I nipotini di Hoover
di Silvano Andriani
La recente riunione dei G20 a Francoforte, che ha avallato la scelta europea dell’austerità, ha suscitato il diffuso timore che la stretta dei bilanci pubblici in tutti i paesi avanzati possa mandare di nuovo in recessione l’economia mondiale. Timori condivisi da Obama, che, tuttavia, deve fare fronte in casa propria all’offensiva dei nipotini di Hoover, che evidentemente sono disseminati in tutto il mondo, e che ritengono che le crisi si curano con l’austerità.
Si sprecano, naturalmente, le assicurazioni che l’austerità deve essere coniugata con la crescita, ma nessuno ci dice come. Solo il Governatore della Bce, Trichet, che non si capisce chi abbia nominato speaker della politica economica comunitaria, ci assicura genericamente che “… politiche che ispirano fiducia favoriscono e non ostacolano la ripresa economica”. Altri hanno sostenuto più chiaramente che l’annuncio di politiche fiscali “responsabili” indurrebbe i privati ad aumentare consumi ed investimenti e con ciò a sostenere la ripresa. Si tratta di una stanca riesumazione della “teoria della aspettative razionali” che furoreggiò nei decenni liberisti.
Ora, a parte il fatto che quella teoria nei suoi quasi 40 anni di vita non è stata mai seriamente verificata, a parte il fatto che, se davvero le politiche economiche dei trascorsi decenni – promesse di riduzione della pressione fiscale, politiche monetarie e creditizie lassiste - hanno generato delle aspettative, queste, alla prova dei fatti, si sono rivelate decisamente irrazionali, immaginare che, mentre si bloccano o si tagliano retribuzioni e pensioni, si aumentano le imposte, cresce la paura dei licenziamenti, la gente abbia voglia di aumentare i consumi e gli imprenditori gli investimenti ci vuole una bella fantasia.
C’è poi la teoria dello spiazzamento: la crescita dei deficit pubblici, si sostiene, finisce con l’assorbire le risorse finanziarie esistenti e con ostacolare gli investimenti privati, che potrebbero invece ripartire se si riducono i deficit pubblici. Recenti dati Ocse ci informano che, in seguito all’incertezza generata dalla crisi ed alla conseguente caduta della domanda privata, il risparmio nei paesi avanzati è aumentato di tre trilioni di dollari e non sa dove collocarsi. C’è un eccesso di risparmio e dunque nessuno spiazzamento. Se le imprese non investono non è per mancanza di quattrini, ma perché le banche non fanno credito per i ben noti motivi e, soprattutto, in quanto la capacità produttiva inutilizzata è tanta e le prospettive di domanda deprimenti.
Più concreta è l’altra ipotesi, quella che l’Europa possa avvantaggiarsi per la svalutazione dell’euro. Ciò sta già avvenendo: l’indebolimento dell’euro è già in corso e lo stentato 1% di crescita previsto quest’anno per l’Europa deriva tutto dalla crescita delle esportazioni. Soprattutto stanno aumentando le esportazioni tedesche e con esse aumenta l’attivo strutturale della bilancia dei pagamenti germanica che si era dopo la crisi fortemente ridotto. E' un modo per fregare i vicini: ed in effetti la ripresa Usa, che l’anno scorso è stata a sua volta trainata dalle esportazioni, con il rafforzamento del dollaro sta rapidamente rallentando ed il Fondo Monetario Internazionale ha già espresso il timore che ciò possa preludere al rallentamento dell’intera economia mondiale.
Il deficit della bilancia dei pagamenti Usa, da tempo ritenuto la principale distorsione dell’economia mondiale, che si era fortemente ridotto a causa della crisi, sta ora nuovamente aumentando. In risposta Obama ha costituito una commissione ad alto livello con l’obbiettivo di trovare il modo di raddoppiare le esportazioni statunitensi in cinque anni ed uno dei componenti la commissione ha già avvertito che ciò non potrà realizzarsi senza una svalutazione del dollaro. La sterlina si sta già svalutando. Il rischio che si diffondano i tentativi di operare sui cambi per aumentare la propria competitività e scaricare su altri il peso della recessione diventa così forte e ciò potrebbe rafforzare le tendenze protezioniste.
D’altro canto, una ripresa europea trainata dalle esportazioni favorirebbe quei paesi che storicamente hanno puntato sulle esportazioni, Germania, Olanda, Finlandia e finirebbe con l’accentuare le divergenze con i paesi più deboli dell’area euro e le difficoltà a gestire la moneta unica. Aggraverebbe anche gli squilibri mondiali, visto che la Germania ha un attivo strutturale di bilancia dei pagamenti che non ha da invidiare quello cinese e che andrebbe ridotto per riequilibrare l’economia mondiale.
La scelta dell’austerità rischia dunque di innescare, se non proprio quella che Krugman ha chiamato “ la terza depressione”, terza dopo quelle successive alle crisi finanziarie del 1876 e del 1930, una stagnazione di tipo giapponese, che è già durata venti anni. In tal caso anche l’obbiettivo di ridurre i deficit fallirebbe per la inevitabile riduzione delle entrate: il debito pubblico in Giappone ha superato il 200% del Pil.
Al di là dello scarso realismo che ha la scelta dell’austerità un altro interrogativo si pone: se, riducendo i deficit pubblici, si punta su un rilancio dei consumi e dei conseguenti investimenti privati, che tipo di sviluppo si auspica per il futuro? Sembrerebbe uno sviluppo simile a quello passato, ora entrato in crisi. E poiché di quel modello di sviluppo trainato dalla crescita dei consumi privati il motore è stato l’indebitamento delle famiglie e delle banche che ha raggiunto livelli insostenibili come si dovrebbe finanziare la crescita dei consumi in futuro?
Il problema del modello di sviluppo esiste, tuttavia, anche per i sostenitori della necessità di continuare con gli stimoli fiscali e con politiche monetarie espansive. Lo sviluppo dei decenni passati ha accumulato grandi squilibri nell’economia mondiale, ne è conseguita la formazione di eccessi di capacità produttiva, soprattutto nel campo dei beni di consumo e delle abitazioni, e difetti di capacità in altri campi, come l’energia, l’alimentazione, la cura del territorio, la sanità, le infrastrutture. La rivoluzione tecnologica è stata orientata di conseguenza, mentre enormi potenzialità di ricerca e di innovazione in altri campi sono state inadeguatamente alimentate. Il semplice sostegno quantitativo della domanda non risolve il problema degli squilibri e può ulteriormente alimentarli. Del resto, dopo l’esplosione della bolla tecnologica, anche Bush ha utilizzato il deficit spending e una politica monetaria molto espansiva per contrastare la recessione, ma, inserite nel solito modello di sviluppo, tali politiche hanno generato un’altra bolla speculativa. Stimolo fiscale e politica monetaria espansiva vanno usati invece come leva per cambiare il modello di sviluppo.
Commentando su Financial Times del 9/7 la decisione di Obama, M. Spence, premio Nobel per l’economia nel 2001, dopo avere ricordato che “… una tendenza al sottoinvestimento in infrastrutture ha lasciato l’economia meno competitiva di come potrebbe essere. Il tema del prezzo dell’energia è stato ignorato causando sottoinvestimenti nelle infrastrutture urbane e nei trasporti”, conclude che “… la nuova commissione per le esportazioni, annunciata ieri, è un passo nella giusta direzione, ma una mossa più coraggiosa è necessaria: una larga partnership pubblico privato per investire in quelle parti dei beni in competizione dove esistono opportunità per i paesi avanzati di essere competitivi. L’obbiettivo deve essere di creare posti di lavoro ad alta intensità di capitale che abbiano un livello di produttività confacente a paesi avanzati ad alto reddito”. Qui si sta parlando di un nuovo modello di sviluppo e di politiche industriali ed è un approccio che riguarda tutti i paesi avanzati.
Quale modello di sviluppo? Un nuovo ciclo di sviluppo sarà sostenibile se non sarà più trainato da una crescita dissennata di consumi privati, ma da un poderoso e prolungato flusso di investimenti diretto a fare compiere un salto di qualità all’apparato produttivo ed a potenziare la produzione di beni pubblici – messa in sicurezza e valorizzazione del territorio e dell’ambiente, infrastrutture e trasporti, energia, formazione, sanità, sicurezza, giustizia - che migliori le condizioni del vivere civile ed aumenti l’efficienza del sistema.
L’aumento del tasso di risparmio dovrebbe diventare sistematico, ma il problema sarà di trasformare le maggiori risorse finanziarie verso investimenti confacenti col nuovo modello di sviluppo. Una tale svolta non sarà realizzata dai mercati. Spetta agli Stati produrre una visione dello sviluppo confacente con le potenzialità, le risorse e le vocazioni di ciascun paese ed adottare politiche e avviare progetti in grado di generare e mobilitare in quella direzione risorse private e pubbliche. Una coalizione per l’innovazione dovrebbe perciò formarsi non solo sull’individuazione dei nuovi bisogni prioritari e delle conseguenti strategie di investimento, ma anche sui meccanismi distributivi e sugli incentivi confacenti con un nuovo tipo di sviluppo.
Si potrebbe dire, in termini teorici, che si tratta di combinare un approccio keynesiano con uno shumpeteriano. Si tratta, da una parte, di essere consapevoli della necessità di una politica della domanda, non solo per i tempi di crisi, tipo deficit spending, ma di tipo sistematico. Questo vuol dire mettere in campo un modello distributivo che risulti non solo più giusto, ma anche funzionale alla qualità ed alla stabilità dello sviluppo desiderato, in grado anche di generare un livello adeguato della domanda interna senza che sia necessario fare crescere il livello dell’indebitamento pubblico e privato, cosa possibile come dimostra l’esperienza dei “ trenta anni gloriosi” successivi alla seconda guerra mondiale. Una tale distribuzione il mercato non è in grado di generarla da se, come dimostra l’esperienza degli ultimi trenta anni, e deve perciò essere orientata politicamente. D’altra parte si tratta di avere consapevolezza che crisi di questa portata, che segnano la fine di un modello di sviluppo e di un ciclo tecnologico impetuoso ma distorto da una distorta distribuzione del reddito, comportano una inevitabile “ distruzione creatrice” e che si tratta di rafforzarne la componente creativa con politiche dirette a favorire modifiche strutturali che sostengano il passaggio ad un nuovo modello di sviluppo e ad un nuovo ciclo tecnologico.
Una tale svolta richiede la rottura con l’ortodossia per quanto riguarda la politica economica. Ma non solo: ancora più importante sarà un cambiamento culturale che faccia da base al mutamento dello stile di vita delle persone e dei popoli. Ogni modello di sviluppo incorpora un sistema di valori. Nel modello sostenuto dal pensiero unico le figure centrali sono i consumatori ed i proprietari. La Thatcher, che ripetutamente ha affermato che la società non esiste ed esistono solo gli individui, cantò vittoria quando potè annunciare che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti ai sindacati. Lo sviluppo doveva così essere trainato dai consumi privati, ma il titolo per partecipare alla distribuzione del maggior reddito prodotto era non il lavoro e l’impegno continuo a migliorarne la qualità, ma l’astuta gestione dei beni patrimoniali. E poiché la maggior parte della popolazione non era in grado di concorrere a quell’aumento le disuguaglianze sono aumentate e la crescita dei consumi ed il mantenimento del consenso sono stati ottenuti con la continua crescita del debito delle famiglie, favorita da politiche monetarie costantemente espansive e garantito dall’aumento inflazionato del valore dei beni patrimoniali che è alla base delle varie bolle speculative che con crescente violenza sono scoppiate negli ultimi venti anni.
Uno stile di vita edonistico in quella che è stata definita “ società del desiderio” e comunque appiattito sul presente ha orientato i comportamenti delle imprese e delle persone, prodotto un eccesso di beni di consumo ed il deperimento di beni pubblici a partire dall’ambiente. Tale andazzo deve essere rovesciato. In un nuovo modello di sviluppo lo stile di vita andrebbe orientato a guardare di più al futuro, a richiedere alle persone un impegno continuo a migliorare le propria professionalità ed a realizzare le proprie capacità. Anche la governance delle imprese andrebbe riorientata di conseguenza. Ciò richiederebbe un sostanziale cambiamento del sistema di incentivi ed un potenziamento dei beni pubblici che possa sostenere l’impegno delle persone e delle imprese. Il tasso di risparmio dovrebbe aumentare non per paura, ma per capacità di guardare al futuro ed i mezzi finanziari da esso derivanti andrebbero orientati a finanziare le nuove strategie di investimento.
Nel mezzo della crisi degli anni’70, che nacque dal conflitto tra i paesi industrializzati, che avevano già conseguito livelli di consumo e di benessere rilevanti, ed i paesi arretrati venditori di materie prime, Enrico Berlinguer già propose un cambiamento del modello di sviluppo. Sbagliò la scelta del nome, giacchè la parola austerità aveva ed ha un significato consolidato che non può essere modificato ed il contenimento dei consumi privati in società come le nostre non vuol dire stare peggio, se nel frattempo migliora l’offerta di beni pubblici e si riduce l’incertezza. Ma quello che lui proponeva era il passaggio ad un tipo di sviluppo meno alimentato da consumi privati e più dal potenziamento dei beni pubblici, compresa la tutela dell’ambiente. La risposta vincente a quella crisi, quella liberista, andò nella direzione opposta, quella di inglobare anche i paesi emergenti nel paradigma consumista indicendoli ad adottare modelli di sviluppo trainati dalle esportazioni. E siamo arrivati al punto che paesi ancora poveri hanno alimentato la crescita insensata dei consumi di paesi ricchi non solo con l’esportazione di beni a bassissimo costo, ma anche prestando loro quattrini per acquistarli. Ora che questo modello è in crisi sarebbe oggettivamente più forte la proposta di un modello alternativo.
Vi è poi il problema dell’enorme debito accumulato dai paesi avanzati. Il Fmi ha finalmente cominciato a formulare una classifica dell’instabilità nella quale non si tiene conto solo del debito pubblico di ciascun paese, ma del debito totale: somma del debito pubblico, di quello delle famiglie e di quello delle imprese. Adottando questo criterio paesi a più alta instabilità risultano Usa, Inghilterra, Spagna, Portogallo, paesi dai quali la crisi è nata o che da essa sono stati più pesantemente colpiti e che, tuttavia, con i criteri dell’ancora vigente “ patto di stabilità” europeo, parametrato solo sul debito pubblico, risultano tra i paesi più stabili in quanto caratterizzati da un debito pubblico inferiore alla media anche se afflitti da un enorme debito privato. La prima conclusione dovrebbe essere che è necessario cambiare il “ patto di stabilità” parametrandolo non al solo debito pubblico, ma al debito totale, al tasso di risparmio, alla situazione della bilancia dei pagamenti . Qui ciò che stupisce è che da parte italiana, neanche da sinistra è mai venuta una proposta a cambiare il patto di stabilità in tale direzione.
Il livello del debito totale è comunque enorme, secondo i dati citati va da un massimo di circa quattro volte il Pil negli Usa ad un minimo, si fa per dire, di circa due volte per il paesi più virtuosi, Finlandia e Germania. Si tratta di un record storico. Riferendosi a questa realtà, l’introduzione di un rapporto speciale sul debito pubblicato in The Economist del 26/6/10 così conclude: “Questo rapporto speciale sosterrà che, per il mondo sviluppato, il modello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite. La maggior parte delle opzioni per fare i conti con l’eccesso di debito sono impalatabili. Come è già stato visto in Grecia ed in Irlanda, ciascun governo dovrà trovare la propria via per ridurre il peso. La battaglia tra i debitori ed i creditori può essere lo scontro determinante della prossima generazione”.
Se ci si chiede in che direzione sono andate finora le scelte fatte non ci sino dubbi: a favore dei creditori, cioè dei più ricchi. Quando si sostiene che le banche non possono fallire e vengono salvate con denaro pubblico, che Stati come la Grecia non possono ristrutturare il loro debito per non causare perdite alle banche ed ai ai risparmiatori e vanno salvati con denaro pubblico, che il tasso di inflazione accettabile non può essere elevato, anche se ciò viene ora proposto perfino dal direttore del dipartimento economico del Fmi con altri economisti, si sta scegliendo di onorare fino in fondo il debito accumulato anche se i crediti corrispondenti sono il frutto di un meccanismo distorto ed anche di comportamenti speculativi. Allora l’austerità può apparire una scelta inevitabile dalla quale saranno colpiti non solo i debitori, ma anche i contribuenti che sono chiamati a pagare il conto ed i giovani che lo pagheranno per molti anni futuri.
In pratica pagherà la società nel suo complesso, visto che l’esperienza ci dice che situazioni di eccesso di indebitamento possono portare a lunghe fasi di depressione o stagnazione necessarie per smaltire il debito. Già negli anni ’30 il più grande economista statunitense dell’epoca, Irving Fisher, spiegò la grande depressione con la “ debt deflation theory”, come deflazione causata dall’eccesso di debito. Da quella situazione gli Usa e gli altri paesi industrializzati uscirono solo in seguito all’impetuoso sviluppo e soprattutto alla forte inflazione successivi alla seconda guerra mondiale. L’inflazione allora colpì i risparmiatori, ma aiutò le giovani generazioni impegnate a ricostruire i propri paesi.
Anche su un tema come questo bisognerebbe riflettere se si vuole aprire la strada ad un nuovo modello di sviluppo.
http://www.sinistrainrete.info/politica ... -di-hoover
---
La Cina ora scappa dai titoli Usa, Geithner pessimista
di Francesco Piccioni
Era nominata sottovoce, evocata con il timore reverenziale che si deve provare davanti a una «bomba atomica». Ora la miccia è stata accesa. Il flusso di capitali verso gli Stati Uniti è drasticamente calato nel mese di aprile, segnando un saldo positivo di appena 11,2 miliardi di dollari. Un'inezia, per un paese abituato da anni a vedere affluire mensilmente tra i 50 e i 70 miliardi di capitali freschi, orientati verso i «super.sicuri» titoli di stato a lungo termine o verso il più rischioso mercato azionario (Wall Street). Solo a marzo erano entrati 55,4 miliardi in più di quanti ne erano usciti.
Stavolta i titoli del tesoro detenuti da investitori internazionali sono diminuiti di 44,5 miliardi di dollari. E per la prima volta sono diminuiti quelli in possesso della Cina, ormai il primo creditore degli Usa. E solo pochi giorni fa Pechino aveva chiesto al governo Usa di «garantire la sicurezza degli investimenti cinesi» in America. Si tratta della prima manifestazione concreta di un'intenzione che - insieme a Russia, Giappone, Brasile, India - era già stata espressa in modo chiaro: «differenziare gli investimenti» e cercare un'alternativa al dollaro come moneta di riserva globale. Ma anche Russia e Giappone hanno agito, in aprile, nello stesso modo, sia pure su cifre minori. La Cina, del resto, deve fare i conti con una sistematica riduzione degli investimenti esteri sul proprio territorio (-17,8% rispetto al 2008), che la costringono a far rientrare quel che serve per alimentare una crescita tuttora fortissima (intorno all'8% annuo).
Questa fuga, per gli Usa, è però di eccezionale gravità: dall'acquisto di titoli di stato dipende infatti la possibilità di rifinanziare il crescente debito pubblico, stressato dalla necessità di intervenire per salvare le banche «troppo grandi per fallire». L'affidabilità di questo debito, già dubbia, potrebbe a questo punto essere messa seriamente in discussione dalle società di rating, costringendo il tesoro usa a offrire rendimenti ancora più alti (e più costosi per le casse pubbliche).
Lo stesso segretario al Tesoro, Tim Geithner, è apparso ieri molto preoccupato sugli sviluppi futuri dell'economia Usa. «Siamo di fronte a sfide enormi», «c'è ancora parecchia strada da fare», «è ancora troppo presto per parlare di uscita dalla crisi», e «la disoccupazione potrebbe aumentare anche in presenza di una ripresa, che probabilmente sarà più lenta di quanto ci si aspetti». E questo anche se «ora i rischi di aggravamento sono più bassi», dopo gli interventi di sostegno. E' vero che il Fondo monetario internazionale ha rivisto per la prima volta, dopo mesi, al rialzo le stime sull'andamento Usa: -2,5% quest'anno (prima era previsto -2,8) e +0,7 nel 2010 (prima si pensava a 0). Ma questo segnale di speranza di è scontrato con l'indice manifatturiero Empire State, calato a -9,1, mentre ci si attendeva che restasse intorno a un comunque negativo -4,5.
Dall'Europa, contemporaneamente, è arrivato l'allarme della Bce sulle svalutazioni che le banche dovranno ancora effettuare a causa dei «titoli tossici» rimasti nei loro bilanci: 283 miliardi di euro, che si andranno ad aggiungere ai 366 già registrati dall'inizio della crisi finanziaria. Le borse mondiali, che da tre mesi crescevano in attesa miracolistica della «ripresa», non l'hanno presa affatto bene: hanno perso tutte mediamente il 3%.
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mo ... pessimista