ARTICOLO 18, IL DIRITTO DI ESSERE UN PARASSITA.
LA CAMUSSO E LE PRETESE DI UN'IDEOLOGIA FALLITA
Non amiamo confrontarci con la cronaca, ma le deliranti frasi di Susanna Camusso sul Presidente del Consiglio e le eccessive influenze che il pensiero di Margaret Thatacher avrebbe su di lui ci obbligano a intervenire.
Se la Camusso avesse il dono dell'intelletto e un livello culturale appena superiore a quello di un primate elementare avrebbe ragionato sulle differenze che vi sono tra il Regno Unito e l'Italia in termini economici, culturali e sociali, e questo dovrebbe condurla spontaneamente ad un dignitoso silenzio. Ma al di la di queste miserie sindacali la vera domada da porsi è questa, "cos'è questo articolo 18 che quelli come la Camusso si ostinano a difendere comese si trattasse di un comendamento divino e come si declina nella pratica in questo paese? "
Per rispondere pubblichiamo una lettera suggerita dall'amico Alessandro Francesco Giudice che crediamo sia illuminante.
Buona lettura.
"Dal 1970 lavoro come tecnica-modellista e responsabile della qualità in un'azienda di confezioni a conduzione familiare che occupa circa 50 dipendenti, ditta presso la quale inizialmente ero dipendente; poi ne sono diventata socia avendone acquisito una piccola quota di partecipazione. Nel 1990 la ditta assunse un'operaia cucitrice che, dopo circa 6 mesi di regolare lavoro, si rese assente dal lavoro con regolare certificazione medica per 13 mesi consecutivi: motivo della malattia, un forte esaurimento nervoso causato dalla morte della madre, avvenuta 5 anni prima.
Allo scadere del periodo di comporto, la dipendente, non avendo più diritto a restare assente senza perdere il posto, si presentò al lavoro e subito ebbe una discussione con me in quanto non trovò nello spogliatoio la propria divisa lasciata lì 13 mesi prima, giungendo a minacciare di rovinare dei capi in lavorazione.
Passata una settimana, la stessa dipendente incominciò a insultare l'amministratore accusandolo di essere un ladro in quanto non le aveva retribuito alcuni giorni di malattia (che le erano stati trattenuti in quando, durante il periodo di malattia, era risultata assente dalla sua abitazione a un controllo dell'Inps).
Durante questa discussione la dipendente finse di cadere a terra come se fosse stata spinta e addirittura picchiata dal datore di lavoro, aggressione smentita da tutte le altre dipendenti presenti alla scena.
Da qui ha inizio l'odissea della nostra azienda.
Su consiglio dell'Unione industriali di Bergamo l'operaia viene licenziata per insubordinazione; la stessa impugna il licenziamento e avvia la causa, a seguito della quale, dopo un anno, il giudice del lavoro di Treviglio dà ragione all'azienda.
In appello, anche il Tribunale di Bergamo conferma la legittimità del licenziamento. La dipendente allora propone ricorso alla Cassazione, la quale rimanda il fascicolo al tribunale di Brescia per appurare alcuni punti. Il tutto si risolve nuovamente con una sentenza favorevole all'azienda.
A questo punto, la dipendente propone un secondo ricorso alla Cassazione, la quale nuovamente rimette la causa al giudice di appello. Si arriva così alla data maledetta del 6 marzo 2003, quando il Tribunale condanna l'azienda al reintegro della dipendente e alla corresponsione di tutte le mensilità dalla data del licenziamento (anno 1992) sino alla data del reintegro (2003), con interessi e rivalutazione monetaria, contributi previdenziali e relative sanzioni per l'omissione nell'arco di undici anni, oltre a tutte le spese processuali per i sei gradi di giudizio.
Oltre a ciò - non dimenticando che abbiamo comunque sostenuto enormi spese per l'assistenza prestata dal nostro legale - poco dopo la sentenza, la dipendente ha comunicato che rinunciava al posto di lavoro, ottenendo così, sempre a norma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il pagamento di ulteriori quindici mensilità di retribuzione.
E adesso, come fare a pagare un debito così grosso, per una ditta che lavora nel settore tessile, noto per avere margini di guadagno bassissimi? Si sono prospettate due soluzioni: portare i libri in Tribunale e chiudere la ditta, lasciando senza lavoro cinquanta persone, oppure ipotecare i beni personali dei soci (nel mio caso, un appartamento a uso di prima casa acquistato dopo venticinque anni di lavoro con mutuo, lo stesso per quanto riguarda l'amministratore). Tra le due ipotesi abbiamo scelto la seconda, perché siamo persone corrette, che amano il proprio lavoro e la realtà che sono riuscite a costruire in oltre trent'anni di attività; e che altrimenti si sentirebbero in colpa verso gli altri dipendenti dell'azienda, i quali hanno anch'essi dei figli da mantenere e il mutuo da pagare. Così mi ritrovo, a 58 anni, a ipotecare il mio appartamento di nuovo per altri 15 anni, per poter pagare 11 anni di retribuzioni e contributi a una persona, che per questo periodo dice di non aver mai lavorato (ma siamo in una zona con tasso di disoccupazione praticamente inesistente)...Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia, ma adesso non più. Mi scuso per lo sfogo".
Antonia Lavelli
(Lettera pubblicata dalla "Rivista italiana di diritto del lavoro", III, 2003, pag. 185 )