Lunghetto e pesante ma decisamente interessante e da approfondire.
Il fenomeno dell’antipolitica attira crescente attenzione e non per un abbaglio collettivo. Esso infatti ha dimensioni ben superiori a quelle registrate dai risultati delle recenti amministrative o dagli stessi sondaggi degli ultimi giorni; rende costantemente inadeguate le reazioni di sdegno «morale» delle quali è oggetto; non è concentrato nel «grillismo» et similia, esso dilaga non solo in periferia, ma anche nel cuore del sistema, come dimostrano alcune signorili insofferenze per la politica da parte dell’attuale governo tecnico. Per tutte queste ragioni l’antipolitica va capita nel suo insieme. Può anche essere contrastata, ma può esserlo solo dopo averne comprese le ragioni. Non è, come qualcuno pensa, un fenomeno irrazionale; irrazionale è pensare che lo sia e comportarsi come se lo fosse.
Una analisi fredda e non moralistica ci dice che l’antipolitica è figlia della crisi che ha corroso le forme vigenti della mediazione politica. Le istituzioni e le organizzazioni che dovrebbero collegare la verticalità della decisione politica con l’orizzontalità del consenso politico non sono più in grado di assicurare tale collegamento e finiscono per costituirsi in «caste», quando la sopravvivenza materiale resta l’unica preoccupazione.
È in queste condizioni che l’antipolitica si manifesta: con l’illusione di fare a meno della politica; di evitare la raccolta di consenso specificamente politico; di legittimare la decisione propriamente politica con la competenza scientifica o con l’indignazione; o magari con un misuso di «valori non negoziabili». Ma senza politica non c’è una società davvero civile: non perché la politica sia tutto, ma perché di una società civile e della sua evoluzione essa è una struttura necessaria.
Sta nell’attenta considerazione di questo dato strutturale la moralità del discorso sulla politica. Quel che caratterizza l’attuale momento storico è certo l’imporsi della globalizzazione e di sempre più elevati livelli di policentrismo e differenziazione del potere. Questi due fenomeni non hanno messo in discussione il valore e la funzione della politica, ma solo la propensione, tipica della modernità europeo continentale, di collegare decisione politica e consenso politico attraverso una rigida superiorità delle istituzioni politiche (in particolare dello Stato) sulla complessa realtà delle istituzioni sociali. Una superiorità cui ci siamo nel tempo abituati e sulle cui fortune molto ceto politico nostrano aveva costruito i propri interessi; ma la sua crisi è ormai evidente, quasi un processo senza argini.
La centralità dello Stato implicava infatti la sicurezza che esso fosse «scatola del sociale». Oggi il sociale globalizzato e policentrico è troppo complesso per tollerare scatole. La politica non può più essere «il signore dell’ambiente», ma può ancora essere un particolare sistema che garantisce una funzione dentro un ambiente fatto di tanti altri sistemi. La adeguatezza della politica non dipende più da quanto è grande e grossa (in quanto gestione del contenitore Stato), ma da quanto sa essere intelligentemente semplice, selettiva, «agonistica» avrebbe detto Sturzo, capace di risolvere in modo nuovo il problema della connessione tra decisione politica e consenso politico, tra verticalità ed orizzontalità della politica.
La questione non è solo italiana: la Ue stessa, nata con la vocazione di andare oltre lo Stato (si pensi alla Ceca o alla Ced), è oggi costretta a cercare una via di uscita dalla morsa fra fallimento da un lato e rigore tedesco dall’altro; e non serve in proposito rilanciare sempre una centralità della cultura statuale, magari sempre più grande; serve, in Italia come in Europa, una nuova cultura politica: con nuove organizzazioni che accettino la sfida di un policentrismo complesso, senza indulgere in tentativi di rilanci istituzionali destinati a una generosa inadeguatezza.
Più politica nuova e meno statualità, questa la strada. E si vedrebbe subito che i limiti radicali di ogni risposta meramente antipolitica stanno nel fatto che una società sufficientemente sviluppata non sopravvive sotto la cappa della politica, ma non sopravvive neppure senza politica. La negazione della politica è una ingenuità sociale. Evitare la fatica della raccolta di un consenso politico non rende più forti, ma più deboli, restare sulla mera indignazione non rende più forti, ma più deboli.
Che fare? Per quanto assennata, un’analisi non è mai la soluzione di un problema pratico (ad es. politico). I problemi politici accettano solo soluzioni politiche.
Nell’era dello Stato la verticalità politica e l’orizzontalità politica, la decisione e il consenso, erano tenuti insieme dai conflitti ideologici o dallo smisurato ricorso alla spesa pubblica (e all’inflazione). Tutto ciò non è più possibile e non funzionerebbe più. Dire che non abbiamo ancora elaborato una nuova cultura politica significa dire che di quei due superati meccanismi non abbiamo ancora trovato un adeguato equivalente funzionale. E va detto che in proposito il mantra del richiamo alla coesione sociale (il cui eccesso non è da temere meno del difetto) non è l’indicazione di un equivalente funzionale alla politica, ma la denuncia inconsapevole della sua mancanza.
Se questo è il problema, l’unica risposta che può funzionare è una risposta politica. Né professori né indignati. Non ogni risposta politica, ma una risposta politica: comunque maledettamente pratica. Se la natura non fa salti, l’evoluzione di una società ne fa ancor meno. Se una risposta politica adeguata si formerà, essa non potrà nascere che dal ristabilirsi, magari fortuito, di una relazione tra dei politici che abbiano il coraggio di «tradire» le loro cerchie, e dei cittadini che, pur avendone motivi, resistano alla tentazione scettica di essere semplicemente indignati.
Ce ne sono le condizioni? Difficile dirlo. Tuttavia per cominciare il percorso c’è da fare un primo passo, superare cioè la cultura (vincente per la maggior parte del Novecento) del fondamentalismo istituzionale, e far progredire una diversa cultura, quella della mediazione politica come solo una delle forme di mediazione sociale.Cultura dell’interesse generale la prima, cultura del bene comune la seconda. Per la prima la società è una massa ancora informe di interessi da ordinare in una «polis», per la seconda gli interessi sono sempre inter-essi (rete e rete di reti) in una logica di inclusiva «civitas». Per la prima la politica è sintesi, per la seconda è scelta tra scelte. La prima ha dato il meglio di sé nell’era del primato dello Stato grande contenitore, ormai però infinitamente complicato e costoso, a responsabilità confuse e non più imputabili. Mentre la seconda, con la sua implicita carica di poliarchia, potrebbe risultare più coerente con i processi di globalizzazione e con la regolazione dei crescenti conflitti sociali e antagonismi di potere. Essa non sta sopra, ma dentro la società. Con questa non si confonde, ma accetta influenze e sa di poter rispondere a queste con un certo grado di parzialità, nella ricerca del faticoso collegamento tra la decisione e consenso, tra orizzontalità e verticalità.
Sarà permesso di segnalare, in un periodo in cui si indulge a evidenziare l’irrilevanza politica dei cattolici, come a questa cultura abbia dato negli anni un contributo importante il cattolicesimo politico che, ben lungi dall’appiattirsi su certi schematismi o arcaismi della vecchia dottrina sociale della Chiesa, ha invece largamente contribuito a rinnovarla (si pensi a temi come libertà religiosa, democrazia o mercato). Ed è su quella strada, di maturazione di una cultura politica che stia dentro e non sopra la società e la sua evoluzione, che il mondo cattolico deve proseguire. Una strada lunga, ma irrinunciabile per dare senso alla sua presenza di lungo periodo e strutturale, al di là delle tante parole che circolano nel «partito cattolico».
“Come sconfiggere l’antipolitica Una sola soluzione: il bene comune” di GIUSEPPE DE RITA e LUCA DIOTALLEVI dal Corriere della Sera del 28 giugno 2012