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IL CODICE DELLE AUTONOMIE SALVA LE PROVINCE
di Gilberto Muraro 04.12.2009
Il disegno di legge sugli enti locali, il cosiddetto Codice delle autonomie, mantiene le province. Promette di ridurne il numero e di irrobustirle mediante l'assegnazione a esse di una parte significativa delle competenze degli enti locali intermedi che vengono invece aboliti. Non è la riforma ideale, ma promette un deciso miglioramento nella struttura e nel funzionamento dell'apparato pubblico.
Nostra elaborazione
Compiti meglio definiti, enti intermedi eliminati, strutture residue alleggerite, procedure semplificate, norme nuove sui dirigenti e sui controlli, patto di stabilità ridefinito, struttura degli uffici periferici dello Stato ridisegnata per coerenza: il cosiddetto Codice delle autonomie, ossia il disegno di legge sugli enti locali varato dal Consiglio dei ministri il 15 novembre e ora all’esame del Parlamento, promette riforme incisive. Alcune sono già configurate nella norma, altre da definire con successivi decreti delegati. Ci si limita qui a considerare la “geografia delle istituzioni”.
RESTANO LE PROVINCE
È in questo ambito la decisione più importante e controversa: mantenere le province, ma inserendo l’indirizzo della dimensione adeguata, in aggiunta al passaggio alla città metropolitana quando previsto, e inoltre irrobustendole con il trasferimento di parte dei compiti appartenenti ai molti enti intermedi, che il disegno di legge cancella. Si sa che la provincia è uno dei massimi tormentoni della scena politica italiana: tranne la Lega, tutti sono contrari, però il numero delle province è andato aumentando negli ultimi anni. Segno che è valida la teoria delle scelte pubbliche nelle democrazie rappresentative, all’insegna dello scambio di voti su decisioni particolari che stravolge i disegni generali impliciti nelle vere preferenze individuali.
In altro contesto di rapporti tra maggioranza e opposizione, si sarebbe affrontato preliminarmente e velocemente il nodo costituzionaledell’esistenza o meno della provincia. A livello di legge ordinaria, quindi con le province ineliminabili, la scelta fatta è la più convincente. In aula si potrà forse dare più forza all’obiettivo dell’accorpamento. Una volta assimilato il principio che non ci saranno altre province, scompare lo scambio di voti su promesse future e rimane possibile solo l’accordo tra parlamentari minacciati della scomparsa della piccola provincia propria: un potenziale accordo ancora vasto, ma forse non invincibile. Sarebbe anche auspicabile la trasformazione della provincia in organo di secondo grado, ossia con organi eletti dai pertinenti consigli comunali. Ma, a parte la controversia sulla legittimità di tale trasformazione a Costituzione invariata, è davvero improbabile che la casta autolimiti ulteriormente la disponibilità di posti elettivi, che il disegno di legge già riduce attraverso un deciso smagrimento dei consigli e delle giunte comunali e provinciali e la soppressione dei consigli di quartiere nei comuni con meno di 250mila abitanti.
FINE DEGLI ENTI INTERMEDI
E l’abolizione degli enti intermedi? Comunità montane, comunità isolane, consorzi tra enti locali per l’esercizio di funzioni, inclusi i bacini imbriferi montani: con poche eccezioni, tutti a casa; e passaggio delle loro competenze, secondo il criterio della sussidiarietà, a comuni, province e regioni. Ovvia reazione alla moltiplicazione di entie poltrone. Ma non c’è il timore di buttar via il bambino con l’acqua sporca? Non sarebbe meglio mantenere o sciogliere a seconda dei casi? Tanto più che la teoria prospetta pro e contro da soppesare attentamente nella scelta tra enti intermedi specialistici – i consorzi di funzioni – ed enti territoriali plurifunzionali. I primi promettono in astratto maggiore efficienza, potendo ritagliare confini e organi su misura; i secondi risparmiano sui costi amministrativi e sviluppano il senso di appartenenza comunitaria. Ciò spiega perché il tema risulti soggetto nel tempo al pendolo degli umori collettivi. Nella prima metà degli anni Settanta, si era diffusa la “comprensorio-mania” a livello sub provinciale, poi annullata da una ritorno alla moda dei consorzi. Adesso, la rinnovata spinta alla multifunzionalità, con una mossa drastica che può essere decisiva perché ancorata agli enti territoriali costituzionali. È la scelta ottimale? Probabilmente no, in astratto. Ma la storia italiana, tutta all’insegna di vincoli sempre più allentati e di enti obsoleti ma persistenti, obbliga a non illudersi sulla capacità di ottimizzare la struttura del nostro settore pubblico e di resistere alle spinte degenerative. Se viene inserito nell’analisi questo fattore genetico di una spiccata propensione all’entropia, forse è davvero la scelta ottimale. E in ogni caso, è senz’altro meglio dell’esistente.