Stato etico e stato laico

Stato etico e stato laico
a cura di Bruno Schettini, Professore Università di Psicologia SUN
Diverse concrete situazioni a livello nazionale, europeo ed internazionale, decisioni parlamentari, governative e referendarie, come anche della vita privata che assurgono a livello pubblico per le implicazioni etiche e politiche che le accompagnano, con tutta la loro carica di drammaticità umana, stanno riproponendo il problema della concezione dello stato e del ruolo che esso può svolgere nelle scelte valoriali collettive e individuali.
Vale la pena precisare che, in Italia, la Costituzione, nella Parte Prima, sancisce la laicità dello Stato e, quindi, il problema non si pone nei termini di scontro fra “stato laico” e “stato etico” o confessionale, ma sul ruolo che, nell’ambito delle prerogative costituzionali, svolgono segnatamente le Istituzioni di rappresentanza politica dei cittadini (il Parlamento con le due Camere) e di esecutività (il Governo); quest’ultima è espressione della prima nel senso che esprime i rapporti di forza all’interno della più generale rappresentatività del mandato popolare.
La questione dello schieramento fra chi sostiene uno stato etico e chi vi si oppone nel nome della laicità di esso è antica, tutt’ora irrisolta e probabilmente irrisolvibile.
Il punto di vista che guida le presenti riflessioni, posto che chi scrive è sostenitore di uno stato laico - non laicista – e che ogni stato etico è stato storicamente presagio di successive dittature più o meno durevoli e dichiarate, non è quello di esercitare un’azione di convincimento ai fini di un incitamento al posizionamento fra le schiere degli uni o degli altri, quanto di riflettere ad alta voce sulla pericolosità di uno scontro radicale che - in una situazione di crisi mondiale non solo finanziaria - può comportare la deriva dell’attenzione pubblica dalle correnti pratiche politiche - e ideologiche – che disattendono sempre di più l’interesse dell’intera collettività a tutto vantaggio di prevaricanti ed urticanti rigurgiti affaristici accompagnati trasversalmente e pretestuosamente da rigidi schieramenti dogmatici riproposti di continuo in modo logorroico mediante dispute sui massimi sistemi cosiddetti eticamente sensibili.
Tutto ciò sta comportando una sempre più estesa disaffezione verso lo spazio pubblico – cioè politico – da parte della gente comune che sempre di più tende a rifugiarsi nell’individualismo del personale o gruppale benessere o nell’incistamento in una cultura nazional-popolare di basso profilo infarcita di volgari opinioni prive di scienza, ma che assurgono a punti di vista “altolocati” per la loro continua riproposizione e sovraesposizione mediatica, e di sempre più prevalenti e prevaricatori sussulti emotivi provenienti dal basso ventre.
L’innalzamento dei toni e l’asprezza dello scontro hanno come esito una scarsa attenzione verso quelle cogenti problematiche della vita, urgenti e dirimenti, che esigono una risposta concreta da parte di coloro che dovrebbero pre-occuparsene attendendo all’esercizio politico del più generale bene comune a cui occorrerebbe offrire risposte comunque attuabili dai più, condividisibili quanto alle pratiche proposte ma non necessariamente quanto ai principi e sulle quali è doveroso decidere avendo da un lato l’argine della tollerabilità diffusa e dall’altro quello del controllo pubblico per un esercizio responsabile della libertà versus ogni preteso libertarismo che, com’è noto, è l’anticamera se non delle dittature certamente di regimi oscurantistici e a vario titolo preoccupanti per il futuro della democrazia e della libertà stessa.
Indubbiamente, il problema si pone a maggior ragione quando si ammette il principio che uno stato abbia fra i suoi fini la crescita della società e la sua manutenzione attraverso la garanzia della libertà di pensiero e di educazione ad un pensiero libero, del lavoro e dei servizi per tutti e non solo per una parte di essi, delle protezioni sociali idonee a garantire una base comune di qualità della vita, della solidarietà orizzontale e verticale nel nome di una condivisa cittadinanza che è implicazione di appartenenza e di costruzione di una comune storia di destino che esige, a questo punto, la responsabilità di un’eticità pubblica delle scelte e non di un’opzione per un’etica o morale o dottrina. Si sta parlando di un’eticità pubblica doverosamente aperta alla falsificazione delle scelte sul piano della concreta applicazione di esse non alla falsificazione dell’idea stessa di una possibilità della scelta preclusa a tutte le possibili concrete alternative sulle quali deve doverosamente ragionare il legislatore nella sua azione di direzionamento della società da lui governata.
Il passaggio stesso dalla mera possibilità dell’azione di scelta fra tutte le possibili scelte, alla scelta autenticamente e concretamente possibile – quì ed ora - non avviene sul piano valoriale, ma su quello storico, politico, sociale, pragmatico, sulla base cioè dell’evidenza delle necessità della gente su una scala di lunga anche se non immodificabile prospettiva. Scelta falsificabile nel tempo sulla base di nuove realtà, non certamente sulla base di un principio ontologico/naturalistico di ancoraggio ad un apriori esterno o immanente – comunque metafisico - alla vita dell’uomo in quanto individuo e in quanto società.
Da queste premesse, non si può non accogliere la tesi, di recente esposta dal Presidente della Camera dei Deputati, e che certamente non entusiasma chi scrive proprio per la provenienza della tesi, che “non c'è contraddizione tra il riconoscimento delle radici cristiane e la richiesta di istituzioni laiche, perché la laicità è innanzitutto separazione delle due sfere…” dal momento che, come ha sostenuto di recente Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento Europeo, il dare a Cesare e il dare a Dio, significa porre le fondamenta dell'esercizio della libertà, quindi di un habeas corpus, di ciò che della persona resta impenetrabile al potere e, nello stesso tempo, sacrificare questo sull’altare del politically correct significa far risultare politicamente corretta l’esperienza della libertà e nello stesso tempo vuol dire che le istituzioni non possono che essere il frutto di una separazione convinta, completa e articolata che non è mai ostracismo ideologico fra religione e politica.
Posto il discorso in questi termini, è fuori luogo che occorra chiedersi quale sia il ruolo e la funzione della scuola e delle istituzioni pubbliche deputate alla formazione. Quì non resta che un riferimento chiave a Gramsci e alla sua idea di formazione che, attraverso l’istruzione e la formazione lungo tutto il corso della vita, fondi un’etica condivisa che non cada nella trappola di un machiavellismo deteriore, di una politica che si presenti come un mezzo senza scopo o come un mezzo che fa di se stesso uno scopo.
Non sarà certamente l’introduzione nella vita della scuola dello studio degli articoli della Carta costituzionale il fondamento di uno stato laico, ma certamente toccherà ai docenti – almeno a quelli più avvertiti e politicamente sensibili – recuperare il senso di una Carta fondata su un’etica condivisa da quanti, pur avendo lottato per liberare l’Italia dal fascismo partendo da idee politiche diverse, sono stati in grado di cogliere nell’istanza di rifondazione di un popolo da “volgo disperso che nome non ha” - di manzoniana memoria - a nazione e popolo in grado di rifondare la propria vita in quella libertà di coscienza che è l’esatto contrario della coercizione della libera scelta e, dunque, della chiamata nella corresponsabilità di ciascun cittadino a costruire solidamente e solidarmente l’unità di una nazione nell’unità del genere umano.
Questo è l’esatto contrario del calpestare ogni libertà di coscienza e del costruire una nazione che non sia luogo di intervento regolatore sulla sregolata anarchia del mercato e di quanti ad esso fanno appello per una libertà che non abbia alcun imperativo kantiano.
In questo senso la scuola non può proporsi come indifferente ai valori, né sensibile al relativismo, ma deve giocare il suo ruolo per una “guerra di posizione” orientata da e a quei valori che sono stati incardinati e posti a fondamento della stessa Costituzione repubblicana del 1948 nata sulle macerie di ideologie totalitarie e nel clima stesso della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite anch’essa del 1948.
Tratto da “Scuola@Europa 2009”
a cura di Bruno Schettini, Professore Università di Psicologia SUN
Diverse concrete situazioni a livello nazionale, europeo ed internazionale, decisioni parlamentari, governative e referendarie, come anche della vita privata che assurgono a livello pubblico per le implicazioni etiche e politiche che le accompagnano, con tutta la loro carica di drammaticità umana, stanno riproponendo il problema della concezione dello stato e del ruolo che esso può svolgere nelle scelte valoriali collettive e individuali.
Vale la pena precisare che, in Italia, la Costituzione, nella Parte Prima, sancisce la laicità dello Stato e, quindi, il problema non si pone nei termini di scontro fra “stato laico” e “stato etico” o confessionale, ma sul ruolo che, nell’ambito delle prerogative costituzionali, svolgono segnatamente le Istituzioni di rappresentanza politica dei cittadini (il Parlamento con le due Camere) e di esecutività (il Governo); quest’ultima è espressione della prima nel senso che esprime i rapporti di forza all’interno della più generale rappresentatività del mandato popolare.
La questione dello schieramento fra chi sostiene uno stato etico e chi vi si oppone nel nome della laicità di esso è antica, tutt’ora irrisolta e probabilmente irrisolvibile.
Il punto di vista che guida le presenti riflessioni, posto che chi scrive è sostenitore di uno stato laico - non laicista – e che ogni stato etico è stato storicamente presagio di successive dittature più o meno durevoli e dichiarate, non è quello di esercitare un’azione di convincimento ai fini di un incitamento al posizionamento fra le schiere degli uni o degli altri, quanto di riflettere ad alta voce sulla pericolosità di uno scontro radicale che - in una situazione di crisi mondiale non solo finanziaria - può comportare la deriva dell’attenzione pubblica dalle correnti pratiche politiche - e ideologiche – che disattendono sempre di più l’interesse dell’intera collettività a tutto vantaggio di prevaricanti ed urticanti rigurgiti affaristici accompagnati trasversalmente e pretestuosamente da rigidi schieramenti dogmatici riproposti di continuo in modo logorroico mediante dispute sui massimi sistemi cosiddetti eticamente sensibili.
Tutto ciò sta comportando una sempre più estesa disaffezione verso lo spazio pubblico – cioè politico – da parte della gente comune che sempre di più tende a rifugiarsi nell’individualismo del personale o gruppale benessere o nell’incistamento in una cultura nazional-popolare di basso profilo infarcita di volgari opinioni prive di scienza, ma che assurgono a punti di vista “altolocati” per la loro continua riproposizione e sovraesposizione mediatica, e di sempre più prevalenti e prevaricatori sussulti emotivi provenienti dal basso ventre.
L’innalzamento dei toni e l’asprezza dello scontro hanno come esito una scarsa attenzione verso quelle cogenti problematiche della vita, urgenti e dirimenti, che esigono una risposta concreta da parte di coloro che dovrebbero pre-occuparsene attendendo all’esercizio politico del più generale bene comune a cui occorrerebbe offrire risposte comunque attuabili dai più, condividisibili quanto alle pratiche proposte ma non necessariamente quanto ai principi e sulle quali è doveroso decidere avendo da un lato l’argine della tollerabilità diffusa e dall’altro quello del controllo pubblico per un esercizio responsabile della libertà versus ogni preteso libertarismo che, com’è noto, è l’anticamera se non delle dittature certamente di regimi oscurantistici e a vario titolo preoccupanti per il futuro della democrazia e della libertà stessa.
Indubbiamente, il problema si pone a maggior ragione quando si ammette il principio che uno stato abbia fra i suoi fini la crescita della società e la sua manutenzione attraverso la garanzia della libertà di pensiero e di educazione ad un pensiero libero, del lavoro e dei servizi per tutti e non solo per una parte di essi, delle protezioni sociali idonee a garantire una base comune di qualità della vita, della solidarietà orizzontale e verticale nel nome di una condivisa cittadinanza che è implicazione di appartenenza e di costruzione di una comune storia di destino che esige, a questo punto, la responsabilità di un’eticità pubblica delle scelte e non di un’opzione per un’etica o morale o dottrina. Si sta parlando di un’eticità pubblica doverosamente aperta alla falsificazione delle scelte sul piano della concreta applicazione di esse non alla falsificazione dell’idea stessa di una possibilità della scelta preclusa a tutte le possibili concrete alternative sulle quali deve doverosamente ragionare il legislatore nella sua azione di direzionamento della società da lui governata.
Il passaggio stesso dalla mera possibilità dell’azione di scelta fra tutte le possibili scelte, alla scelta autenticamente e concretamente possibile – quì ed ora - non avviene sul piano valoriale, ma su quello storico, politico, sociale, pragmatico, sulla base cioè dell’evidenza delle necessità della gente su una scala di lunga anche se non immodificabile prospettiva. Scelta falsificabile nel tempo sulla base di nuove realtà, non certamente sulla base di un principio ontologico/naturalistico di ancoraggio ad un apriori esterno o immanente – comunque metafisico - alla vita dell’uomo in quanto individuo e in quanto società.
Da queste premesse, non si può non accogliere la tesi, di recente esposta dal Presidente della Camera dei Deputati, e che certamente non entusiasma chi scrive proprio per la provenienza della tesi, che “non c'è contraddizione tra il riconoscimento delle radici cristiane e la richiesta di istituzioni laiche, perché la laicità è innanzitutto separazione delle due sfere…” dal momento che, come ha sostenuto di recente Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento Europeo, il dare a Cesare e il dare a Dio, significa porre le fondamenta dell'esercizio della libertà, quindi di un habeas corpus, di ciò che della persona resta impenetrabile al potere e, nello stesso tempo, sacrificare questo sull’altare del politically correct significa far risultare politicamente corretta l’esperienza della libertà e nello stesso tempo vuol dire che le istituzioni non possono che essere il frutto di una separazione convinta, completa e articolata che non è mai ostracismo ideologico fra religione e politica.
Posto il discorso in questi termini, è fuori luogo che occorra chiedersi quale sia il ruolo e la funzione della scuola e delle istituzioni pubbliche deputate alla formazione. Quì non resta che un riferimento chiave a Gramsci e alla sua idea di formazione che, attraverso l’istruzione e la formazione lungo tutto il corso della vita, fondi un’etica condivisa che non cada nella trappola di un machiavellismo deteriore, di una politica che si presenti come un mezzo senza scopo o come un mezzo che fa di se stesso uno scopo.
Non sarà certamente l’introduzione nella vita della scuola dello studio degli articoli della Carta costituzionale il fondamento di uno stato laico, ma certamente toccherà ai docenti – almeno a quelli più avvertiti e politicamente sensibili – recuperare il senso di una Carta fondata su un’etica condivisa da quanti, pur avendo lottato per liberare l’Italia dal fascismo partendo da idee politiche diverse, sono stati in grado di cogliere nell’istanza di rifondazione di un popolo da “volgo disperso che nome non ha” - di manzoniana memoria - a nazione e popolo in grado di rifondare la propria vita in quella libertà di coscienza che è l’esatto contrario della coercizione della libera scelta e, dunque, della chiamata nella corresponsabilità di ciascun cittadino a costruire solidamente e solidarmente l’unità di una nazione nell’unità del genere umano.
Questo è l’esatto contrario del calpestare ogni libertà di coscienza e del costruire una nazione che non sia luogo di intervento regolatore sulla sregolata anarchia del mercato e di quanti ad esso fanno appello per una libertà che non abbia alcun imperativo kantiano.
In questo senso la scuola non può proporsi come indifferente ai valori, né sensibile al relativismo, ma deve giocare il suo ruolo per una “guerra di posizione” orientata da e a quei valori che sono stati incardinati e posti a fondamento della stessa Costituzione repubblicana del 1948 nata sulle macerie di ideologie totalitarie e nel clima stesso della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite anch’essa del 1948.
Tratto da “Scuola@Europa 2009”