Per tornare a crescere, rivoltare lo stato come un calzino

di Michele Boldrin , pubblicato il 17 aprile 2012 su Italiafutura http://www.italiafutura.it/dettaglio/11 ... talia-2013
Sì, l’Italia ha un enorme bisogno di crescita economica e non si sta facendo nulla, da tre decenni almeno, per favorirla. Anzi, governo dopo governo, si adottano provvedimenti sempre più nocivi alla crescita mentre il tessuto socio-economico del paese degrada, rendendo l’Italia un paese non attraente per gli investitori, siano essi nazionali o internazionali.
Senza investimenti produttivi non c’è crescita economica, c’è solo il declino. Questo è il caposaldo da cui qualsiasi riflessione o iniziativa politica sensata deve partire; vaghe prolusioni su nuovi modelli di crescita, politiche industriali, campioni nazionali e quant’altro lasciano al meglio il tempo che trovano (in genere uno alquanto peggiore) se non dicono come rendere l’Italia un magnete per gli investimenti produttivi.
La questione strettamente economica di perché il reddito degli italiani non cresca più da almeno un decennio ed il paese abbia, se ben si guarda, smesso d’innovare e guadagnare in produttività da circa un altro, è in realtà abbastanza banale. Quello che non è per nulla ovvio è come si esca da questa condizione di declino: che persone, quali gruppi sociali e quali aggregazioni politiche vogliano e siano in grado di compiere questa svolta, di disegnarla prima e di guidarla, facendola capire all’elletorato, poi.
A questa cruciale domanda il “Cantiere” ( http://www.italiafutura.it/dettaglio/11 ... talia_2013 )che Italia Futura propone dovrebbe cercare di dar risposta: esistono oggi, in Italia, delle forze sociali che ancora cerchino la crescita economica e siano disposte ad agire politicamente per renderla possibile? In quali maniera sono aggregabili tali gruppi ed esiste la possibilità che essi risultino maggioritari sul piano elettorale? Attraverso quali canali politici si possono essi esprimere?
La risposta ad ognuna di queste domande non è né banale né scontata. Tutto il contrario: sono domande complicate, dalle risposte per niente ovvie e che richiedono una vera riflessione condotta senza preclusioni ideologiche di sorta. In una breve lettera ( http://noisefromamerika.org/articolo/no ... 9-febbraio ), scritta in Febbraio assieme a Sandro Brusco, Sandro Trento ed Irene Tinagli per convocare un piccolo convegno di studio sulle politiche della crescita, appunto, ed al quale avevamo dato il titolo scherzoso ma non troppo “Non importa il colore del gatto, basta che mangi il topo”, avevamo scritto:
È […] urgente rilanciare la discussione sugli obiettivi di più lungo periodo e segnatamente su cosa fare per assicurarsi che il paese ritorni su un sentiero di crescita senza il quale i drammi del 2011 diventeranno sia permanenti che più gravi. Tale dibattito manca o viene condotto in modo distorto: da almeno vent’anni a questa parte, forse di più, le maggiori forze politiche continuano a dimostrare un deficit di capacità propositiva che non fa ben sperare.
D'altro canto, praticamente in ogni partito e nelle parti sociali esistono persone, parlamentari o militanti, che hanno un atteggiamento che vogliamo chiamare "einaudiano", ossia conscio della drammaticità dei problemi e orientato a trovare maniere realistiche ed effettive per affrontarli. È urgente che queste persone, separate da barriere ideologiche, organizzative e financo simboliche, si parlino per convergere sul da farsi.
L'idea è di ripartire da un'analisi delle radici della crisi italiana, accantonando la pessima retorica degli ultimi anni, per individuare i provvedimenti che vanno presi per rispristinare gli incentivi alla produzione di ricchezza. L'orizzonte temporale dovrebbe essere quello del post-emergenza, ossia la prossima legislatura e quella seguente. […]
L’obiettivo dev’essere quello di formulare proposte che vadano oltre la logica dell’emergenza e che, soprattutto, possano essere riconosciute come proprie da quell’insieme di forze sociali che, con termine forse un po’ vecchiotto ma ancora esplicito, vorremmo chiamare i “produttori”. Oggi più che mai sta ancora nei produttori la speranza del paese: il problema politico, che ci poniamo, è come far sì che diventino maggioranza politica e lo governino loro, il paese.
Partire dai produttori e dalla necessità di riunificarli, al di là di antiche ed artificiali divisioni ideologiche, vuol dire partire da ciò che, se non li unisce, almeno li accomuna: le ragioni strettamente economiche della decrescita italiana. Le quali sono, da un certo punto di vista, piuttosto banali. Nella misura in cui, oramai da molto tempo, la crescita economica non è il frutto di vantaggi comparati naturali o storici – penso all’eterno mito italiano sul Bel Paese che potrebbe diventare ricco se sfruttasse adeguatamente i propri litorali e monti, le proprie città antiche ed il patrimonio storico che contengono, e così via favoleggiando – ma il prodotto invece di capacità acquisite, lo Stato, nelle sue mille articolazioni, è diventato la porta obbligata attraverso cui la crescita economica può passare o, altrimenti, essere respinta.
Questo perché l’acquisizione di queste capacità, ossia la creazione endogena dei vantaggi comparati nazionali, è determinata dall’abilità di un paese d’attrarre e poi di ritenere i fattori produttivi che innovano e che, rendendo così maggiormente produttivi gli altri fattori con cui si combinano, generano la crescita economica. Perché, piaccia o non piaccia, da questo la crescita economica viene: dalla combinazione dei fattori produttivi poco o per niente mobili (la terra, il lavoro non altamente qualificato, lo stock di capitale immobiliare ed urbano, il risparmio tradizionale) con quelli molto mobili ed innovativi: il capitale tecnologicamente avanzato e le alte professionalità.
Questi ultimi, che siano prodotti in Italia o attratti da fuori, hanno oggi come loro terreno d’azione il mondo intero. In questo consiste, alla fine, il fenomeno che definisce i decenni che stiamo vivendo e che chiamiamo “globalizzazione”: i fattori produttivi che generano crescita sono oggi cittadini del mondo. E non smetteranno certo di esserlo solo perché questo fatto non è gradito all’incolto demagogo politico italiano di turno.
Il lavoro altamente qualificato ed il capitale tecnologico non sono solo capaci di grande mobilità mondiale: essi tendono anche ad autoriprodursi e questo vale, specialmente, per quanto riguarda la compenente “capitale umano”. Da un lato è abbastanza ovvio che risorse finanziarie e tecnologiche d’avanguardia siano necessarie per creare nuove risorse finanziarie e tecnologiche che siano capaci di essere all’avanguardia nel futuro. Un aspetto scarsamente considerato è che questo vale, a molta maggior ragione, per le risorse umane d’avanguardia: solo i talenti del presente sanno formare ed individuare i talenti del futuro. Ne segue logicamente, e l’esperienza pratica lo conferma, che il capitale umano e quello tecnologico tendono a dirigersi verso quei paesi che permettono loro di meglio realizzare il proprio potenziale economico e svilupparsi.
Di cosa hanno bisogno il capitale umano e tecnologico altamente qualificati? Hanno bisogno di regole del gioco chiare e trasparenti, di servizi (sia pubblici che privati) efficienti e convenienti nel rapporto qualità/prezzo, di un regime fiscale non rapace e non distorsivo, di norme scritte e non scritte dell’interagire sociale che premino la concorrenza, il merito, le capacità individuali e la creatività, di un’attività regolatoria che stimoli e protegga la concorrenza impedendo e penalizzando il monopolio e la rendita di posizione e così via. Hanno bisogno, in sostanza, di uno Stato che funzioni perché tutti i fattori appena elencati (e gli altri ovvi che ho omesso, come una giustizia semplice, trasparente e certa) sono, direttamente o indirettamente, il prodotto di politiche pubbliche.
Quando lo Stato non funziona propriamente queste condizioni di base, questi “vantaggi assoluti” come alcuni economisti giustamente li hanno battezzati, vengono a mancare e si trasformano nel proprio contrario: diventano svantaggi assoluti, pietre al piede che tirano verso il fondo.
Questo è quanto è venuto accadendo in Italia dalla fine degli anni ’70, forse da un pelino prima, ad oggi.
Lo stato italiano, nelle sue mille articolazioni, è diventato lo svantaggio assoluto del nostro paese, ne ha distrutto la ricchezza e consumato il frutti del lavoro; soprattutto ha impedito con le proprie politiche, i propri disservizi, le proprie ruberie, gabelle ed inefficienze, la creazione di nuova ricchezza. E lo ha fatto facendo fuggire, ad un ritmo sempre più accelerato ed oramai unico al mondo, il capitale tecnologico ed umano di origine italiana, senza saperne attrarre di nuovo dall’estero.
L’Italia esporta ingegneri elettronici e medici ed importa vu’ cumpra’ e camerieri: potrebbe forse essere altrimenti in un paese dove si tassano al ritmo del 70%, in cambio di servizi orrendi e finanziamenti ai partiti, i redditi delle imprese emerse? Il problema economico del declino italiano è, dunque e purtroppo, piuttosto semplice: si chiama apparato dello stato e sistema della politica. Lo stato italiano e l’attuale elite politico-burocratica italiana sono nemici (infatti, assieme alla criminalità organizzata, i peggiori nemici) della crescita economica italiana. Occorre rivoltare l’apparato dello stato italiano come un calzino e cambiare da cima a fondo le sue elites politico-burocratiche perché smettano di esserlo.
Qui viene il problema vero, che è tutto politico e per il quale non vedo soluzione facile nel breve periodo. Per ragioni storiche abbastanza complesse e che non è certo qui il caso di esaminare, i produttori italiani sono politicamente divisi lungo profonde crinali ideologiche che persino oggi, nel mezzo della peggior crisi del secondo dopoguerra, sembrano rimanere intatte e capaci d’impedire il necessario dialogo, come i recenti scontri sulla riforma del mercato del lavoro e le cosiddette “liberalizzazioni” hanno provato.
Alle antiche divisioni fra “guelfi” e “ghibellini” e fra “comunisti” e “fascisti” la storia dell’ultimo mezzo secolo ha aggiunto un nuovo crinale, quello “Nord-Sud”, che è diventato tutto ideologico perché le classi dirigenti nazionali sono risultate incapaci di vederne le profonde e reali radici socio-economiche. Il problema politico consiste quindi nel trovare la capacità di superare gli aspetti puramente ideologici di tali divisioni riuscendo, nel contempo, a dare una risposta pratica credibile ai loro fondamenti reali, ossia economici.
Fra di essi la “Questione Settentrionale” gioca un ruolo assolutamente centrale, specialmente alla luce del non impossibile e senz’altro auspicabile disfacimento della Lega Nord passata ad essere, in meno di vent’anni, da potenziale cura a temibile cancro del nostro sistema socio-politico.
La chiave di volta della politica italiana, alla fine, sta oggi nel riuscire a far saltare la tensione tutta ideologica che permea il dibattito sulle Questioni Meridionale e Settentrionale, rendendosi conto che esse hanno una comune matrice e causa: lo stato italiano ed il suo apparato politico-burocratico.
Detto altrimenti, con linguaggio sia inadeguato che d’altri tempi, il superamento della contraddizione Nord-Sud e delle divisioni ideologiche che indeboliscono politicamente l’Italia produttiva sta solo ed unicamente nella crescita economica.
Per ottenere questo, per generare crescita, occorre negare l’apparato dello stato italiano nella sua forma attuale: non riaggiustarlo, ma rifarlo. Mi piacerebbe che attorno a questo slogan – rivoltare lo stato come un calzino per ritornare a crescere – si riuscisse a ragionare nel Cantiere che proponete.
Sì, l’Italia ha un enorme bisogno di crescita economica e non si sta facendo nulla, da tre decenni almeno, per favorirla. Anzi, governo dopo governo, si adottano provvedimenti sempre più nocivi alla crescita mentre il tessuto socio-economico del paese degrada, rendendo l’Italia un paese non attraente per gli investitori, siano essi nazionali o internazionali.
Senza investimenti produttivi non c’è crescita economica, c’è solo il declino. Questo è il caposaldo da cui qualsiasi riflessione o iniziativa politica sensata deve partire; vaghe prolusioni su nuovi modelli di crescita, politiche industriali, campioni nazionali e quant’altro lasciano al meglio il tempo che trovano (in genere uno alquanto peggiore) se non dicono come rendere l’Italia un magnete per gli investimenti produttivi.
La questione strettamente economica di perché il reddito degli italiani non cresca più da almeno un decennio ed il paese abbia, se ben si guarda, smesso d’innovare e guadagnare in produttività da circa un altro, è in realtà abbastanza banale. Quello che non è per nulla ovvio è come si esca da questa condizione di declino: che persone, quali gruppi sociali e quali aggregazioni politiche vogliano e siano in grado di compiere questa svolta, di disegnarla prima e di guidarla, facendola capire all’elletorato, poi.
A questa cruciale domanda il “Cantiere” ( http://www.italiafutura.it/dettaglio/11 ... talia_2013 )che Italia Futura propone dovrebbe cercare di dar risposta: esistono oggi, in Italia, delle forze sociali che ancora cerchino la crescita economica e siano disposte ad agire politicamente per renderla possibile? In quali maniera sono aggregabili tali gruppi ed esiste la possibilità che essi risultino maggioritari sul piano elettorale? Attraverso quali canali politici si possono essi esprimere?
La risposta ad ognuna di queste domande non è né banale né scontata. Tutto il contrario: sono domande complicate, dalle risposte per niente ovvie e che richiedono una vera riflessione condotta senza preclusioni ideologiche di sorta. In una breve lettera ( http://noisefromamerika.org/articolo/no ... 9-febbraio ), scritta in Febbraio assieme a Sandro Brusco, Sandro Trento ed Irene Tinagli per convocare un piccolo convegno di studio sulle politiche della crescita, appunto, ed al quale avevamo dato il titolo scherzoso ma non troppo “Non importa il colore del gatto, basta che mangi il topo”, avevamo scritto:
È […] urgente rilanciare la discussione sugli obiettivi di più lungo periodo e segnatamente su cosa fare per assicurarsi che il paese ritorni su un sentiero di crescita senza il quale i drammi del 2011 diventeranno sia permanenti che più gravi. Tale dibattito manca o viene condotto in modo distorto: da almeno vent’anni a questa parte, forse di più, le maggiori forze politiche continuano a dimostrare un deficit di capacità propositiva che non fa ben sperare.
D'altro canto, praticamente in ogni partito e nelle parti sociali esistono persone, parlamentari o militanti, che hanno un atteggiamento che vogliamo chiamare "einaudiano", ossia conscio della drammaticità dei problemi e orientato a trovare maniere realistiche ed effettive per affrontarli. È urgente che queste persone, separate da barriere ideologiche, organizzative e financo simboliche, si parlino per convergere sul da farsi.
L'idea è di ripartire da un'analisi delle radici della crisi italiana, accantonando la pessima retorica degli ultimi anni, per individuare i provvedimenti che vanno presi per rispristinare gli incentivi alla produzione di ricchezza. L'orizzonte temporale dovrebbe essere quello del post-emergenza, ossia la prossima legislatura e quella seguente. […]
L’obiettivo dev’essere quello di formulare proposte che vadano oltre la logica dell’emergenza e che, soprattutto, possano essere riconosciute come proprie da quell’insieme di forze sociali che, con termine forse un po’ vecchiotto ma ancora esplicito, vorremmo chiamare i “produttori”. Oggi più che mai sta ancora nei produttori la speranza del paese: il problema politico, che ci poniamo, è come far sì che diventino maggioranza politica e lo governino loro, il paese.
Partire dai produttori e dalla necessità di riunificarli, al di là di antiche ed artificiali divisioni ideologiche, vuol dire partire da ciò che, se non li unisce, almeno li accomuna: le ragioni strettamente economiche della decrescita italiana. Le quali sono, da un certo punto di vista, piuttosto banali. Nella misura in cui, oramai da molto tempo, la crescita economica non è il frutto di vantaggi comparati naturali o storici – penso all’eterno mito italiano sul Bel Paese che potrebbe diventare ricco se sfruttasse adeguatamente i propri litorali e monti, le proprie città antiche ed il patrimonio storico che contengono, e così via favoleggiando – ma il prodotto invece di capacità acquisite, lo Stato, nelle sue mille articolazioni, è diventato la porta obbligata attraverso cui la crescita economica può passare o, altrimenti, essere respinta.
Questo perché l’acquisizione di queste capacità, ossia la creazione endogena dei vantaggi comparati nazionali, è determinata dall’abilità di un paese d’attrarre e poi di ritenere i fattori produttivi che innovano e che, rendendo così maggiormente produttivi gli altri fattori con cui si combinano, generano la crescita economica. Perché, piaccia o non piaccia, da questo la crescita economica viene: dalla combinazione dei fattori produttivi poco o per niente mobili (la terra, il lavoro non altamente qualificato, lo stock di capitale immobiliare ed urbano, il risparmio tradizionale) con quelli molto mobili ed innovativi: il capitale tecnologicamente avanzato e le alte professionalità.
Questi ultimi, che siano prodotti in Italia o attratti da fuori, hanno oggi come loro terreno d’azione il mondo intero. In questo consiste, alla fine, il fenomeno che definisce i decenni che stiamo vivendo e che chiamiamo “globalizzazione”: i fattori produttivi che generano crescita sono oggi cittadini del mondo. E non smetteranno certo di esserlo solo perché questo fatto non è gradito all’incolto demagogo politico italiano di turno.
Il lavoro altamente qualificato ed il capitale tecnologico non sono solo capaci di grande mobilità mondiale: essi tendono anche ad autoriprodursi e questo vale, specialmente, per quanto riguarda la compenente “capitale umano”. Da un lato è abbastanza ovvio che risorse finanziarie e tecnologiche d’avanguardia siano necessarie per creare nuove risorse finanziarie e tecnologiche che siano capaci di essere all’avanguardia nel futuro. Un aspetto scarsamente considerato è che questo vale, a molta maggior ragione, per le risorse umane d’avanguardia: solo i talenti del presente sanno formare ed individuare i talenti del futuro. Ne segue logicamente, e l’esperienza pratica lo conferma, che il capitale umano e quello tecnologico tendono a dirigersi verso quei paesi che permettono loro di meglio realizzare il proprio potenziale economico e svilupparsi.
Di cosa hanno bisogno il capitale umano e tecnologico altamente qualificati? Hanno bisogno di regole del gioco chiare e trasparenti, di servizi (sia pubblici che privati) efficienti e convenienti nel rapporto qualità/prezzo, di un regime fiscale non rapace e non distorsivo, di norme scritte e non scritte dell’interagire sociale che premino la concorrenza, il merito, le capacità individuali e la creatività, di un’attività regolatoria che stimoli e protegga la concorrenza impedendo e penalizzando il monopolio e la rendita di posizione e così via. Hanno bisogno, in sostanza, di uno Stato che funzioni perché tutti i fattori appena elencati (e gli altri ovvi che ho omesso, come una giustizia semplice, trasparente e certa) sono, direttamente o indirettamente, il prodotto di politiche pubbliche.
Quando lo Stato non funziona propriamente queste condizioni di base, questi “vantaggi assoluti” come alcuni economisti giustamente li hanno battezzati, vengono a mancare e si trasformano nel proprio contrario: diventano svantaggi assoluti, pietre al piede che tirano verso il fondo.
Questo è quanto è venuto accadendo in Italia dalla fine degli anni ’70, forse da un pelino prima, ad oggi.
Lo stato italiano, nelle sue mille articolazioni, è diventato lo svantaggio assoluto del nostro paese, ne ha distrutto la ricchezza e consumato il frutti del lavoro; soprattutto ha impedito con le proprie politiche, i propri disservizi, le proprie ruberie, gabelle ed inefficienze, la creazione di nuova ricchezza. E lo ha fatto facendo fuggire, ad un ritmo sempre più accelerato ed oramai unico al mondo, il capitale tecnologico ed umano di origine italiana, senza saperne attrarre di nuovo dall’estero.
L’Italia esporta ingegneri elettronici e medici ed importa vu’ cumpra’ e camerieri: potrebbe forse essere altrimenti in un paese dove si tassano al ritmo del 70%, in cambio di servizi orrendi e finanziamenti ai partiti, i redditi delle imprese emerse? Il problema economico del declino italiano è, dunque e purtroppo, piuttosto semplice: si chiama apparato dello stato e sistema della politica. Lo stato italiano e l’attuale elite politico-burocratica italiana sono nemici (infatti, assieme alla criminalità organizzata, i peggiori nemici) della crescita economica italiana. Occorre rivoltare l’apparato dello stato italiano come un calzino e cambiare da cima a fondo le sue elites politico-burocratiche perché smettano di esserlo.
Qui viene il problema vero, che è tutto politico e per il quale non vedo soluzione facile nel breve periodo. Per ragioni storiche abbastanza complesse e che non è certo qui il caso di esaminare, i produttori italiani sono politicamente divisi lungo profonde crinali ideologiche che persino oggi, nel mezzo della peggior crisi del secondo dopoguerra, sembrano rimanere intatte e capaci d’impedire il necessario dialogo, come i recenti scontri sulla riforma del mercato del lavoro e le cosiddette “liberalizzazioni” hanno provato.
Alle antiche divisioni fra “guelfi” e “ghibellini” e fra “comunisti” e “fascisti” la storia dell’ultimo mezzo secolo ha aggiunto un nuovo crinale, quello “Nord-Sud”, che è diventato tutto ideologico perché le classi dirigenti nazionali sono risultate incapaci di vederne le profonde e reali radici socio-economiche. Il problema politico consiste quindi nel trovare la capacità di superare gli aspetti puramente ideologici di tali divisioni riuscendo, nel contempo, a dare una risposta pratica credibile ai loro fondamenti reali, ossia economici.
Fra di essi la “Questione Settentrionale” gioca un ruolo assolutamente centrale, specialmente alla luce del non impossibile e senz’altro auspicabile disfacimento della Lega Nord passata ad essere, in meno di vent’anni, da potenziale cura a temibile cancro del nostro sistema socio-politico.
La chiave di volta della politica italiana, alla fine, sta oggi nel riuscire a far saltare la tensione tutta ideologica che permea il dibattito sulle Questioni Meridionale e Settentrionale, rendendosi conto che esse hanno una comune matrice e causa: lo stato italiano ed il suo apparato politico-burocratico.
Detto altrimenti, con linguaggio sia inadeguato che d’altri tempi, il superamento della contraddizione Nord-Sud e delle divisioni ideologiche che indeboliscono politicamente l’Italia produttiva sta solo ed unicamente nella crescita economica.
Per ottenere questo, per generare crescita, occorre negare l’apparato dello stato italiano nella sua forma attuale: non riaggiustarlo, ma rifarlo. Mi piacerebbe che attorno a questo slogan – rivoltare lo stato come un calzino per ritornare a crescere – si riuscisse a ragionare nel Cantiere che proponete.