Fino a non molti anni fa, avevo nel mio studio una scrivania di quelle vecchie, con il piano di pelle e con due colonne di grandi cassetti ai lati.
Uno di quei cassetti era destinato ad accogliere gli articoli o i saggi che mi arrivavano, e che cominciavano con la frase fatale: "all'alba del terzo millennio...". Non non mai continuato la lettura di quelle pagine.
Quel momento è passato, il terzo millennio ha preso il via e l'alba è stata superata. Probabilmente era meno eccitante cominciare un articolo con "alle otto meno un quarto del terzo millennio ...", e così finalmente ci siamo liberati.
Ma non poteva durare.
Evidentemente il minimalismo del pensiero, riscattato dalla grandiosità millenaristica, ha bisogno di alimentarsi di nuovi slogan: adesso va forte il "superamento del Novecento".
Uno pensa: il Novecento è finito, lo sappiamo tutti, e ciò sarebbe più che sufficiente. Tutti i secoli, dopo cent'anni, finiscono.
Dobbiamo bruciarne il cadavere? Farlo a pezzi, mangiarlo? Giurare di non averlo mai conosciuto?
Detto francamente, a me lo slogan suona lievemente iettatorio: noi qui, tutti, siamo per sei settimi, tre quarti o nove undicesimi assolutamente novecentschi, anzi semplicemente siamo il Novecento fatto persona. Siamo già superstiti, speriamo ancora per molto, ma insomma con la data di scadenza comunque scritta.
Tutto - ma proprio tutto - quello che ciascuno di noi può dire di male per polverizzare, annichilire e superare il Novecento è un trionfo del Novecento, ovvero la prova che il Novecento continua ad esistere e a pensare attraverso di noi.
Ma immaginiamo che la carismatica esortazione abbia effetto: sarebbe la prima volta nella storia che si verifica una simile rimozione del passato, così studiata e consapevole.
Una rimozione mastodontica, e non vale nemmeno la pena stare a specificare che si butterebbero via i progressi forse più grandi fatti dopo la scoperta del fuoco e l'invenzione della scrittura.
Quello che però fa venire qualche cattivo pensiero è che tutto questo viene tirato in ballo, generalmente, per giustificare il lavoro precario e la tempistica delle pause-cacca in fabbrica.