EZIO MAURO Cosa chiediamo alla Germania

Condivido totalmente! Ma resta sospeso un dubbio: e se la Ue e la Germania continueranno nel nulla di oggi???
http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... -38108563/
IL COMMENTO
Cosa chiediamo alla Germania
di EZIO MAURO
VISTA dall'Italia, l'opinione pubblica tedesca sembra credere che la crisi economico-finanziaria stia attaccando gli Stati sovrani dell'area mediterranea, risparmiando il cuore virtuoso dell'Europa più forte. Io credo invece che la prospettiva sia sbagliata e soprattutto che la verità sia più allarmante. L'attacco è all'Europa stessa attraverso la sua periferia più debole: è alla moneta come strumento e simbolo dell'unità del continente, e dunque è a tutto il processo politico, storico e culturale di costruzione europea che ha evitato conflitti per quasi settant'anni.
Vista dalla Germania, immagino che l'Italia sembri un problema troppo complicato per provare a risolverlo, e troppo serio per essere ignorato. Conviene dunque lasciare che gli italiani vengano a capo dei loro guai, fissando soltanto i binari su cui deve correre il Paese se vuole salvarsi, e la stazione d'arrivo. Nient'altro. Sorprendentemente, come sa il cancelliere Merkel, gli italiani ci stanno provando. Mario Monti ha recuperato credibilità e fiducia al Paese, lo ha schiodato dal livello del pregiudizio dov'era precipitato, non ha chiesto sconti e ha imposto misure molto dure. I cittadini si sono adeguati, accettando i parametri europei, e caricandosi i sacrifici conseguenti. Anche se i parametri sono in qualche misura ciechi, guardano al risultato di saldo e non al percorso in base al quale quel risultato si raggiunge, non conteggiano le ingiustizie, le iniquità di certe misure, il peso
che con la tassazione si scarica sui ceti più deboli, soprattutto in un Paese a forte evasione fiscale.
La Germania tempo fa aveva detto che l'Italia doveva fare i compiti a casa. Bene, li abbiamo fatti e li stiamo facendo. Come già aveva dimostrato al varo dell'euro, quando l'Europa chiama l'Italia risponde: in ritardo, con le sue contraddizioni, con i suoi elementi storici di debolezza (soprattutto il terzo debito pubblico del mondo) ma risponde, pronta a fare gli sforzi necessari per restare dentro quell'Unione Europea di cui è partner fondatore. Ma tagliare - e tassare - è più facile che crescere e sviluppare. Siamo arrivati al punto in cui la politica del rigore e dell'austerità va proseguita, ma da sola rischia di avvitarsi un una spirale di recessione, col pericolo di trasformare l'Europa nella palla al piede dell'economia mondiale, come dimostra l'allarme del presidente Obama.
La risposta a questi attacchi può venire soltanto dall'Europa, nessuno Stato nazionale può riuscire da solo a reggere un attacco alla moneta unica e alla costruzione Europea. La risposta è difensiva, naturalmente, introducendo un principio di salvaguardia centrale e solidale che oggi manca e che sostenga gli Stati e non soltanto le banche sotto attacco; ma è anche strategica, perché serve un piano di sviluppo e di crescita che può essere soltanto europeo, che assomigli al New Deal e che abbia l'ambizione di costruire le basi di una sicurezza economica del continente come condizione per la sua sicurezza politica, e dunque per una crescita del processo di unione.
C'è dunque bisogno di politica, di ambizione e di visione. Non di sconti ai Paesi più deboli e più direttamente nei guai. C'è bisogno che l'Europa prenda coscienza di sé, o che qualcuno le dia questa coscienza. Il limite dell'attuale classe dirigente europea - tutta - rischia di essere proprio la mancanza di visione e d'ambizione, dunque di politica. Come se fosse difficile vedere che si esce dalla crisi solo con più coraggio, con la consapevolezza di dover ripensare alla governance complessiva dell'Europa, perché la crisi ci ha fatto toccare con mano la necessità di un reset democratico del mondo in cui viviamo.
Noi oggi difendiamo con forza e convinzione una moneta europea che è il massimo simbolo di forza del nostro continente, la sua suprema espressione politica, e tuttavia è nello stesso tempo la prova della sua debolezza, un "caffè freddo", come dicevano i tedeschi nel 2001. La moneta è nuda ed esposta al vento della crisi anche perché non ha uno Stato che possa batterla, un esercito che sappia difenderla, un governo che riesca a guidarla, una politica estera che possa rappresentarla e soprattutto non ha un sovrano che sia capace di "spenderla" politicamente nel mondo.
Il vero deficit dell'Europa è dunque politico. Manca una politica capace di fissare un obiettivo oltre i sacrifici e il rigore, rendendoli accettabili nella coscienza dei cittadini e non imposti dai governi. È il momento - drammatico, ma ricco di opportunità - dei costruttori d'Europa. Tocca alla classe dirigente europea riprendere la visione dell'euro e portarla a compimento, usando finalmente la moneta e il suo mercato non come strumenti neutri ma come opportunità politiche, suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche. Certo, direbbe il cancelliere Merkel, tutto questo può avvenire solo coi conti in ordine e con le regole europee rispettate e non più disattese. E non c'è dubbio che sia così. Ma bisogna indicare un punto d'arrivo, una posta in gioco per l'austerity, un traguardo che vada oltre la sopravvivenza e ridìa un ruolo politico e ambizioso anche ai sacrifici che i cittadini europei stanno facendo. La politica è proprio questo, la capacità di dare un significato più generale alle azioni che si compiono, di trasformare le difficoltà in opportunità.
Anche perché la crisi, intanto, non è un passaggio neutrale. Agisce, e modifica strutture, comunità, istituzioni, persino diritti. Come risponderemo, ad esempio, alle spinte nazional-sociali che emergono a destra e a sinistra nel fondo delle nostre società? Come argineremo il nuovo populismo, che propone ricette primitive, ritorni all'indietro, semplificazioni elementari davanti alla complessità disarmante dei problemi? Come difenderemo l'idea di Europa davanti ai cittadini se la lasciamo assomigliare sempre più ad una grande banca, un'istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz'anima? Come armonizzeremo la leadership di fatto dei Paesi più forti economicamente con la leadership di diritto delle istituzioni comunitarie?
L'eccezionalità della crisi finanziaria sembra aver messo tra parentesi il diritto. E qui arriviamo al nodo della democrazia, perché la crisi erode addirittura il lavoro, cioè la base della convivenza sociale e delle obbligazioni volontarie dell'individuo davanti a se stesso, alla propria famiglia, alla propria dignità. Il pericolo è dunque che i cittadini (soprattutto i più deboli, e soprattutto davanti ad uno smantellamento dei sistemi di welfare) si domandino se la democrazia è ancora il sistema più efficiente, se lavora anche per loro oppure solo per i garantiti, se alla resa dei conti non è semplicemente la misura della disuguaglianza: la parola che rischia di diventare la cifra della nostra epoca.
Ecco perché c'è bisogno di leadership, di visione, d'ambizione e di politica. Pensare in grande. Indicare traguardi simbolici per cui vale la pena di attraversare il deserto della crisi. Varare misure concrete per ripensare il rapporto tra le istituzioni e gli Stati sovrani, per dare alla Bce - che intanto da strumento è già diventata un soggetto attivo e autonomo della democrazia europea - un ruolo simile alla Fed. Reimpiantare la sovranità nei cittadini, perché non possiamo continuare a prendere decisioni cruciali per l'Europa prescindendo dal consenso, dalla fiducia e dall'opinione degli europei.
Il problema è che c'è bisogno della Germania per tutto questo, come Berlino ha bisogno dell'Europa. Ma la Germania ha quest'ambizione? Si accontenterà di esercitare un ruolo di potenza con una supremazia economica (come se la riunificazione avesse esaurito ogni bisogno di cambiamento, sospetta Ulrich Beck) o è pronta ad accettare la sfida di una leadership culturale e politica? Questo è il punto. Dobbiamo ripensare l'Europa per governare la crisi e non uscirne dominati e trasformati. Più Europa e più democrazia: non c'è altra strada.
(28 giugno 2012)
http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... -38108563/
IL COMMENTO
Cosa chiediamo alla Germania
di EZIO MAURO
VISTA dall'Italia, l'opinione pubblica tedesca sembra credere che la crisi economico-finanziaria stia attaccando gli Stati sovrani dell'area mediterranea, risparmiando il cuore virtuoso dell'Europa più forte. Io credo invece che la prospettiva sia sbagliata e soprattutto che la verità sia più allarmante. L'attacco è all'Europa stessa attraverso la sua periferia più debole: è alla moneta come strumento e simbolo dell'unità del continente, e dunque è a tutto il processo politico, storico e culturale di costruzione europea che ha evitato conflitti per quasi settant'anni.
Vista dalla Germania, immagino che l'Italia sembri un problema troppo complicato per provare a risolverlo, e troppo serio per essere ignorato. Conviene dunque lasciare che gli italiani vengano a capo dei loro guai, fissando soltanto i binari su cui deve correre il Paese se vuole salvarsi, e la stazione d'arrivo. Nient'altro. Sorprendentemente, come sa il cancelliere Merkel, gli italiani ci stanno provando. Mario Monti ha recuperato credibilità e fiducia al Paese, lo ha schiodato dal livello del pregiudizio dov'era precipitato, non ha chiesto sconti e ha imposto misure molto dure. I cittadini si sono adeguati, accettando i parametri europei, e caricandosi i sacrifici conseguenti. Anche se i parametri sono in qualche misura ciechi, guardano al risultato di saldo e non al percorso in base al quale quel risultato si raggiunge, non conteggiano le ingiustizie, le iniquità di certe misure, il peso
che con la tassazione si scarica sui ceti più deboli, soprattutto in un Paese a forte evasione fiscale.
La Germania tempo fa aveva detto che l'Italia doveva fare i compiti a casa. Bene, li abbiamo fatti e li stiamo facendo. Come già aveva dimostrato al varo dell'euro, quando l'Europa chiama l'Italia risponde: in ritardo, con le sue contraddizioni, con i suoi elementi storici di debolezza (soprattutto il terzo debito pubblico del mondo) ma risponde, pronta a fare gli sforzi necessari per restare dentro quell'Unione Europea di cui è partner fondatore. Ma tagliare - e tassare - è più facile che crescere e sviluppare. Siamo arrivati al punto in cui la politica del rigore e dell'austerità va proseguita, ma da sola rischia di avvitarsi un una spirale di recessione, col pericolo di trasformare l'Europa nella palla al piede dell'economia mondiale, come dimostra l'allarme del presidente Obama.
La risposta a questi attacchi può venire soltanto dall'Europa, nessuno Stato nazionale può riuscire da solo a reggere un attacco alla moneta unica e alla costruzione Europea. La risposta è difensiva, naturalmente, introducendo un principio di salvaguardia centrale e solidale che oggi manca e che sostenga gli Stati e non soltanto le banche sotto attacco; ma è anche strategica, perché serve un piano di sviluppo e di crescita che può essere soltanto europeo, che assomigli al New Deal e che abbia l'ambizione di costruire le basi di una sicurezza economica del continente come condizione per la sua sicurezza politica, e dunque per una crescita del processo di unione.
C'è dunque bisogno di politica, di ambizione e di visione. Non di sconti ai Paesi più deboli e più direttamente nei guai. C'è bisogno che l'Europa prenda coscienza di sé, o che qualcuno le dia questa coscienza. Il limite dell'attuale classe dirigente europea - tutta - rischia di essere proprio la mancanza di visione e d'ambizione, dunque di politica. Come se fosse difficile vedere che si esce dalla crisi solo con più coraggio, con la consapevolezza di dover ripensare alla governance complessiva dell'Europa, perché la crisi ci ha fatto toccare con mano la necessità di un reset democratico del mondo in cui viviamo.
Noi oggi difendiamo con forza e convinzione una moneta europea che è il massimo simbolo di forza del nostro continente, la sua suprema espressione politica, e tuttavia è nello stesso tempo la prova della sua debolezza, un "caffè freddo", come dicevano i tedeschi nel 2001. La moneta è nuda ed esposta al vento della crisi anche perché non ha uno Stato che possa batterla, un esercito che sappia difenderla, un governo che riesca a guidarla, una politica estera che possa rappresentarla e soprattutto non ha un sovrano che sia capace di "spenderla" politicamente nel mondo.
Il vero deficit dell'Europa è dunque politico. Manca una politica capace di fissare un obiettivo oltre i sacrifici e il rigore, rendendoli accettabili nella coscienza dei cittadini e non imposti dai governi. È il momento - drammatico, ma ricco di opportunità - dei costruttori d'Europa. Tocca alla classe dirigente europea riprendere la visione dell'euro e portarla a compimento, usando finalmente la moneta e il suo mercato non come strumenti neutri ma come opportunità politiche, suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche. Certo, direbbe il cancelliere Merkel, tutto questo può avvenire solo coi conti in ordine e con le regole europee rispettate e non più disattese. E non c'è dubbio che sia così. Ma bisogna indicare un punto d'arrivo, una posta in gioco per l'austerity, un traguardo che vada oltre la sopravvivenza e ridìa un ruolo politico e ambizioso anche ai sacrifici che i cittadini europei stanno facendo. La politica è proprio questo, la capacità di dare un significato più generale alle azioni che si compiono, di trasformare le difficoltà in opportunità.
Anche perché la crisi, intanto, non è un passaggio neutrale. Agisce, e modifica strutture, comunità, istituzioni, persino diritti. Come risponderemo, ad esempio, alle spinte nazional-sociali che emergono a destra e a sinistra nel fondo delle nostre società? Come argineremo il nuovo populismo, che propone ricette primitive, ritorni all'indietro, semplificazioni elementari davanti alla complessità disarmante dei problemi? Come difenderemo l'idea di Europa davanti ai cittadini se la lasciamo assomigliare sempre più ad una grande banca, un'istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz'anima? Come armonizzeremo la leadership di fatto dei Paesi più forti economicamente con la leadership di diritto delle istituzioni comunitarie?
L'eccezionalità della crisi finanziaria sembra aver messo tra parentesi il diritto. E qui arriviamo al nodo della democrazia, perché la crisi erode addirittura il lavoro, cioè la base della convivenza sociale e delle obbligazioni volontarie dell'individuo davanti a se stesso, alla propria famiglia, alla propria dignità. Il pericolo è dunque che i cittadini (soprattutto i più deboli, e soprattutto davanti ad uno smantellamento dei sistemi di welfare) si domandino se la democrazia è ancora il sistema più efficiente, se lavora anche per loro oppure solo per i garantiti, se alla resa dei conti non è semplicemente la misura della disuguaglianza: la parola che rischia di diventare la cifra della nostra epoca.
Ecco perché c'è bisogno di leadership, di visione, d'ambizione e di politica. Pensare in grande. Indicare traguardi simbolici per cui vale la pena di attraversare il deserto della crisi. Varare misure concrete per ripensare il rapporto tra le istituzioni e gli Stati sovrani, per dare alla Bce - che intanto da strumento è già diventata un soggetto attivo e autonomo della democrazia europea - un ruolo simile alla Fed. Reimpiantare la sovranità nei cittadini, perché non possiamo continuare a prendere decisioni cruciali per l'Europa prescindendo dal consenso, dalla fiducia e dall'opinione degli europei.
Il problema è che c'è bisogno della Germania per tutto questo, come Berlino ha bisogno dell'Europa. Ma la Germania ha quest'ambizione? Si accontenterà di esercitare un ruolo di potenza con una supremazia economica (come se la riunificazione avesse esaurito ogni bisogno di cambiamento, sospetta Ulrich Beck) o è pronta ad accettare la sfida di una leadership culturale e politica? Questo è il punto. Dobbiamo ripensare l'Europa per governare la crisi e non uscirne dominati e trasformati. Più Europa e più democrazia: non c'è altra strada.
(28 giugno 2012)