoziale nei confronti di Washington D.C. Ma anche sulla sicurezza territoriale si abbaia e non si morde. È vero che nella riunione di La Valletta si è assunta una visione più ampia dei flussi migratori, prendendo in considerazione anche la cosiddetta strada del Mediterraneo centrale in cui passano (e muoiono) centinaia di miglia di persone. Ma poi, dietro le parole, la sostanza latita. Si continua a proporre una politica volontaristica, basata su una maggiore “cooperazione operativa” tra gli stati membri e lo European Border and Coast Guard oppure ci si impegna ad investire 200 milioni di euro in Libia (tolti dal Fondo per l’Africa), ma di una politica comune di sicurezza territoriale dell’Ue non si parla. Eppure, senza un sistema europeo di protezione delle frontiere dell’Ue e un’intelligence europea per combattere il terrorismo internazionale, sarà difficile rassicurare i cittadini europei. E infine anche sulla sicurezza economica i passi avanti sono troppo timidi. Basti ricordare che non è stata ancora messa in sicurezza l’unione bancaria oppure non è stata ancora avviata un’assicurazione europea contro la disoccupazione che metta in sicurezza il futuro dei nostri giovani.
Non è vero che l’Europa integrata non abbia fatto nulla. Anzi. Senza l’Europa integrata la nostra vita sarebbe di gran lunga più insicura. Tuttavia, non ha fatto abbastanza, perché prigioniera delle sue divisioni interne e degli egoismi nazionali dei suoi stati membri. Certamente, sarebbe meglio andare avanti tutti insieme. Ma ciò non è possibile. Lo ha riconosciuto anche il cancelliere Merkel, uscita dalla riunione di La Valletta proponendo un’Europa a più velocità. Ben arrivata. Tuttavia, non basta. Le differenze all’interno dell’Ue non riguardano le velocità di percorrenza, ma la direzione da percorrere.
Occorre andare verso una differenziazione istituzionale, se non costituzionale, che consenta ad un gruppo di Paesi di darsi un’identità politica, preservando il mercato unico come ambito di cooperazione con gli altri Paesi. Altrimenti, dietro l’Europa a più velocità, si corre il rischio di creare coalizioni diverse di paesi intorno a regimi diversi di policy. Un club di tanti clubs che, oltre a non essere una democrazia, sarebbe più facilmente preda delle ambizioni di Trump e di Putin. L’Europa integrata non ha bisogno di dichiarazioni retoriche. Ha bisogno di una strategia per uscire dall’assedio.
sfabbrini@luiss.it