PIERO OSTELLINO
Ogni volta che accade un caso di violenza, l'Italia mostra di sé un'immagine «virtuale». Quella di un Paese unito nella commozione, che si rifugia nei rituali convenzionali. Politici, intellettuali, media condannano - con qualche (scandalosa ?) eccezione - la violenza; le istituzioni fanno pervenire la loro solidarietà alla vittima; il presidente della Repubblica invita a «abbassare i toni» e Tv e giornali si accodano. Poi, tutto resta come prima.
Ma oltre all'Italia «virtuale» c'è un'Italia «reale» di cui nessuna parla. Per conformismo, per paura di provocare ulteriori tensioni, per cinismo e disinteresse. Nella «pancia» del Paese c'è una forte minoranza - militante, rumorosa, violenta - che esercita una costante aggressione politica del suo prossimo, attraverso la sua sistematica diffamazione, e ne persegue l'eliminazione, se non fisica, morale, solo perché non la pensa allo stesso modo.
Che siano in molti a pensarla come me lo posso testimoniare con una recente esperienza personale. Ho partecipato a un Convegno dove socialisti e post-comunisti discutevano di prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. I socialisti, rinfacciando ai post-comunisti di essere rimasti ancorati fino all'ultimo al mito del comunismo e dell'Unione Sovietica; il rappresentante dei postcomunisti, difendendosi come poteva dall'accusa. Quando è stato il mio turno ho detto quanto fosse ridicolo per me che la sinistra italiana continuasse a fare i conti col comunismo quando il Paese non ha ancora fatto quelli con lo spirito di tolleranza volterriano: non condivido quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu lo possa dire. A scanso di equivoci, ho precisato che non stavo parlando di Berlusconi, e di quanto gli era accaduto solo due giorni prima, ma di quello che accade a me e a molti altri, magari anche a qualcuno di loro.
Chiarisco. Con gli inviti presidenziali ad «abbassare i toni» - che tutti riprendono meccanicamente - si è finito con accreditare l'idea che questa «guerra civile strisciante» sia conseguenza della polarizzazione centrodestra-centrosinistra, per cui basterebbe «abbassare i toni» e tutto si risolverebbe. Non è così. Non è la politica che provoca il clima di intolleranza, bensì è la «pancia del Paese», che è rimasta fascista o, se si preferisce, leninista, a influenzare la politica. La quale politica - nella migliore delle ipotesi - ne è subalterna: per intenderci, tutti quelli che invocano di «abbassare i toni», nella peggiore, lo interpreta: per intenderci, Antonio Di Pietro, Rosy Bindi e qualcun altro. Non è neppure del tut to vero che ad alimentare questo clima siano le molte trasmissioni televisive anti-belusconiane, i media «militarizzati» di entrambe le parti e via elencando. Al contrario, al pari di Di Pietro e della Bindi, sono certi giornalisti spregiudicati che interpretano l'animo profondo del Paese e su di esso hanno costruito le loro fortune professionali, chiamandole libertà di parola e di informazione, democrazia. Ma quale libertà di informazione, quale democrazia, «mi faccia il piacere», direbbe Totò.
Apro la parentesi su di me. Tempo fa, un piccolo squadrista mi diffama scrivendo puramente e semplicemente una falsità. Mando una lettera di «precisazione» - neppure di smentita; basta consultare i dati e si vede che quello che ha detto è falso - e il giornale che ha pubblicato la falsità pubblica anche la mia lettera. Per me l'incidente è chiuso. Non parliamone più. Passano pochi mesi e il piccolo squadrista che fa ? Riscrive esattamente la stessa falsità. Potrei querelarlo e se insiste lo farò. Ma lascio perdere. De minimis non curat praetor. È un piccolo episodio, non sono importante come il presidente del Consiglio, tanto meno l'offesa che mi è stata fatta è paragonabile alla sua. Ma è significativo. «Diffamate, diffamate, diceva ancora Voltaire, qualcosa resterà». Oppure, si trasforma chi non la pensa allo stesso modo in «non persona», come usava in Urss per i dissidenti.
Ciò che mi interessava riferire non erano, però, queste miserie. È che la platea di socialisti e di post-comunisti - tanto lontana da me, liberale - ha applaudito a scena aperta le mie parole; e che, alla fine del mio intervento, uno dei presenti, applaudito dagli altri, ha gridato: «Ostel lino sei un mito». Ora, che uno diventi «un mito» solo perchè scrive (o dice) quello che pensa, e in modo non convenzionale e conformista, la dice lunga sullo stato d'animo di molti italiani per bene del fatto che il clima di intimidazione e di conformismo ha portano uno squilibrato a spaccare la faccia al capo del Governo con una riproduzione del Duomo di Milano.
La cultura e la politica dominanti nel dopoguerra hanno creduto che l'Italia sarebbe entrata nella Modernità, e diventata un Paese tollerante, di democrazia liberale, attraverso la retorica auto-consolatoria dell'antifascismo. Gli italiani sarebbero diventati tutti liberali perché erano diventati tutti antifascisti. Ma l'antifascismo - così come l'anticomunismo - non è in sé una professione di libertà; è solo l'opposizione a una dittatura, che non implica necessariamente un'adesione alla libertà: i comunisti erano antifascisti, ma non erano liberali; i fascisti erano anticomunisti, ma non lo erano neppure loro.
È mancata in Italia una politica di educazione, liberale e democratica, alla tolleranza per le idee degli altri e, dopo Tangentopoli e Mani pulite, si è perpetrato lo stesso equivoco. Gli italiani sarebbero diventati tutti democratici e liberali perché la magistratura aveva messo (giustamente) in galera qualche disonesto. Come non bastasse, l'incarnazione di questo errore di prospettiva è un signore - Antonio Di Pietro che assomiglia più a un demagogo sudamericano, aspirante alla dittatura, che al capo di un partito (l'Italia dei Valori) presente nel Parlamento di un Paese di democrazia liberale. Ma è, non a caso, proprio Di Pietro che mostra di interpretare meglio di altri il momento che attraversa l'Italia.
Esattamente come aveva fatto Benito Mussolini nel 1922. Intendiamoci, non siamo nel '22 e Di Pietro non è Mussolini: anche nel peggiore dei mali c'è una graduatoria di grandezza. Ma nella «pancia del Paese» sono rimaste le scorie dell'intolleranza e di quella stessa violenza. E la situazione pare riproporne lo schema. C'è un demagogo, Di Pietro, che interpreta, solletica e lusinga i peggiori istinti. C'è infine una classe politica, incolta, confusa, spaventata, che non sa che fare e strizza l'occhio al demagogo, finendo col diventare succuba e subalterna del momento.
Che cosa si dovrebbe fare, allora ? La politica dovrebbe recuperare la propria autonomia morale, rivolgendosi alla parte migliore del Paese e fare quell'opera di vera pedagogia democratica e liberale che non ha fatto. I media, e gli italiani per bene, dovrebbero mostrarsi intolleranti con gli intolleranti, come già predicava John Locke alla fine del Seicento in Inghilterra, isolandoli, non dando loro spazio e tanto meno corda.
E invece che accadrà? Temo che - una volta che Berlusconi, vuoi per ragioni di età, vuoi per ragioni politiche, se ne sarà andato e si «abbasseranno i toni» - il sistema di bipolarismo polarizzato, (destra e sinistra a confronto, governa chi vince le elezioni) si dissolverà e nasceranno coalizioni di Governo più o meno ampie, anche se disomogenee, d'accordo solo sull'aumento della spesa pubblica, sui sussidi all'establishment industriale e finanziario per esserne legittimate, su più tasse a chi già le paga, su una sempre più accentuata dittatura delle Procure (delle quali la politica sarà dipendente). Queste coalizioni governeranno «una palude»: il conformismo generalizzato dei media, l'agonia civile, oltre che economica, del Paese. Senza neppure cambiare la Costituzione, l'Italia sarà un Paese meno libero.
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“Il segreto della FELICITÀ è la LIBERTÀ. E il segreto della Libertà è il CORAGGIO” (Tucidide, V secolo a.C. )
“Freedom must be armed better than tyranny” (Zelenskyy)