L'agonia del governo Berlusconi ha un nuovo capitolo: la bocciatura alla Camera, per un voto, assenti il ministro dell'Economia e altri parlamentari, del rendiconto dello Stato. Ora, più che riformulare o meno la legge e ripresentarla, il centrodestra dovrà chiedersi se e come potrà arrivare al voto del 2013 con una maggioranza risicata e ballerina. È soprattutto di questo aspetto che si discute in Italia. Così, nessuno parla del capitombolo dal quale è difficile che il Paese si risollevi. Il bilancio dello Stato registra - al netto degli interessi del debito - un saldo attivo. Le entrate superano le uscite. Sarebbe una buona notizia, se fosse accompagnata da quella che l'economia cresce. Invece, la crescita è di poco superiore allo zero. La buona notizia diventa, allora, una cattiva notizia perché rivela che gli italiani lavorano più per lo Stato - sei mesi l'anno per pagare le tasse - che per se stessi.
Ci sarà qualche statalista che dirà che gli italiani, lavorando per lo Stato, lavorano per sé. Ma è falso. Quando i bolscevichi nazionalizzarono i mezzi di produzione, si illusero che avrebbero eliminato in tal modo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, cioè l'accumulazione capitalistica privata di ricchezza. Ma, poi, quando lanciarono l'industrializzazione del Paese, scoprirono che senza accumulazione di ricchezza non si va da nessuno parte.
Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo rispuntò ad opera dell'accumulazione da parte del capitalismo di Stato; la nomenklatura pubblica occupò ogni settore della società civile, i cittadini si impoverirono e il Paese crollò (nel 1991). Con le ovvie e dovute proporzioni, all'Italia sta accadendo la stessa cosa. A incidere sulla spesa pubblica, e a incentivare lo Stato a rincorrerla, aumentando le tasse, contribuisce una prima distorsione. Poiché il tentativo di industrializzare il Meridione con le acciaierie e altre industrie di Stato è fallito, ora, la politica supplisce al proprio fallimento assorbendo nell'impiego statale la disoccupazione che ne è derivata.
Dove basterebbero «n» impiegati ce ne so «n più m», a carico dalla fiscalità generale. Il Nord che produce, e paga le tasse, sopporta i costi dei fallimenti della politica al Sud. Poiché gli impiegati pubblici in soprannumero hanno spesso un doppio lavoro, sarebbe bastato impiegarli in lavori a domicilio per lavori limitati e specifici, pagarli meno, e lasciarli liberi di fare legalmente quello che già adesso fanno illegalmente - lavorare in nero nei ritagli di tempo - e non si spenderebbero tanti soldi improduttivi. Si dovrebbe anche far pagare a chi ne usufruisce il prezzo di costo dei beni e dei servizi che lo Stato produce e che fornisce ai cittadini a prezzi più bassi. È l'illusione di ogni politica «sociale». I cittadini pagano lo stesso il costo intero dei beni e dei servizi, che credono di ottenere dalla beneficenza pubblica. Li pagano con la fiscalità generale, con le tasse. Così, anche l'aspetto sociale va a farsi friggere: poiché le rette universitarie sono più basse dei costi di esercizio e la differenza fra le une e gli altri si scarica sulla fiscalità, i poveri finiscono col pagare, con le loro tasse, l'università ai figli dei ricchi.
Per far fronte alla spesa pubblica la politica deve aumentare le tasse e il Paese non cresce. Basterebbe far pagare la retta piena e dare borse di studio ai meno abbienti e meritevoli. Nel centrodestra, si tende a dare la colpa del cul di sacco in cui è finito il governo al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti; che ha certamente le proprie colpe, ma è lui stesso prigioniero di un pasticcio istituzionale. Nel ministero dell'Economia sono finiti quelli del Bilancio, delle Finanze e del Tesoro e al ministro di questo superministero - che ha accumulato, così, un potere politico-decisionale che annulla la capacità di direzione dello stesso capo del governo - è stato dato il compito di fare da cane da guardia del bilancio. Tremonti non poteva che affidarsi a una burocrazia vorace e autoreferenziale, che ha accumulato un enorme potere tecnico, e che giustifica la propria esistenza torchiando i cittadini di tasse e di misure liberticide. Se entro sessanta giorni non ti metti in ordine con l'ingiunzione di pagamento delle tasse ti bloccano il conto corrente e l'automobile, ti ipotecano l'appartamento. Non c'è un giudice terzo, fra il contribuente e l'amministrazione, che lo ha dichiarato moroso. Vale dunque il principio, illiberale, del solve et repete (pagare subito e far valere dopo le proprie ragioni); e anche una volta che si fosse appurato che il contribuente aveva ragione ci vorranno anni prima che gli restituiscano il maltolto.
Berlusconi, probabilmente, ce la farà a sopravvivere ancora per un po' acquistando qualche parlamentare disposto a trasferirsi dalla sua parte. Ma è dubbio che l'Italia ce la faccia a uscire rapidamente dal paradosso di un'azienda-Stato che finanziariamente sta benino e un sistema-Paese che sta maluccio.
Piero Ostellino sul Cdt del 13 ottobre 2011