Qualche giorno fa è comparso sull’Unità un bel commento di Marco Simoni sulla crescita della diseguaglianza in alcuni paesi occidentali.
“La legittimità delle nostre democrazie non si è mai poggiata solamente sul dato procedurale, sul diritto di voto e sul rispetto della legalità, ma è sempre stata sostenuta anche da risultati considerati, certo migliorabili, ma nel complesso equi. Quanta disuguaglianza sia tollerabile dalle nostre democrazie è una domanda a cui è preferibile non cercare una risposta empirica” dice Simoni.
In effetti, una delle conseguenze ineliminabili della democrazia dovrebbe essere il benessere diffuso.
Quand’è che si rompe il patto sociale? Quando il tacito accordo per cui tutti possono aspirare a migliorare la propria condizione viene meno, e una larga maggioranza si vede privata dei benefici prodotti da quel sistema sociale, anzi è ridotta a fare da stampella ai benefici della minoranza, quasi un elemento necessario di debolezza per sostenere la forza di pochi privilegiati.
Basti pensare all’estrema mossa finanziaria della crisi: immettere i debiti dei poveri nel circuito borsistico, monetizzando per sé la disperazione degli altri.
Se la democrazia non produce mobilità sociale e redistribuzione del reddito non è più che un vuoto formalismo, con regole inadeguate per il bene comune.
Troppe volte si è sentito difendere le ragioni dell’impresa, come se l’impresa fosse di per sé stessa al servizio della comunità. L’impresa salvaguarda il profitto del capitale, cercando anche di ridurre il reddito del lavoro, in quanto costo di produzione. E’ una logica legittima, ma non è al servizio della comunità, che pure costituisce il sistema di mercato in cui quell’impresa opera, un sistema sociale che le mette a disposizione infrastrutture, regole, sicurezza.
Il patto sociale che scaturisce da istituzioni politiche democratiche dovrebbe riequilibrare il brutale rapporto di forza che si instaura nel processo di produzione della ricchezza, cercando di limitare la crescita esponenziale di potere in capo a un unico attore. Quindi, leggi antitrust, garanzie sindacali, regole trasparenti su credito e finanza, ecc. ecc.
Se la disuguaglianza aumenta invece che diminuire significa che le stesse istituzioni fanno acqua, la democrazia è a rischio esattamente come i posti di lavoro scomparsi alla Eutelia, un’impresa nata per moltiplicare profitti e non per produrre ricchezza. La ricchezza è comunitaria, il profitto è particolare. Questa è una distinzione che pochi paiono cogliere quando chiedono di tutelare le imprese, la cui produzione di ricchezza passa per il lavoro e il capitale, e sono utili alla comunità solo quando garantiscono entrambi i fattori della produzione e non solo uno.
Garantire i redditi da lavoro è importante quanto garantire i profitti, perché solo queste garanzie congiunte sostengono un patto sociale democratico. L’odierno tasso di redistribuzione è tanto pericolosamente squilibrato da rivelare già una penosa maschera democratica di molti stati occidentali.
Diritti attenuati, società pietrificate, depressioni economiche, affabulazioni mediatiche di una realtà scollata sono solo il ricordo di una democrazia compiuta.
In quanto ai politici e agli intellettuali, si fa presto a capire da che parte stanno. C’è chi teorizza addirittura che la disuguaglianza è nell’ordine delle cose o è la volontà di Dio o che è il risultato delle diverse abilità. Ma per favore, se il mio stipendio è indecente dipende da tutto quello che mi sta intorno, e non dalle mie capacità.
Soniadf