Evidentemente quando i problemi sono seri, chi ha fatto sul serio politica se ne accorge.
Mi pare strano trovarmi d'accordo con De Mita, ma non solo penso che abbia ragione per quel che riguarda il PD.
Penso che le critiche che fa al PD in generale potrebbero applicarsi, nel nostro piccolo, anche al modo con il quale qui stiamo cominciando a dialogare tra noi: grandi temi di carattere teorico, concretezza prossima allo zero.
L'INTERVISTA
De Mita: la questione morale? Il Pd dovrebbe sciogliersi con Veltroni regna il cesarismo
«Il partito è diventato un ingombro e tutti si esercitano in concetti astratti, senza proposte»
ROMA — «Lei mi chiede cosa penso della cosiddetta questione morale che, secondo numerosi giornali, attanaglierebbe il Pd, giusto?».
Cosa ne pensa, e come immagina sia risolvibile.
«Io penso che il Pd risolverebbe ogni suo problema sciogliendosi».
Può ripetere il concetto?
«Ha capito bene: vede, si tratta di un partito nato sulle intenzioni, sugli auspici, su una non meglio precisata idea di nuovo. Così ora, purtroppo, questo partito è diventato, come dire? un autentico ingombro».
(È sempre un privilegio ragionare di politica con Ciriaco De Mita: ex gran capo della Democrazia Cristiana — di cui fu a lungo segretario nazionale — e poi anche ex presidente del Consiglio, con i suoi ottant'anni portati splendidamente, con il medico curante che era e resta un pediatra, De Mita continua a fornire sofisticate, e spesso sorprendenti, chiavi di lettura dei fatti).
L'idea di sciogliere il Pd è piuttosto forte.
«Sarà forte, ma è spiegabile. D'altra parte, non mi pare di essere il solo a nutrire qualche dubbio. Leggo certe profonde perplessità di Arturo Parisi, sulla Stampa leggo un'acuta analisi firmata da Emanuele Macaluso...».
A lei, presidente, cos'è, di preciso, che non la convince?
«Prendiamo il dibattito che s'è sviluppato sulla riforma della giustizia. Bene: mentre da un lato Berlusconi, davanti a una vera grande questione com'è questa, dimostra attenzione ma non un comportamento da vero statista, perché si rifiuta di parlare, di trattare con metà del Parlamento, nel Pd, cosa accade? Accade che i vari esponenti chiedano di convergere su una soluzione di rara astrattezza... Voglio dire che stanno tutti lì a ripetere che la riforma dovrà rispettare la Costituzione, l'autonomia della magistratura... Si esercitano in condivisibili concetti astratti, ma la sostanza? La loro proposta?».
Un po' complicata, in effetti, da decifrare.
«Appunto: analizzando il dibattito si coglie solo un insieme di desideri, e di no».
Magari, nel Pd, può però esserci qualche imbarazzo. Sono molte le questioni aperte. Ci sono i guai napoletani, c'è il sindaco Leonardo Domenici che si incatena, c'è un diffuso...
«Mi ascolti: la vera questione morale è quella politica».
Presidente, può essere più preciso?
«Dobbiamo fare un passo indietro, e tornare alla stagione che precedette la tragedia di Tangentopoli. Fino ad allora, l'attività della politica consisteva nella capacità che la maggior parte di noi aveva di interpretare i bisogni della gente. Voglio dire che tu venivi eletto per trovare soluzioni ai problemi che gli italiani speravano fossero risolti. Potevi averle vinte, le elezioni, o perse: ma la certezza che tu fossi lì a impegnarti per il bene comune ti conferiva una riconosciuta autorità morale».
Poi cos'è accaduto?
«Poi, progressivamente, la politica ha cominciato a considerare il potere non come un luogo dove trovare risposte alle istanze della gente, ma come qualcosa di fine a se stesso».
C'è una data, un fatto che segna questo cambio di direzione?
«Credo che si possa fare riferimento alla costituzione del cosiddetto Pentapartito, che ufficializzò questa nuova tendenza: era una coalizione nata non per governare il potere nell'interesse della comunità, ma per conquistare il potere. Purtroppo, quando poi stava per esplodere Tangentopoli, i partiti non ebbero la forza di capire come e perché il meccanismo si fosse inceppato... e, anzi, lasciarono il compito di ogni valutazione ai magistrati...».
Alcuni osservatori sostengono che i problemi giudiziari che gravano sul Pd siano, di fatto, la conclusione di quella stagione.
«Mah... Io ricordo che il Pci, all'epoca, si aggrappò con una certa forza a una lettura giustizialista degli avvenimenti. Forte di un metro di valutazione piuttosto discutibile».
Lo ricordi.
«I comunisti erano comunque virtuosi, e dunque non in discussione. Chi invece era nato democratico cristiano, beh...».
Lei non ha dimenticato, presidente, quei giorni.
«Io non dimentico ciò che era nella memoria di una certa cultura contadina: e cioè che qualunque peccato, prima o poi, si sconta, e che la pena peggiore è quella distillata nel tempo...».
Che consiglio dà a Bassolino: dovrebbe dimettersi, o no?
«Allora non mi sono spiegato: sbagliammo ai tempi di Tangentopoli, e sbaglieremmo adesso, ragionando così. Qui non dobbiamo correre dietro a questa o a quell'inchiesta. Qui bisogna avere la forza di comprendere le ragioni per cui la politica, ancora una volta, si dimostra in crisi».
Lei è preoccupato, presidente.
«Io osservo che la politica è ormai ridotta ad essere transazione tra potenti».
Una riflessione grave.
«Aggiungo che la causa di tutto questo può forse essere rintracciata nella personalizzazione della politica. Divenuta, appunto, solo ed esclusivo esercizio del potere. Un potere che non è più una funzione, ma una semplice condizione di dominio».
A chi sta pensando?
«Penso al sistema così com'è e al premier Berlusconi che lo interpreta, gestisce in maniera divina, dando così da pensare di essere in Paradiso... Insomma sto pensando a come tutte le fondamentali strutture del telaio democratico siano state rese inagibili. I consigli comunali e regionali sono ormai del tutto ininfluenti, il Parlamento è considerato un ostacolo, il voto è un rito e quanto poi alle primarie, beh, sono la legittimazione del tiranno».
Veltroni è stato eletto con le primarie.
«Guardi, non c'è struttura più antidemocratica della struttura del Pd».
In che senso?
«Tutti ricordano che mentre il segretario è stato eletto con voto, e dunque consenso popolare, poi lui ha assunto una gestione cesarista...».
Questa è un'accusa che...
«Scusi, ma come si può immaginare di far riferimento a una pratica democratica, se l'eletto nomina personalmente gli organi che poi dovrebbero controllarlo?».
Almeno sembra che Veltroni abbia fatto pace con D'Alema.
«Sarebbe stata più utile una bella litigata su una grande idea, invece che una pace di comodo... ma così finisco per parlar male di D'Alema, vero?».
Un po'.
«No, non voglio. C'è stima, tra me e lui».
Fabrizio Roncone
13 dicembre 2008