Pubblicato: Mar, 23/07/2013 - 08:30 • da: Alberto Bisin
Da La Repubblica
L’ipotesi ventilata dal ministro Saccomanni alcuni giorni addietro dal G-20 di Mosca, che il Tesoro potrebbe vendere sul mercato quote di aziende come Eni, Enel, Finmeccanica, ha mandato la politica e i social network in fibrillazione. Non e’ bastata nemmeno la rapidissima smentita (o era ritrattazione?) del ministro, che ha precisato di non avere indicato alcuna azienda specifica, a calmare le acque. Tra i primi a reagire naturalmente i sindacati, specie quelli piu’ attenti al settore pubblico come la Cisl di Bonanni. Ma una reazione negativa e’ stata abbastanza generalizzata.
Alcuni degli argomenti usati nel dibattito da chi ha preso posizione contro la vendita di quote di aziende a partecipazione pubblica sono “classici”: il fatto che queste aziende siano “strategiche”, la necessita’ di garantirne l’“italianita’”, e via discorrendo. Altri argomenti invece sembrano fondati su una fondamentale incomprensione di come funzionino i mercati finanziari: si dice che alcune di quelle imprese pagano dividendi che vanno a diminuzione del debito o, nei casi piu’ sofisticati, che per alcune di queste aziende i rendimenti sono superiori ai tassi che lo stato paga sul debito. Infine, alcuni argomentano che non sia questo il momento di vendere, che oggi, vista la situazione depressa dell’economia mondiale, vendere significhi “svendere”.
Vorrei provare a fare chiarezza nella nebbia di tutte queste argomentazioni, perche’ la discussione su un tema cosi’ importante possa essere un poco piu’ ordinata.
La questione delle aziende “strategiche” e’ una questione anche reale sulla carta ma e’ tipicamente una scusa, nel senso che ben poco anche in Eni, Enel, e Finmeccanica e’ davvero strategico. Non e’ un caso che cosa si intenda per strategico non e’ mai definito in modo appropriato. La parola e’ stata usata ad esempio anche per la compagnia aerea di bandiera; abbiamo visto con quali risultati. La questione dell’italianita’ e’ ancora piu’ evidentemente una cartina tornasole che eccita le menti protezioniste ma produce tipicamente solo misfatti. L’Alitalia e’ ancora un buon esempio. Ma soprattutto nessuno sembra ricordare la difesa dell’italianita’ del sistema bancario da parte del governatore Fazio, storia che e’ finita con l’acquisto di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena. Un affarone.
La questione dei dividendi o dei rendimenti delle aziende e’ a ben vedere erronea. Vendere sul mercato un’azienda che produca dividendi o in generale abbia un alto rendimento significa ottenere un prezzo maggiore rispetto ad una azienda che invece abbia rendimenti limitati. In teoria, con mercati perfetti, il prezzo di una azienda e’ addirittura il valore scontato dei dividendi attesi futuri. I mercati perfetti non sono di questo mondo ma i mercati mobiliari globali sono sufficientemente liquidi e competitivi che aziende sono vendute ogni giorno a prezzi che ben rappresentano i dividendi futuri. Non occorre quindi aspettare di incassare i dividendi per diminuire il debito, e’ sufficiente vendere le aziende oggi e usare i ricavati della vendita.
Inoltre, se e’ in parte vero che sarebbe meglio vendere in situazioni economiche migliori, che oggi “svenderemmo”, e’ anche vero che se oggi “svendiamo” e’ perche’ non abbiamo venduto in passato, abbiamo avuto fior di tempi migliori per farlo, e che aspettando non faremmo che metterci nella situazione di “svendere” ancora di piu’ (piu’ aziende e a peggior prezzo). Purtroppo sappiamo tutti che la struttura istituzionale del settore pubblico in Italia e’ tale che se vendere ora, nel mezzo della crisi di debito, e’ difficilissimo, farlo in momenti economicamente migliori sarebbe impossibile.
Ma se anche gli argomenti contro la vendita delle partecipazioni pubbliche sono deboli o incoerenti, come ho cercato di attestare, questo non significa che vendere sarebbe necessariamente buona cosa. Gli argomenti a favore della vendita ci sono eccome pero’: abbiamo un grande debito che ci costringe ad un’alta spesa per interessi e quindi, nella crisi finanziaria, ad un avanzo primario e all’austerita': un segnale ai mercati che il paese e' pronto ad agire direttamente sul debito sarebbe probabilmente fondamentale oggi; ma soprattutto, le imprese pubbliche in Italia sono al centro di sistema di corruttela/clientelismo che implica inefficienti servizi pubblici e anche privati (qualora dipendano dal o interagiscano col pubblico).
Il vero problema che si pone pero' e' essere convinti che le privatizzazioni non sarebbero strumenti per favorire gruppi privati vicini alla politica, garantendo loro prezzi di favore e/o potere di mercato. Esempi di privatizzazioni di questo tipo in passato sono facilissimi da trovare (ancora Alitalia, esempio buono per ogni stagione). Difficile davvero essere ottimisti. Gia' si parla di un fondo che sia gestito da Cassa Depositi e Prestiti. Pessima idea questa perche' sarebbe solamente un trucco, una finta vendita: Cdp e' fuori bilancio pubblico solo formalmente ma non nella sostanza. L'amara realta' e' che e' perfettamente possibile che il sistema istituzionale pubblico in Italia non sia in grado di farcela ad agire in modo corretto, in rispetto delle valutazioni del mercato e soprattutto dell'interesse dei cittadini.
Visione pessimistica questa ma certo non irrazionale. In questo caso allora, meglio limitarsi a liquidare le partecipazioni delle societa' in perdita. Il costo naturalmente si avra' in termini di possibili maggiori tensioni sul mercato del debito in un futuro anche prossimo, tassi piu' alti, e quindi maggiori sacrifici in termini di maggiori tasse e/o di minore spesa.