il Fatto Quotidiano 21 settembre 2014
Che fai, li cacci?
Il premier aizza la base contro Bersani & C. “Basta vecchia guardia. Non tornerete”
Dopo il video anti-Cgil, lettera agli iscritti per attaccare la sinistra
Guerra aperta nel Pd sull’art. 18 in vista del voto parlamentare di questa settimana
Bonanni (Cisl) sull’attenti si sfila dalla Cgil e dalla Fiom
Le aree anti-renziane si riuniscono martedì sera per coordinarsi
Insieme valgono il 30% del partito, di più nei gruppi parlamentari
di Marco Palombi
L’equivoco del Pd forse sta per sciogliersi. L’equivoco umano, politico, ideologico per così dire. Le minoranze interne - dopo lo schiaffone del congresso e il pugno allo stomaco del 40,8% raccolto dal one man show di Matteo Renzi alle Europee - si stanno svegliando e il premier non ha intenzione di lasciargli il tempo di organizzarsi.
Se martedì le varie anime anti-renziane del partito hanno convocato una riunione per darsi una qualche forma di coordinamento, ieri Renzi ha reso pubblica una lettera agli iscritti che è quasi un avviso di sfratto: “Il 29 settembre presenterò in direzione nazionale il Jobs Act...
Chi oggi difende il sistema vigente difende un modello di disuguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età...
Ci hanno detto che siamo di destra per questo. Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta”.
CONCLUSIONE: “Anche nel nostro partito c’ è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd del 25%. Noi no. Noi siamo qui per cambiare l’Italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova”. Traduzione: se proprio non siete convinti di tutto, gentili iscritti, ricordatevi che con me si vince e con quelli no. Non torneranno, no pasaran. Lo scontro tra Renzi e i rimasugli della “ditta” (copyright Bersani) era inevitabile, che il terreno principale su cui si eserciterà sia la riforma del mercato del lavoro è solo un felice piegarsi delle cose alla gioia del simbolismo.
Finora il premier ha avuto vita facile: le minoranze interne sono state divise e spesso tendenti all’appeasement col capo: è il caso,
in particolare, del capogruppo alla Camera Roberto Speranza e dell’attuale presidente del partito Matteo Orfini, che hanno rispettivamente spaccato le componenti - all’ingrosso - bersaniana e dalemiana scegliendo sostanzialmente di “entrare in maggioranza” col segretario e Dario Franceschini. È uno degli equivoci di cui si parlava e la riunione di martedì servirà a scioglierlo: Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Pippo Civati, Cesare Damiano pezzi di partito che fanno capo alle vecchie aree di Rosy Bindi ed Enrico Letta (è stato invitato anche il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, che non ha ancora risposto) tentano di darsi una strategia e una voce comune.
“L’insieme di tutti questi pezzi vale il 30-35% del partito, di più se si parla dei soli gruppi parlamentari: è chiaro che Renzi senta il bisogno di attaccarli”, spiega una fonte democratica.
Sono loro la “vecchia guardia”, anche nel caso che abbiano cominciato a fare politica dopo il premier, che l’ha sempre fatta. Uno dei campi di battaglia sarà sicuramente la commissione Lavoro della Camera: il Jobs Act, infatti, passerà quasi sicuramente in carrozza in Senato (la discussione comincia in Aula la prossima settimana), mentre il fuoco di sbarramento della minoranza Pd ha bisogno di un luogo favorevole alle imboscate. L’XI commissione di Montecitorio è perfetta: il presidente è l’ex Cgil Cesare Damiano e i sindacalisti vi abbondano come neanche in fabbrica (a spanne se ne contano una decina su 46 membri), come pure la sinistra Pd.
COME PROCEDERE non è così difficile. Il primo obiettivo è rendere la legge delega del governo meno ambigua: per com’è scritta adesso è così generica da consentire al governo di fare praticamente quel che vuole coi decreti attuativi (il cosiddetto “eccesso di delega” potrebbe in realtà anche essere motivo di incostituzionalità, ma inutile illudersi). Un esempio.
Nessuno - nemmeno la Cgil - contesta il “contratto a tutele crescenti”: se si limitasse ai primi tre anni e servisse a sfoltire la giungla dei contratti precari non ci sarebbero problemi, ma il governo questo non lo dice e preferisce usare formule tipo “andare oltre i tabù” (Delrio).
D’altronde si tenterà di intervenire anche su altri contenuti del Jobs Act: la possibilità di demansionare i dipendenti, ad esempio, o quella di applicare i contratti di solidarietà (riduzioni di orario/stipendio) in cambio di assunzioni; la restrizione della possibilità di accedere alla Cassa integrazione senza che sia chiaro come e quando potrà essere applicato il futuro “sussidio di disoccupazione universale” (i due miliardi che Renzi ha promesso non bastano affatto).
Il governo, però, ieri ha almeno ottenuto un risultato: il fronte sindacale è già rotto. Ai distinguo di Luigi Angeletti (Uil) di venerdì, infatti, ieri s’è aggiunta la defezione di Raffaele Bonanni (Cisl): “Il casino di questi giorni tra il Pd e la Cgil è solamente una faccenda di partito, che attiene a quelli là. L’articolo 18 è ormai diventato un’ossessione”. Pieno schema degli anni berlusconiani, anche se all’epoca non portò benissimo al governo e nemmeno ai sindacati.
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La domanda che in questi giorni viene sovente:E' auspicavbile una rottura nel pd? E' auspicabile che Matteo Berlusconi, ops Renzi, vada a fare il leader del centrodestra visto che Berlusconi continua a dire che le "riforme" di Renzi sono le sue?
hola