La democrazia liberale ha bisogno di un caudillo per funzionare?
di Saskia Sassen, Columbia University, traduzione di Giuliano Battiston
Il fatto importante non è tanto che Obama abbia perso così tanto del suo appeal – è già accaduto infatti a presidenti che poi, nelle elezioni di secondo mandato, hanno riscosso molto successo, in particolare Reagan e Clinton. Il fatto veramente importante è che il vecchio algoritmo dello Stato liberale non regge più. In questo articolo intendo sostenere che il degrado di questo algoritmo è talmente grave che lo Stato liberale può adempiere ai suoi compiti essenziali soltanto se il presidente usa tutti i suoi poteri – e si tratta di molti poteri – dimenticando i convenevoli come la ponderatezza legislativa e lo spirito bipartisan.
Il provvedimento sull'assistenza sanitaria, per esempio, è passato una volta che la Casa Bianca ha deciso che fosse il caso di proporre un disegno di legge, dopo aver atteso per un anno che il ramo legislativo ne presentasse uno, cosa che non ha fatto. Inoltre, ora appare chiaro come gli sforzi di Obama per apparire bipartisan non abbiano sortito alcun effetto, e che il disegno di legge sarebbe passato anche nel caso Obama avesse semplicemente tralasciato lo spirito bipartisan. Si tratta di due fatti piuttosto illuminanti. Che sollevano la questione di un grave deterioramento del governo democratico negli Stati Uniti. L'anno che ha portato alla campagna elettorale degli Stati Uniti indica che abbiano raggiunto un ulteriore livello di degrado, relativo al significato della libertà di espressione.
E' abbastanza chiaro che non c'è niente che vada come dovrebbe. Il dibattito non riguarda più le differenze sul modo in cui interpretare i fatti. I fatti stessi sono stati lasciati fuori da una quota rapidamente crescente di dibattito politico. Molte distorsioni plateali dei fatti e “fatti” completamente immaginari hanno avuto una circolazione globale, e non c'è bisogno che li ricordi in questa occasione: hanno già avuto il loro anno di celebrità. Ciò di cui ci sarebbe bisogno negli Stati Uniti, ma di cui non c'è traccia, sono dei dibattiti nazionali sui tanti abusi di legge compiuti dal ramo esecutivo del governo durante l'amministrazione Bush-Cheney, alcuni dei quali continuano tuttora, perché sono divenuti parte del modo stesso in cui opera il sistema.
Il pubblico americano sembra essersi stufato della guerra, nonostante un'esorbitante quota delle tasse sia destinata a finanziarla, anziché essere impiegata per sistemare le infrastrutture in degrado, per estendere l'assistenza sanitaria al 40% della popolazione priva di assicurazione, per combattere l'alto tasso di disoccupazione che potrebbe diventare permanente, e via dicendo. Ma la passione ideologica e soprattutto emotiva hanno avuto la meglio perfino sul buon vecchio spirito utilitaristico americano, che apprezzava sinceramente il valore monetario di tutto questo. Non più.
Siamo di fronte a una questione che investe soltanto gli Stati Uniti, oppure potremmo riconoscere un segno di decadimento nella politica dei partiti anche in Europa, sebbene in forma meno degradata rispetto agli Stati Uniti? La recente (ora defunta) alleanza tedesca di due partiti che sono stati per lungo tempo in competizione tra loro per il potere, dunque non alleati, può essere vista come un segno che le posizioni dei partiti contino meno: sta diventano tutto grigio. E poi c'è Berlusconi e le sue manipolazioni della legge per proteggere se stesso – neanche una classe o un gruppo di amici, soltanto se stesso – dal carcere (mi sembra che, in paragone, gli exploites sessuali, almeno se osservati da una distanza di sicurezza, siano meno rilevanti, qualcosa che somiglia più a un'operetta comica che a un abuso di legge). Oltre questo livello della politica dei partiti pubblici esiste però uno svilimento più profondo, meno visibile, dei fondamenti di un sistema politico democratico, uno svilimento strutturale che può parzialmente spiegare il più visibile, e particolarmente evidente, degrado della politica dei partiti.
Una tragedia shakespeariana?
Nelle democrazie, l’esecutivo è stato a lungo il potere più forte. Ma al potere esecutivo si sono sommati, in modi doversi, la crescita dell'economia finanziaria e delle corporation globali, insieme alla “Guerra all'Iraq” e “al Terrore”. Allo stesso tempo, però, questi processi hanno indebolito altri settori dello Stato. Il ramo legislativo americano, per esempio, è stato svuotato, e ciò costituisce una delle ragioni della sua incapacità di affrontare i principali problemi con cui deve fare i conti. Questo spiega inoltre la profonda disaffezione della popolazione nei confronti del Congresso, il potere che negli Stati Uniti registra il più basso consenso – generalmente tra il 18 e il 25%. Questo enorme vuoto al centro del legislativo, verso cui i cittadini possono esercitare un potere più ampio – rispetto all'esecutivo e al giudiziario –, è stato gradualmente riempito da radio petulanti e commentatori Tv per i quali la verità e l'oggettività sono irrilevanti, e che hanno alimentato l'immaginario pubblico con bugie e distorsioni della verità. Non ci dovremmo sorprendere che si sia affermato un gruppo come il Tea Party. I partiti e le iniziative europee di natura radicalmente razzista potrebbero rappresentare uno sviluppo equivalente?
In tutto ciò c'è una sottile e allarmante ironia. La combinazione di tendenze significa infatti che l'unico strumento affinché l'apparato statale possa occuparsi delle questioni più urgenti è un esecutivo forte con la volontà di esercitare pienamente il suo potere. Eppure, non è così che si pensava che le cose dovessero funzionare in uno Stato liberale. In un sistema politico in cui il legislativo è stato svuotato, la riluttanza di Obama a esercitare tutto il suo potere diventa una seria disfunzione. A questo si aggiunga il fatto che Obama non sembra dotato di una bussola precisa sull'economia e sulla guerra: questi non sono infatti gli ambiti in cui ha maggior interesse ed esperienza. In un quadro simile diventa fondamentale la scelta dei consiglieri economici e militari e il modo in cui essi presentano la situazione al presidente.
Per finire, come se questa miscela esplosiva non fosse abbastanza, l'intelligenza e la limpidezza mentale di Obama significano che lui può seguire, rispettare ed essere persuaso da una presentazione intelligente dello stato delle cose, usando semplicemente il suo ragionamento. E ciò può accadere anche nel caso della scelta di una politica sbagliata. Così, se si tratta della guerra o dell'economia e non c'è un'opposta tesi sostenuta da un consigliere ugualmente intelligente e persuasivo, si può facilmente assumere la decisione sbagliata. Nel caso dell'economia, diversi esperti riconoscono che Summers, il consigliere economico della Casa Bianca, ha marginalizzato coloro che non erano d'accordo con la politica da lui suggerita, da Paul Volker a Christina Roemer, capo del Council of Economists, che ora ha lasciato il posto.
C'è un'ironia quasi shakespeariana in quest'uomo di governo le cui preoccupazioni sono rivolte soprattutto alla generale questione sociale, ma che deve confrontarsi in modo più urgente e immediato con due ambiti (non necessariamente i più fondamentali) come l'economia e la guerra, e la cui intelligenza e brillantezza mentale diventano causa stessa della sua rovina.
Lo Stato liberale, dunque, non funziona più. Non è all'altezza di uno dei suoi presidenti più intelligenti, seri, onesti, dallo stile vecchia maniera. Anzi, pare che, affinché lo Stato realizzi ciò che deve essere fatto, ci sia bisogno di un caudillo – di un presidente imperiale. In sé, Bush non era imperiale, ma lo era il regime della sua presidenza, caratterizzato dallo stato d'emergenza (il Patrioct Act) che consentiva massicce violazioni della legge del regno.
La storia di tali violazioni non è del tutto di dominio pubblico, e non lo sarà ancora per molti anni. Ma le parti che conosciamo di questo regime di violazioni sono profondamente allarmanti. Il popolo americano, però, sembra essere distratto da altre questioni, sia allora – da un patriottismo fuori luogo che rasentava il fanatismo per andare in guerra – sia ora, da un fanatismo fuori luogo che riguarda il ritorno della religione, la cittadinanza di Obama, e altre simili preoccupazioni che appassionano molto.
Movimenti tettonici nello Stato liberale
Secondo la mia analisi, il crescente potere dell’esecutivo è, dunque, uno sviluppo strutturale che è parte dell'evoluzione/adattamento del cosiddetto Stato-liberale. Si tratta di un punto che analizzo in modo dettagliato nel libro Territorio, autorità, diritti, in particolare nei capitoli 4 e 5. Tale sviluppo strutturale deve essere distinto dallo stato d'emergenza o dallo stato d'eccezione – una condizione anomala che può tornare “normale” una volta che l'emergenza sia cessata.
Oggi la maggior parte dei commenti relativi alla crescita del potere esecutivo (sia del presidente che del primo ministro) si concentrano sullo stato d'emergenza (per esempio il Patriot Act negli Stati Uniti, o le nuove politiche d'emergenza anti-terrorismo negli Stati membri dell'Unione Europea). A causa di tale lettura, è facile tralasciare questa seconda, strutturale tendenza di un crescente potere esecutivo, che non è anomala dunque, ma rappresenta piuttosto la nuova norma dello Stato liberale. Nella sua manifestazione estrema, questa tendenza potrebbe segnalare una nuova fase nella lunga storia delle democrazie liberali, una fase in cui l’esecutivo ottiene parzialmente potere attraverso le sue attività sempre più internazionali.
Nel corso degli ultimi venti e più anni, questo internazionalismo incipiente è stato sviluppato in favore dell'economia globale che si andava sviluppando, oltre che per combattere la “Guerra contro il terrorismo”; in questi termini il salvataggio delle grandi banche non rappresenta tanto un “ritorno alla Stato nazionalista forte”, come vorrebbe qualcuno, ma è piuttosto l'uso da parte dell’esecutivo della legge e dei soldi dei contribuenti per salvare un sistema finanziario globale. E' una forma di internazionalismo. Ed è un peccato che sia stata sviluppata per questi scopi. Tuttavia, è possibile che queste nuove capacità internazionali dell’esecutivo possano essere ri-orientate verso obiettivi più meritevoli – il cambiamento climatico, la fame globale, la povertà globale, e molti altri che richiedono nuove forme di internazionalismi.
Ma per sfruttare il crescente potere dell’esecutivo perseguendo obiettivi domestici e globali meritevoli ci sarebbe bisogno di un presidente eccezionale. Credo che Obama possa essere quel presidente, ma che debba riconoscere che la vecchia e buona maniera di governare è ormai finita. Dovrebbe esercitare tutto il suo potere, così come ha fatto Cheney durante l'amministrazione Bush per obiettivi non desiderabili. Ho fiducia in Obama, proprio perché desidera una società più giusta per tutti. E con i consiglieri adatti, ora che sono andati via quelli non proprio adatti, potrebbe cominciare a ri-orientare l'apparato statale per fare un po' di quel lavoro fondamentale che deve essere fatto.
Certo, questo non è lo scenario ideale per una democrazia davvero funzionante. E' altamente instabile, ed è tremendamente suscettibile di favorire un abuso di potere. Ma è quel che è capitato allo Stato liberale in una delle sue versioni più deteriorate – gli Stati Uniti.
Perché siamo scivolati così in basso sul piano democratico dalla fine del periodo keynesiano? Malgrado tutte le loro imperfezioni, i decenni che caratterizzano la metà del ventesimo secolo hanno visto un'espansione delle classi medie, floride classi lavoratrici, un rafforzamento delle protezioni dei lavoratori, l'adozione di diritti civili, di protezioni ambientali, e molte altre leggi e regolamenti che hanno rafforzato i diritti della gente e rivendicato maggiore trasparenza da parte dell’esecutivo. Inoltre, è stata un'epoca in cui sono diminuite le disuguaglianze. Per molti versi è stato il trionfo delle battaglie dei lavoratori e delle minoranze ad aver fatto sì che lo Stato rispondesse alle loro vecchie rivendicazioni. Questo stato di cose è diventato insostenibile, e non solo a causa di alcune forze esterne, come la globalizzazione.
Il soffio mortale del liberalismo è tornato in scena dopo che era stato parzialmente controllato nel periodo keynesiano. Gli agenti storici del liberalismo – le borghesie nazionali e la classe lavoratrice industriale – non esistono più come tali. Questi due soggetti fondamentali sono stati costruiti per legge come attori profondamente diseguali. La loro diseguaglianza non è dunque anomala o aberrante. Sta nella legge del liberalismo. Questa caratteristica fondamentale è riemersa con rinnovato rigore nell'era globale neoliberale che ha preso piede negli anni Ottanta. Altrove ho esaminato questa transizione dallo Stato keynesiano a quello liberale, emersa negli anni Ottanta negli Stati Uniti e, in forma mitigata, in Europa.
Conclusione
Ci troviamo dunque con uno Stato liberale che non funziona. Con il suo picco negli Stati Uniti. Ma sta ugualmente emergendo, in modi circoscritti ma crescenti, negli Stati europei, con la differenza significativa che questi Stati hanno affrontato la questione sociale in maniera molto più seria e complessiva durante l'era keynesiana rispetto a quanto non abbiano mai fatto gli Stati Uniti. E alcune di queste protezioni rimangono ancora in piedi, sebbene indebolite. Il fatto che la situazione possa peggiorare è segnalato dai tagli draconiani adottati lo scorso anno da paesi diversi come Francia, Grecia e Regno Unito, con il ritorno al potere in quest'ultimo paese del partito conservatore.
Al cuore della democrazia liberale, sia come pratica che come dottrina, c'è una tensione tra il privilegio accordato ai diritti di proprietà da una parte e un'interpretazione più sostanziale dell'uguaglianza, inclusi oggi i diritti umani, dall'altra. Una tensione che non è mai stata risolta. Il periodo keynesiano ha prodotto le condizioni per una classe media prospera e crescente in molti paesi e per una classe lavoratrice attiva. Plausibilmente, potrebbe essersi trattato di un passaggio all'interno di una traiettoria democratica liberale che costituiva un avanzamento rispetto al passato e che sarebbe dovuta proseguire, portando soltanto maggiore uguaglianza. L'attuale fase di neoliberalismo globale ci mostra però qualcosa di diverso: nelle democrazie liberali più vecchie, un impoverimento delle classi medie tradizionali e delle classi lavoratrici – mentre alcune delle democrazie liberali più recenti sono entrate nel processo, evidente in India, di espansione delle classi medie.
Il potenziale del liberalismo, relativo alla sua capacità di rendere possibili le battaglie degli svantaggiati – sia nel passato sia oggi nelle democrazie emergenti – ha mantenuto la sua promessa nello Stato regolatorio e nel contratto sociale keynesiano. Ma nell'attuale fase di neoliberalismo globale potrebbe anche mostrare i suoi limiti, con un ritorno a disuguaglianze e povertà spesso estreme, in forme che i liberali consideravano parte del passato durante l'epoca keynesiana. La fase attuale, infatti, ci mostra i limiti del liberalismo nell'assicurare un progresso continuo per gli svantaggiati e una continua limitazione del potere e del benessere estremi. Il cambiamento riguarda proprio la composizione, piuttosto che l'esistenza, di ogni estremo.
Oggi lo “svantaggiato” include non solo le classi medie impoverite, ma anche una crescente gamma di aziende capitaliste che hanno dominato i capitalismi nazionali. E il “privilegiato” include le elite globali con sempre più rari interessi nazionali e sempre più dominanti wealth-funds sovrani che stanno rimodellando le logiche del capitalismo. Molte delle capacità economiche, organizzative, ideative edificate storicamente con la nascente borghesia esistono ancora oggi, dunque, ma hanno saltato logiche di organizzazione.
Per concludere, il liberalismo non è riuscito a superare la disuguaglianza fondamentale dei suoi due soggetti storici. Si potrebbe sostenere che questo non preclude il fatto che, per quanto sia imperfetto, non possa ancora essere l'opzione migliore. Avrei potuto essere d'accordo se non fossi stata testimone dell'attuale era di neoliberalismo globale e dei suoi disastrosi esiti sociali ed economici.
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Saskia Sassen (L'Aia, 5 gennaio 1947) è una sociologa ed economista statunitense nota per le sue analisi su globalizzazione e processi transnazionali. Il successo dei suoi libri l'ha resa rapidamente una degli autori più quotati tra gli studi sulla globalizzazione.
Dopo aver insegnato sociologia all'Università di Chicago, attualmente insegna alla Columbia University e alla London School of Economics.
Secondo la Sassen, la globalizzazione dell'economia, accompagnata dall'emergere di modelli di potere transnazionali, ha profondamente alterato il tessuto sociale, economico e politico degli stati-nazione, di vaste aree sovranazionali e, non da ultimo, delle città.