Pubblicato: Lun, 02/09/2013 - 15:15 • da: alberto bisin
da Repubblica del 9 agosto 2013
SI FA un gran parlare in questi giorni di fine della recessione e ritorno alla crescita. Il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, noto per la pacatezza e il controllo, ha dichiarato ieri: «Siamo a un punto di svolta del ciclo». Le ragioni di questo ottimismo sono molteplici e reali.
Idati Istat sembrano segnare un rallentamento nel calo del Pil, la fiducia di imprese e consumatori è in aumento, e così la produzione industriale. Questi dati congiunturali relativamente favorevoli non sono ovviamente il prodotto della politica economica interna. Nel corso della recessione l'Italia non è stata in condizione di operare una politica di domanda aggregata, al contrario ha dovuto rientrare fiscalmente, a causa della drammatica situazione di bilancio in cui si trova da tempo (in un certo senso questa situazione è proprio il frutto di una irresponsabile politica di domanda passata).
La congiuntura favorevole è invece dovuta principalmente al fatto che gli Stati Uniti sono in ripresa ei paesi emergenti, per quanto in rallentamento, crescono purtuttavia a buon ritmo. Niente di male in questo: l'Italia è un paese relativamente piccolo e tradizionalmente molto aperto, i cui cicli seguono quelli del resto del mondo. E infatti nel primo semestre 2013 il saldo commerciale dell'Italia con i paesi extra Ue è pari a 8 miliardi a fronte di un disavanzo di 5,1 miliardi nello stesso periodo del 2012 (dati Istat). Non sono solo le importazioni a calare, a causa dell'austerità cui il paese si è sottoposto, ma anche le esportazioni a crescere. Insomma, dopo tante cattive notizie, vale la pena godere di quelle buone.
Ma una volta assaporate le buone notizie non ci resta che tornare alla dura realtà. E la dura realtà ha due componenti fondamentali che purtroppo non portano ad una visione troppo ottimista per il futuro economico del paese. La prima è che la situazione economica italiana non pare ben disposta a sfruttare appieno la ripresa mondiale, soprattutto a causa delle condizioni del mercato del credito. La seconda è che i problemi economici fondamentali del paese non sono di carattere congiunturale ma sono invece strutturali; e su di essi ben poco è stato fatto in questi due anni di crisi.
Andiamo con ordine. Purtroppo per tante ragioni, quelle che Alessandro Penati non si stanca di documentare ed analizzare su queste colonne, le banche italiane sono in crisi profonda. Un sistema governance inefficiente, una sottocapitalizzazione evidente, seri problemi di raccolta, sofferenze elevate, una eccessiva esposizione verso i titoli del debito sovrano... insomma le banche non sono nelle condizioni di finanziare efficacemente la ripresa, nonostante le affermazioni rassicuranti dell'Abi. Di conseguenza, il miglioramento delle condizioni a cui le banche si finanziano è passato a famiglie e imprese sotto forma di minori tassi a cui indebitarsi in molti paesi in Europa; ma in Italia questo non succede, o succede in misura minima. Difficile così competere sui mercati internazionali alle nostre imprese, che oltretutto risentono di pessimi servizi, tasse elevate, energia costosa, e ogni altra sorta di inefficienze di sistema.
Ed è sulle inefficienze di sistema che casca l'asino. Perché due anni di crisi non hanno portato che in misura assolutamente minima ad affrontare i problemi strutturali del paese, come ha ben documentato Carlo Stagnaro su Linkiesta.it in occasione dell'anniversario della lettera della Bce al governo Berlusconi. [Nota della redazione: vedere http://www.linkiesta.it/italia-bce-2011-2013 ]
È vero che si è intervenuti sui conti a breve, ma a costo di un aumento della tassazione in un paese che dalle tasse era già soffocato (unica eccezione positiva la questione pensioni, pur con tutti i problemi sugli esodati ancora da risolversi). Ma la spending review si è persa tra le nebbie dell'amministrazione pubblica e le uniche riduzioni di spesa hanno riguardato il blocco del turnover, meccanico ed inefficiente. Non si è proceduto in nessun modo ad una riforma dei servizi pubblici locali e poco o nulla a quella dei servizi professionali.
La riforma del mercato del lavoro, appena iniziata, ha avuto effetti inesistenti se non negativi: nulla sulla decentralizzazione della contrattazione salariale, nessuna riforma dei contratti che possa avere effetto sul precariato; nulla sul pubblico impiego o più in generale sulla struttura dell'amministrazione pubblica. Per non parlare, nello specifico, di sanità e giustizia, che richiedono interventi profondi, ma di cui nessuno nemmeno parla (al di là delle questioni ad personam ). Liberalizzazioni e privatizzazioni sono in alto mare; anzi scudi alzati non appena vengono menzionate, come di recente dal ministro Saccomanni.
Davanti a tutto questo non aiuta una situazione politica che nella migliore delle ipotesi condanna il paese al completo immobilismo in materia economica, e nella peggiore lo porta ad una disastrosa implosione con nuove elezioni a breve (ed annessa campagna elettorale piena di promesse improponibili).
Ma tutti allegri, forse nel 2014 cresceremo del 0,5%, dopo più di un decennio di crescita pressoché nulla e dopo aver perso circa 8 punti percentuali di Pil dal 2007 ad oggi.