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Fiat voluntas sua

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Fiat voluntas sua

Messaggioda pierodm il 05/02/2011, 17:53

Dal Messaggero.
Una fusione fra Fiat e Chrysler «potremmo guardarla nei prossimi due o tre anni», forse anche con il quartier generale negli Stati Uniti. «Prima dobbiamo integrarle dal punto di vista operativo e poi ci occuperemo della governance...L'approccio per «una società» - aggiunge il Wall Street Journal - potrebbe essere completato una volta che Chrysler avrà restituito i prestiti ricevuti dal governo, obiettivo che potrebbe essere raggiunto nel 2011.
...Chrysler «ha un profondo debito di gratitudine nei confronti dei contribuenti americani e canadesi. Non c'‚ dubbio che la determinazione e il coraggio mostrato dai governi americani e canadesi è stato unico. Riconosciamo di avere una responsabilità morale e intendiamo mostrare la nostra gratitudine adempiendo ai nostri impegni e restituendo ogni centesimo che ci è stato dato».


Sarebbe bene che la Fiat mostrasse la propria gratitudine anche ai contriìbuenti italiani, e che prendesse in considerazione di restituire anche allo Stato italiano i miliardi e miliardi che le sono stati elargiti - nemmeno tutti, ne basterebbe solo una parte.
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Re: Fiat voluntas sua

Messaggioda cardif il 05/02/2011, 23:18

Secondo Marchionne lo spostamento del quartier generale a Detroit è una ipotesi.
Secondo Elkann il centro per l'Europa resterà a Torino.
Secondo me per ora sono affermazioni per preparare il terreno.
Intanto il primo è che la Chrysler deve restituire i soldi avuti in prestito dal governo USA.
E mi pare strano che arrivino soldi da là a Mirafiori (pure prima. in verità). Già un miliardo è difficile, figurati venti.
Ora pure la Cisl chiede conferma degli investimenti.
http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=1290988
Purtoppo tira più un pelo di Fiom che un pò di obiettività.
Ma mo' mi so' capito bene?
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Re: Fiat voluntas sua

Messaggioda ranvit il 06/02/2011, 10:44

http://www.ilmattino.it/articolo.php?id ... z=ECONOMIA

Marchionne: nel 2011 Fiat e Chrysler produrranno oltre 4 milioni di auto



ROMA - Nel 2011 Fiat e Chrysler produrranno oltre 4 milioni di vetture e veicoli commerciali leggeri e dovrebbero registrare un utile netto complessivo fra i 500 e i 700 milioni di euro, solo 300 dei quali addebitabili al Lingotto.
Lo ha confermato l'amministratore delegato di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne presentando a Detroit i dati del bilancio 2010 del gigante di Auburn Hills.

La Chrysler l'anno scorso ha registrato un passivo di circa 650 milioni di dollari (contro l'attivo di 222 milioni di Fiat) ma considerando che ha pagato quasi 1,3 miliardi di interessi ai governi americano e canadese per i 7 miliardi di prestiti ottenuti nel 2009 si può affermare che la Chrysler - entrata nell'orbita Fiat nel giugno 2009 su decisione del presidente Usa Barack Obama - sia ormai risanata. Il margine sui prodotti venduti ha superato quota 8%, molto di più del previsto. «Abbiamo raggiunto risultati molto superiori alle attese - ha detto Marchionne - E abbiamo mantenuto la promessa di presentare oltre 12 modelli nuovi o ristilizzati per il mercato americano entro il 2010».

In appena 18 mesi Marchionne, coadiuvato da un gruppetto di ingegneri e collaboratori italiani, ha rivoltato la Chrysler come un calzino. Sono stati chiusi una mezza dozzina di stabilimenti ma una decina sono stati ristrutturati da cima a fondo con nuove linee di produzione, nuovi modelli distribuiti su più turni di lavorazione e una ambiziosa filosofia di crescita che - come hanno scritto molti giornali Usa - ha risvegliato una società nota in America per la scarsa qualità dei suoi prodotti. Ovunque è stato adottato il nuovo sistema di produzione noto come World Manufacturing Class, ispirato a quello della giapponese Toyota, che premia la qualità del prodotto e spinge i dipendenti a migliorare i meccanismi produttivi dal basso.

Lo stesso Marchionne - cha da luglio ha riaperto le assunzioni pagando però i nuovi operai la metà rispetto agli anziani - ha riconosciuto lo sforzo dei dipendenti Usa e, in una lettera, ha annunciato che presto assegnerà loro un premio in denaro. Una notizia che sottolinea sempre di più la differenza fra l'ottimo rapporto costruito dal manager con i dipendenti americani e la situazione in Italia, dove Marchionne non è riuscito a convincere gran parte degli operai della bontà dei suoi progetti. Eppure anche ieri il capo del Lingotto ha ribadito che "l'incontro" tra Fiat e Chrysler è destinato a salvare entrambe le società e a dare prospettive più solide ai lavoratori.

Le due società assieme entrano del club dei grandi gruppi automobilistici dominato da Toyota, Gm, Volkswagen e Hyundai che fabbricano ciascuna fra i 5 e gli 8 milioni di pezzi all'anno. Comunque lo si voglia giudicare, Marchionne sta dimostrando che l'industria italiana, fra difficoltà e contraddizioni, può combattere il declino.




Martedì 01 Febbraio 2011 - 09:37 Ultimo aggiornamento: Mercoledì 02 Febbraio - 10:48
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Re: Fiat voluntas sua

Messaggioda ranvit il 07/02/2011, 9:54

Ilmattino.it (ieri 06/02/2011)

Lingotto,
il cervello... Oscar Giannino


Nel 1990, Fidel Castro lanciò un appello a tutti gli imprenditori del mondo. «Venite a investire a Cuba - disse - in fondo dovreste pensare che da noi non potrà che migliorare perché il peggio per voi è già avvenuto: l’avvento del comunismo». Ci sono occasioni in cui il paradosso di Castro torna buono per le vicende italiane. Ieri, per esempio, è stato così per le parole pronunciate a San Francisco dall’amministratore delegato della Fiat. Sergio Marchionne stava rispondendo alle pressanti domande di giornalisti americani, e non ha escluso che alla fine Fiat e Chryler possano fondersi. Non l’avesse mai detto. Immediatamente pezzi di sindacato e di politica italiana hanno dato fuoco alle polveri.
A invocare l’immediata convocazione da parte della politica di Marchionne è stata la leader della Cgil, Susanna Camusso. E il leader del Pd, Bersani non ha respinto la tentazione di attaccare il governo. In un Paese serio, le classi dirigenti dovrebbero sapere di che cosa parlano. Invece, il gusto della polemica contro avversari veri o presunti induce tanti a spararle più grosse. Così il governo, per evitare facili accuse di ampia eco mediatica, ha dovuto assumere l’iniziativa di chiedere l’ennesimo chiarimento alla Fiat. E Marchionne ha dovuto telefonare al ministro Sacconi, escludendo ogni ipotesi di futuri sviluppi che possano configurare la rinuncia del centro strategico e progettuale del gruppo laddove esso è radicato da oltre un secolo, cioè a Torino. È purtroppo facile immaginare che oggi i media italiani ospiteranno molti pensosi commenti nei quali in realtà il dubbio verrà invece puntualmente riproposto. Chiunque maldigerisca la svolta in Fiat a favore del binomio «più produttività-più salario», chiunque rimpianga il consociativismo che per decenni insieme a ripetuti errori strategici ha portato l’azienda più e più volte a trovarsi sull’orlo del baratro, è difficile resista alla tentazione di dipingere a foschi tinte come un’idea «americana», questa che anche gli stabilimenti italiani, come quelli polacchi e brasiliani e americani, debbano produrre utili, per restare aperti. Ma, in realtà, classi dirigenti serie – ripeto – avrebbero potuto e dovuto evitare ogni clamore. Dovremmo tutti sapere, dopo anni di dibattito approfondito intorno alla nuova scommessa mondiale in cui Marchionne ha saputo tradurre per Fiat la grande crisi dell’auto, a che punto siamo. Dopo un 2010 trascorso lavorando a testa bassa per far riguadagnare a Chrysler il margine operativo industriale, che non è ancora l’utile complessivo di gruppo ma ne costituisce l’ottima premessa, e a immaginare per ogni stabilimento americano, italiano, brasiliano e polacco quali quote di quali modelli congiunti concentrare per aggredire meglio i mercati e dunque con quali condizioni di produttività e margine in ogni sito produttivo– in questo quadro si è inserita la vicenda delle newco di Pomigliano e Mirafiori – viene ora l’anno in cui Fiat e Chrysler dovranno insieme superare i 4 milioni di veicoli prodotti. Dal punto di vista societario, per Fiat l’obiettivo è riuscire entro il 2011 a porre le premesse per salire al più presto fino al 51% nel capitale di Chrysler. Il che significa prima restituire i 9 miliardi di dollari al governo Usa oltre alla quota parte anticipata dal governo canadese, dunque essere in condizioni industriali tali da meritare credito bancario per essere pronti a restituirlo subito al meglio, con un ritorno ala quotazione sul mercato azionario di Chrysler non inferiore a incassare una ventina di miliardi di dollari. Questa è la fase in cui stiamo. Che cosa avverrà una volta raggiunto il 51% è difficile dirlo adesso, perché l’essenziale è innanzitutto arrivarci, e arrivarci bene. Al contrario di quanto continuano in Italia a ipotizzare tutti i nostalgici cacadubbi, non è uno dei tre giganti dell’auto americana ad aver acquisito Fiat levandola agli azionisti italiani, ma è l’esatto contrario quel sta avvenendo. I problemi restano tanti: Ford e Gm negli Usa continuano ad aver migliori modelli, migliori quote di mercato domestiche oltre a più forte e diversificata presenza estera; esattamente come per Fiat continuerà a farsi sentire per un pezzo il taglio agli investimenti che è stato necessario per affrontare in passato gli anni brutti, e candidarsi comunque al salvataggio Chrysler. Ma una cosa è certa: se fosse stata una casa tedesca o francese al posto della Fiat, media e sindacalisti e politici di quei Paesi non sarebbero con le armi alla mano come invece capita da noi. Il giorno in cui Fiat davvero sarà in posizione di controllo di una Chrysler compiutamente risanata e tornata in Borsa, sarebbe assolutamente controproducente rinunciare a tenere in Italia non solo la guida operativa del gruppo, ma soprattutto il nocciolo della progettualità tecnica e del design italiano che sono stati il suo unico asset grazie al quale quest’avventura americana ha potuto cominciare, poiché di soldi liquidi da investire non ce n’erano. Senza per questo immaginare che sia a Torino che si debba decidere l’attività di ogni stabilimento americano, perché non funziona così in nessun grande gruppo dell’auto veramente multinazionale e mondiale. Come l’Italia non ha mai avuto. La notizia, purtroppo, è che se Fiat ci riuscirà sarà tra la diffidenza di vasta parte dell’élite italiana, più che con il suo plauso e sostegno.
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Re: Fiat voluntas sua

Messaggioda flaviomob il 08/02/2011, 2:44

http://www.repubblica.it/economia/2011/ ... -12150935/

FIAT
Governo rassegnato: timone a Detroit
ma chiederemo garanzie su Torino
E' chiaro anche all'esecutivo che la società post-fusione avrà sede legale negli Usa. "In Italia resti almeno il centro direzionale europeo"

...il salvataggio della Chrysler potrebbe avere una serie di conseguenze sul piano finanziario e su quello legale da imporre la sede negli Stati Uniti. Oltreché il fatto che gli americani mal vedrebbero un'acquisizione da parte di un gruppo straniero.....

....Tuttavia è certo che una volta stabilizzata la sede legale negli Stati Uniti, in Italia si importerebbe il "modello brasiliano" con un centro direzionale molto leggero per definire le strategie produttive e di marketing per quel mercato. Un vero ridimensionamento per Torino.

Ma per vincolare Marchionne, il governo Berlusconi sa di avere poche armi a disposizione. "Non ci sono soldi", ripete come un mantra il ministro Tremonti. E senza soldi è difficile mettere in campo politiche a sostegno dell'industria. Sacconi parla di "politiche di contesto", di regole per favorire le attività industriali, anche per "consolidare" le scelte di Marchionne per Fabbrica Italia. Che il governo in extremis ha deciso di abbracciare. Questo rivendicherà l'esecutivo davanti a Marchionne nella prossima riunione di Palazzo Chigi. Troppo poco per impedire che la nascente multinazionale Fiat-Chrysler abbia sede a Auburn Hills, contea di Oakland, Stato del Michigan, Stati Uniti d'America.

(07 febbraio 2011)


"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)
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Re: Fiat voluntas sua

Messaggioda flaviomob il 09/02/2011, 0:36

La globalizzazione dei furbetti

Vladimiro Giacchè


Non passa giorno senza che una nuova voce si aggiunga al coro: “Chi lavora deve privarsi di qualche diritto. È la globalizzazione che lo impone”. Sul tema l’accordo è bipartisan. “La globalizzazione costringe ad abbandonare alcune conquiste sindacali ottenute in circostanze più favorevoli”: così Michele Salvati, economista di area Pd. Fiorella Kostoris, economista più vicina al governo, invece sentenzia: “C’è chi ancora crede che si possa stare nella globalizzazione senza cambiare nulla”. E lei, che non ci crede, cosa propone? Di lavorare di più a parità di salario: si deve “abbassare il costo del lavoro per dipendente e per unità prodotta, lavorando più ore e in più persone per produrre di più… Per aumentare la produttività, il mezzo più appropriato è l’incremento delle ore lavorate”. Le fa eco Guidalberto Guidi, presidente delle imprese elettroniche di Confindustria: “Nei Paesi che crescono si lavora dieci ore al giorno… Non è tirannia, sono le leggi del mercato”.

È stato questo il tam tam che ha accompagnato la vertenza di Mirafiori e, prima, quella di Pomigliano. Con l’inevitabile variazione sul tema: la Cina. John Elkann, ad esempio, ha sentenziato con aria grave: “La Cina esiste, è una grande realtà con la quale dobbiamo confrontarci”. Vero: e allora perché la società di cui è il principale azionista, la Fiat, non ci si confronta? Perché il fatto è che, mentre di automobili cinesi in Italia non se ne vedono, la Cina è invece inondata di auto occidentali. Tranne quelle della Fiat, che da quel mercato è assente.

Ma la frase di Elkann non è soltanto un autogol, è il sintomo di un approccio sbagliato al problema della crescita dei paesi emergenti: che non sono una minaccia, ma una grande opportunità per chi la sappia cogliere. Questo è già vero oggi, ma lo sarà ancora di più in futuro. Lo dimostrano due recenti ricerche, prodotte da McKinsey e da Standard Chartered. Entrambe prendono in considerazione un orizzonte temporale che va sino al 2030, e le loro conclusioni sono sostanzialmente convergenti: il mondo sta per vivere un grande periodo di crescita, simile a quello che abbiamo vissuto tra il 1945 e il 1970.

La novità è che questa volta lo sviluppo sarà trainato dai giganteschi investimenti che saranno effettuati soprattutto in Asia (in particolare Cina e India), ma anche in America Latina e Africa. Secondo McKinsey la domanda di investimenti produttivi, infrastrutture ed edilizia residenziale ammonterà nel 2030 a qualcosa come 29 mila miliardi di dollari. La spesa per consumi prevista da Standard Chartered non è meno impressionante: al riguardo la Cina supererà gli Stati Uniti già nel 2017-2018. E nel 2030 il suo pil pro capite sarà 43 volte maggiore di quello del 1980 (quello dell’India “solo” 17 volte). In quello stesso anno, nel mondo gli appartenenti alla middle class (che secondo i criteri dell’Ocse sono le persone con un reddito giornaliero dai 10 ai 100 dollari a parità di potere d’acquisto) saranno 4,9 miliardi: quasi tre volte gli 1,8 miliardi odierni.

La conclusione di tutto questo è obbligata: i paesi emergenti continueranno a essere grandi esportatori, ma saranno sempre più importanti come consumatori; e non soltanto di materie prime, ma anche di prodotti finiti. Non si tratta di un futuro lontano: nel 2010 le importazioni della Cina sono cresciute di 400 miliardi di dollari, attestandosi a 1.400 miliardi. Insomma: la crescita di quello che una volta consideravamo il Terzo mondo rappresenta una gigantesca opportunità.

Ma c’è un ma. Ed è rappresentato da un elemento che resta significativamente in ombra in tutti i discorsi dei nostri teorici della globalizzazione come destino. Ce lo ricorda proprio la ricerca di Standard Chartered: in questo nuovo scenario il successo dei Paesi più sviluppati dipenderà più che mai dalla ricerca, dalla tecnologia e dalla capacità di innovare. E qui cominciano le dolenti note per l’Italia. Ecco cosa dice l’Istat in proposito:

“Gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e in innovazione segnalano un forte svantaggio dell’Italia rispetto alle altre importanti economie europee anche in relazione alla capacità innovativa espressa dal sistema delle imprese. La spesa complessiva in R&S, stimata per il 2008 nell’1,2 per cento del Pil, presenta un valore analogo a quello raggiunto alla metà degli anni Ottanta, decisamente lontano dalla media europea (circa 1,9 per cento). Solo il 37 per cento delle imprese manifatturiere italiane conduce attività di ricerca (contro il 70 per cento di quelle tedesche e il 59 per cento delle francesi) e il 28 per cento delle imprese produce servizi ad alto contenuto di conoscenza (ultimi nel confronto con le principali economie europee)”.

Investimenti in ricerca significano innovazione di processo e di prodotto e miglioramento della produttività del lavoro. È questo che conta, ben più che le ore lavorate. E infatti – e questo è un dato che sottoponiamo volentieri alla riflessione dei teorici del lavoro (degli altri) – in Italia già oggi non si lavora di meno, ma di più che in Germania: per l’esattezza 1.807 ore medie annue contro 1.429 (dati Ocse riferiti al 2007); in Fiat 40 ore settimanali contro le 35 della Volkswagen (a fronte di uno stipendio molto più basso). Nonostante questo, la Volkswagen (e non la Geely cinese) continua a erodere quote di mercato alla Fiat, in Italia e altrove. Come mai? Perché, per dirla con Patrick Artus, responsabile della ricerca economica di Natixis e autore di un report recente sui differenziali di competitività tra i paesi europei, “il tempo di lavoro non gioca alcun ruolo”, mentre ben più importanti sono gli incrementi nella produttività del lavoro: notevoli nel caso tedesco, inesistenti nel caso italiano. È questo che provoca la continua perdita di competitività di prezzo delle imprese italiane, recentemente ricordata anche dalla Banca d’Italia.

Invertire la tendenza non sarà facile. Potremo riuscirci solo se affronteremo il problema della globalizzazione da un punto di vista diverso: cominciando finalmente a occuparci non di quello che fa il lavoro (che come si è visto non è poco), ma di quello che fa (o non fa) il capitale.

dal Fatto Quotidiano
riportato da:
http://www.sinistrainrete.info/globaliz ... i-furbetti


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