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LA RIFORMA E LE PARTI IN COMMEDIA
Il teatrino della politica
Umberto Bossi ha ammesso che il capo dello Stato h a r a g i o n e quando chiede alla maggioranza, per il rispetto dovuto al Parlamento, che il decreto del federalismo debba passare per l’aula di Montecitorio. Il leader della Lega avrebbe potuto pensarci il giorno prima. E il Consiglio dei ministri, convocato d’urgenza in via straordinaria, avrebbe potuto evitare la forzatura di un decreto fatto apposta per neutralizzare un parere parlamentare in contrasto con la linea del governo. Una provvisoria via d’uscita frettolosa, sbrigativa, irrituale che Giorgio Napolitano non avrebbe consentito di imboccare. Giulio Tremonti, pochi minuti prima del comunicato del Quirinale, aveva definito il decreto sul federalismo una «svolta storica». Ecco, una svolta storica di queste proporzioni non può realizzarsi per strade oblique, con espedienti mediocri, con un rapporto tanto spregiudicato nei confronti delle istituzioni rappresentative.
E il federalismo? Il federalismo è diventato un guscio vuoto, un simbolo, una bandiera da sventolare. Un pretesto. L’ennesimo, in questo scorcio di legislatura in cui ogni voto parlamentare diventa il giorno del Giudizio, il momento supremo e definitivo che sancisce il destino di ciascuno. Giovedì tutti i protagonisti non si sono misurati sul federalismo, ma ne hanno fatto strumento per ingaggiare una prova di forza. Bossi ha legato l’esito del voto della commissione parlamentare alla sopravvivenza del governo. Le opposizioni hanno rivisto il miraggio della spallata al governo che avrebbe mandato a casa il premier o addirittura, come Gianfranco Fini, l’oggetto di un mercanteggiamento con il leader della Lega: promessa di un voto favorevole di Futuro e libertà in cambio di un acrobatico sganciamento del Carroccio da Berlusconi. I vertici del Pdl, per ammansire i malumori leghisti, ne hanno fatto il teatro di una spettacolare prova di supremazia, anche a costo di uno strappo istituzionale che Napolitano si è visto costretto a riparare.
I contenuti del federalismo, la «svolta storica» evocata dal ministro dell’Economia, inevitabilmente svaniscono. Si perdono nel nevrotico conteggio quotidiano che dovrebbe dimostrare alla maggioranza di esistere, forte dell’apporto dei singoli parlamentari via via strappati all’opposizione, e a quest’ultima di contare ancora qualcosa, pur nello sgocciolio di defezioni e ritirate. I voti parlamentari diventano così tappe di una gara giocata allo spasimo, tanto da suggerire a Berlusconi l’immagine di un trionfale punteggio sportivo: «sette a zero». L’invito del capo dello Stato a evitare la guerra permanente viene disatteso. Il conflitto tra politica e magistratura raggiunge l’apice, e si minaccia da parte del governo di reinserire nel calendario parlamentare materie esplosive come la legge sulle intercettazioni e quella sul processo breve. Una nevrosi del «tirare avanti» che logora e dissolve la discussione politica in un perenne incontro di pugilato senza costrutto. Questo è il cruccio del capo dello Stato. E una ragione in più per prendere atto, con rammarico, che una stagione è finita e che il ricorso al voto anticipato, anche con una pessima legge elettorale, forse è diventata una scelta obbligata.
Pierluigi Battista
05 febbraio 2011