da ranvit il 04/12/2009, 11:42
Credo che questo articolo letto su Nuvole.it s'incastra bene in queste riflessioni :
I^ PARTE
Il ritorno della plutocrazia*
di Enrico Melchionda
Ormai sono in pochi a negare che i regimi democratici stiano attraversando una crisi senza precedenti, o siano quanto meno esposti a sfide assai ardue da superare. Naturalmente, si tratta di sfide e problemi ben diversi da quelli che nella prima metà del Novecento condussero, in determinati paesi, alla tragedia dei fascismi. Questa volta la malattia è diversa, ma non meno grave. Anzi, per certi versi essa appare ancora più insidiosa, se non altro perché si presenta ovunque, fin dentro il cuore di quelli che siamo abituati a considerare i baluardi del mondo sviluppato e della cultura liberaldemocratica, gli stessi che seppero fronteggiare sia la sfida della democratizzazione rivolta ai regimi liberali "monoclasse", e resistere così alla reazione fascista, sia la sfida comunista, a cui risposero con la dichiarazione della guerra fredda e con l’istituzione dei moderni sistemi di welfare state.
Oggi le sfide con cui si devono confrontare le liberaldemocrazie sono altre: la globalizzazione che svuota le vecchie sovranità nazionali e rende difficile il controllo delle élite, il multiculturalismo che minaccia le omogeneità identitarie delle popolazioni, le comunicazioni di massa che stravolgono la partecipazione e l’informazione politica dei cittadini, il fondamentalismo e il terrorismo internazionale che rovesciano sulle comunità politiche occidentali e sui loro equilibri istituzionali tutta la rabbia e la disperazione accumulata dai popoli dominati. Sfide che si presentano, inoltre, in un contesto in cui non c’è più l’antagonista sovietico a fare da contraltare e da stimolo per gli stati capitalistici sviluppati, favorendo una qualche armonizzazione degli interessi in campo internazionale come all’interno delle singole società nazionali.
Tra le varie modalità con cui queste sfide si presentano politicamente, ve ne sono alcune che destano particolare preoccupazione. L’attenzione degli studiosi si è per lo più rivolta, negli ultimi anni, ai fenomeni del populismo, o del direttismo, e dell’antipolitica, che convergono nel minare gli aspetti rappresentativi e liberali dei regimi democratici. Ritornano qui le tematiche evocate a suo tempo da Tocqueville e dai padri del liberalismo, quando parlavano del rischio della “tirannia della maggioranza” e della necessità di limitarne il potere. Una chiave di lettura che viene riproposta oggi, alla luce delle nuove tendenze plebiscitarie e delle manipolazioni dell’opinione pubblica favorite dalla crisi delle strutture di rappresentanza e dall’amplificazione del potere mediatico, e che coglie indubbiamente processi reali. Ma c’è un’altra chiave di lettura che comincia a farsi strada e che, pur non essendo in contrasto con quella dominante, delinea una spiegazione diversa, quanto ad approccio e implicazioni, della crisi della democrazia. Mi riferisco alla problematica della plutocrazia.
Il concetto di plutocrazia ha una storia che andrebbe ripercorsa attentamente, perché mai come in questo caso si metterebbe in luce il legame di continuità che può esistere tra parole, nozioni e realtà. Non è questa la sede per farlo, ma può essere utile richiamarne almeno qualche passaggio. Cominciando dall’origine del concetto, che di solito si fa risalire – come per i più importanti concetti politici – all’antichità, forse a causa della sua etimologia inequivocabile (dal greco ploutokratía, composto di plôutos "ricchezza" e -kratía "potere"), ma che in realtà fu usato assai raramente in quell’epoca e comunque mai in maniera sistematica e teoricamente perspicua. Infatti il termine si è diffuso solo in epoca moderna, e in ambito anglosassone, trovando una naturale collocazione negli Stati Uniti dal XIX secolo in poi. Furono i movimenti populista e progressista di fine Ottocento, in particolare, ad adottare con insistenza e a diffondere ampiamente la critica della plutocrazia, che ritenevano dominasse la scena politica americana attraverso una forte collusione tra politici di partito e uomini d’affari. Una critica che, pur ottenendo scarsi risultati pratici, se non quelli di una certa moralizzazione e di un drastico (e definitivo) indebolimento dei partiti, sedimentò tuttavia un sentimento durevole, anche se quasi sempre marginale, e soprattutto una ben definita immagine della politica americana che ha resistito sino ad oggi.
E’ dagli Stati Uniti che il concetto di plutocrazia arrivò, per una breve e incerta vita, nel continente europeo. Esso, ostacolato dal radicamento delle teorie marxiste, che davano conto a loro modo del fondamento economico del potere politico, ebbe in Europa minore fortuna. Solo nei primi decenni del Novecento andò diffondendosi, per merito degli studiosi élitisti e realisti (ivi compresi Weber e Gramsci), specialmente ad opera dell’ultimo Pareto, secondo il quale “Il reggimento dei popoli occidentali, che si dice democratico, è in realtà quello di una plutocrazia democratica, che inclina ora alla plutocrazia demagogica” (il passo è del 1920, ma il concetto fu ulteriormente sviluppato nel suo Trasformazione della democrazia). Com’è noto, il termine finì poi per essere incorporato, e in definitiva bruciato, dal fascismo e dal nazismo. Nella loro ideologia, a parte le qualificazioni anti-semite, la plutocrazia era identificata con le liberaldemocrazie, soprattutto con il modello americano, e affiancata al bolscevismo in un dualismo che talora veniva fatto risalire alla stessa matrice “giudaica”, ma che in ogni caso voleva accreditare l’immagine del fascismo come terza via propriamente “europea”.
Non meraviglia, quindi, che dopo la guerra e l’affermazione dell’egemonia americana in Europa la parola stessa diventasse un tabù. Bisognerà aspettare gli effetti dell’ondata di mobilitazione degli anni sessanta per ritrovarne traccia nel discorso politico e politologico. Il tentativo più serio, da questo punto di vista, verrà fatto dal pioniere della nuova scienza politica europea, Maurice Duverger, che nel suo libro più anomalo (Janus, les deux faces de l’Occident, 1972) criticava, da una posizione radicale ma non marxista, i regimi liberaldemocratici, definiti come “plutodemocrazie”. In questo modo, lo studioso francese andava a ricongiungersi con un filone politico-sociologico che già da qualche tempo aveva rimesso in campo un tentativo analogo negli Stati Uniti. Mi riferisco alla scuola cosiddetta neo-élitista, il cui “manifesto” può essere considerato The Power Elite di Wright Mills, ma che si dispiegava in una serie di ricerche diverse (vi possiamo far rientrare anche studiosi come Schattschneider e Lowi), la cui linea comune stava nella critica dell’ideologia pluralista, considerata puramente apologetica, e nella risposta alla domanda Who Rules America?, che dà il titolo a due bei libri di G. William Dohmoff e più o meno esplicitamente è: la plutocrazia.
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.