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Messaggioda flaviomob il 13/10/2016, 1:00

Repubblica:

Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti: Zagrebelsky risponde a Scalfari

“La democrazia è lotta per la democrazia e non è la classe dei privilegiati quella che può condurla. Riflessioni che hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Sì, e molto da vicino"


di GUSTAVO ZAGREBELSKY
12 ottobre 2016

L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura. Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.

Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.

Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.

Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto.

In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”.

Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?

Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così. Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.

Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale.

Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.


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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda pianogrande il 13/10/2016, 1:25

Direi oligarchia con controllo democratico o oligarchia senza controllo democratico.
Dopodiché si può parlare delle varie possibili forme di controllo democratico.
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda flaviomob il 16/10/2016, 18:42

Per me basta questo obbrobrio... Ma come si fa?

Art. 10. (Procedimento legislativo) 1. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. -- La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.
Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei deputati».


E poi ancora:

"Manifesto dei Valori del Partito Democratico" approvato il 16 febbraio 2008:

"La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006."


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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda mauri il 16/10/2016, 19:03

per me l'obbrobrio è il piddì che disattende il loro manifesto del 2008, ma è anche vero sono passati 8 anni e più e molta acqua è passata sotto i ponti molte cose sono cambiate e anche il piddì e quindi deve scrivere un nuovo manifesto propositi per il futuro ma a breve...
l'artico 10 che citi è semplicemente incomprensibile, secondo me non lo capisce nemmeno chi lo ha scritto
ecco gli articoli devono essere leggibili da tutti e soprattutto comprensibili e non interpretabili, altrimenti che costituzione è?
di tutti gli italiani? no
ciao mauri
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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda gabriele il 17/10/2016, 8:30

mauri ha scritto: e quindi deve scrivere un nuovo manifesto


Se sarà come con la "riforma" costituzionale, Renzi ci metterà poco a cambiarlo
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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda Robyn il 17/10/2016, 11:39

Sinceramente sarei un pò preoccupato della vittoria del NO il rischio è che torni la vecchia classe dirigente.La domanda è che cosa torna a fare?la lotta al comunismo?Per il nostro paese potrebbe essere come il passo del gambero mentre viaggia ad una velocità diversa.La migliore cosa è che il governo rientri nelle sue prerogative come del resto è nel modello westminster perche è il parlamento il luogo dove si fanno le scelte.Serve che esecutivo e presidente del consiglio siano più sobri come del resto è sempre stato tranne l'eccezione di berlusconi.In sintesi mettere fine agli eccessi dell'esecutivo.La parentesi berlusconi è stata un disastro perche poi si è cercato di imitarlo ,quando al contrario la sua caduta doveva significare la fine di un ciclo.Di certo è che se vince il SI la costituzione andra scritta un pò meglio perche Moro è stato dimenticato
Locke la democrazia è fatta di molte persone
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Re: Zagrebelsky risponde

Messaggioda flaviomob il 23/10/2016, 15:36

Nel merito. Il no in 10 punti. Di Roberta Calvano.
23 ottobre 2016
(di Roberta Calvano, Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza)

La riforma del bicameralismo paritario, da tempo auspicata, così come disegnata – appare irrazionale. Da un lato essa produrrebbe come primo assurdo effetto la presenza di due rami del Parlamento con maggioranze diverse e contrapposte; inoltre ridurre i soli componenti del Senato senza prevedere una contemporanea riduzione dei componenti della Camera produrrebbe un eccessivo squilibrio dimensionale tra le due camere che si riverbererebbe tra l’altro sull’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM.
Il ddl disciplina la composizione del Senato in maniera confusa e poco chiara, non consentendo una chiara rappresentazione del pluralismo territoriale, sociale e politico delle Regioni e degli enti locali; otto regioni si vedrebbero attribuire solo due senatori ciascuna, mentre altre verrebbero sovrarappresentate irragionevolmente pur avendo una popolazione inferiore (Liguria con 1.500.000 abitanti avrà due senatori, Trentino con 1.250.000 ne avrà quattro), mentre si approfondirebbe il divario tra Regioni del nord e Regioni del sud.
Il ddl disegna per il Senato un insieme di compiti per cui, se da un lato esso sarebbe privo di poteri significativi, dall’altro esso verrebbe gravato di compiti ad alto tasso di tecnicismo inadatti ad essere svolti dai senatori-sindaci e senatori-consiglieri regionali, rischiando in definitiva di avere soltanto una funzione di blocco e rallentamento a causa della complessità delle procedure.
Il mantenimento del divieto di mandato imperativo per i senatori impedirebbe al Senato di essere la sede di rappresentanza degli enti territoriali e la Camera delle autonomie da tempo auspicata. Al di fuori di esso, la reale sede di incontro delle istanze della periferia e del centro risiederebbe ancora nel sistema delle conferenze Stato regioni, non menzionato nel testo costituzionale.
Le procedure legislative disegnate nel ddl sono barocche e farraginose e non realizzerebbero l’intento di produrre snellimento e semplificazione; persino il voto a data certa prevede una disciplina che sacrificherebbe al massimo la democraticità a vantaggio di una esigua riduzione dei tempi (75gg); in questo quadro, affidare al Senato l’attuazione dei numerosissimi atti adottati dall’Ue smentisce poi la proclamata velocizzazione e snellimento delle procedure. Considerando poi che il Senato sarà estromesso dal circuito fiduciario, esso non potrà essere “riportato all’ordine” tramite lo strumento della questione di fiducia.
Il ddl produrrebbe il risultato paradossale per cui, mentre alle Regioni verrebbe garantita finalmente una loro (più nominale che reale) rappresentanza in Parlamento, esse verrebbero private di larga parte dei loro poteri normativi; le Regioni a statuto speciale conserverebbero invece le loro prerogative, non si capisce perché, rimanendo per esse valido il vecchio titolo V. Altrettanto singolarmente, le province autonome di Trento e Bolzano conserverebbero notevoli privilegi mentre tutte le altre province verrebbero cancellate dal testo costituzionale.
La disciplina del decreto legge nel ddl, nonostante la previsione di limiti all’abuso di questo strumento (cui si è assistito per decenni), non riuscirebbe ad incidere su una prassi che deriva non dall’assenza di limiti, ma dalla debolezza estrema dell’istituzione parlamentare collegata al sistema elettorale e alla crisi dei partiti; pensare di risolvere un problema annoso come quello dell’abuso del decreto legge senza guardare alle cause appare illusorio.
Per quanto concerne gli strumenti di democrazia diretta, il ddl introduce la possibilità di Referendum propositivi senza indicare potere di iniziativa, limiti, procedure: una norma in bianco che rischia di essere pericolosa; si prevede poi l’abbassamento del quorum per i soli referendum abrogativi proposti da forze politiche che riescano a raccogliere 800.000 firme, collegandolo all’affluenza al voto delle precedenti elezioni politiche. Si avvantaggerebbe così impropriamente chi ha già una diffusa presenza sul territorio e mezzi economici necessari per le (oggi molto costose) operazioni di raccolta delle firme.
Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, quali organi di massima garanzia della Costituzione pur essendo toccati marginalmente dal ddl appaiono a rischio di indebolimento; il primo per una norma che ne consentirebbe l’elezione a maggioranza dei presenti (dal settimo scrutinio maggioranza dei 3/5) e non dei componenti l’organo; la seconda per la nomina di due componenti da parte del Senato, che non potrebbe che connotarli come “giudici delle regioni”, finendo col minare l’unitarietà e la legittimazione del collegio di massima garanzia della Costituzione.
Gli effetti complessivi sulla forma di Stato e di governo possono sinteticamente essere descritti come di accentramento di troppi poteri dalla periferia al centro e dagli altri organi in capo al governo, e più grave ancora, di una costruzione barocca e complicata che potrebbe portare a molti problemi applicativi.

http://www.centroriformastato.it/no-dieci-punti/


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