MARCELLO SORGI
IL MALE MINORE TRA DUE VIE D'USCITA
No, non è un normale intervento da arbitro, quello di ieri del Quirinale. Se il Presidente della Repubblica ha ritenuto di mettere nero su bianco i rischi dello scontro istituzionale tra governo e magistratura, vuol dire che la situazione è ormai al limite. E non solo perché per tutto il giorno, oltre ad alcune dubbiose anticipazioni di stampa, son continuate a circolare voci (smentite solo in serata da Palazzo Chigi) su un avviso di garanzia per Berlusconi, da parte delle procure che indagano sugli attentati mafiosi del 1993. Piuttosto, Napolitano deve essersi convinto che in entrambe le trincee - giudiziaria e politica - la fase dell’ammasso delle munizioni era conclusa, e ci si preparava a far fuoco.
Ora, che a questo stiano pensando i magistrati, non è dato sapere con certezza.
Ma un certo lavorio, dal momento in cui la Corte Costituzionale ha tolto a Berlusconi la protezione del lodo Alfano, è evidente.
Cosa invece sia avvenuto nel campo di Berlusconi, è fin troppo chiaro. Nel giro di pochi giorni, Berlusconi ha ribaltato il quadro che lo vedeva assediato, isolato e inerte. La novità è che lo ha fatto, diversamente da quanto tutti - amici e nemici - si aspettavano, non ribaltando il tavolo, sollevando il popolo del centrodestra, o facendo un’altra mossa a sorpresa, come fu due anni fa il famoso salto sul predellino della Mercedes a Piazza San Babila.
Al contrario, il premier s’è mosso esclusivamente sul terreno della politica, con una serie di passi cadenzati. Primo, lo studiato e paziente silenzio con cui s’è lasciato trafiggere per giorni e giorni da Fini, anche dopo aver stipulato con lui un sofferto accordo sul «processo breve», che il presidente della Camera aveva subito rimesso in discussione. Secondo, la verifica dell’alleanza con Bossi, rinsaldata oltre ogni livello di sicurezza, con la concessione della doppia candidatura alla guida di Piemonte e Veneto. Terzo, l’oneroso armistizio con Tremonti, la cui linea economica di rigore e di chiusura a ogni ipotesi di taglio delle tasse (comprese quelle dello stesso premier), e a ogni richiesta sulle dotazioni dei ministeri, è passata, con l’avallo di Berlusconi, praticamente senza eccezioni. Quarto, una volta chiusi gli steccati, stavolta prima che i buoi si dessero alla fuga, la resa dei conti interna nel Pdl.
Siamo appunto all’ormai famoso pomeriggio di giovedì, in cui il Cavaliere, al cospetto del gruppo dirigente del Popolo della Libertà, traccia una linea netta sul tavolo, per stabilire chi è dentro e chi fuori dal partito. Di riunioni così, tanto per essere chiari, non se ne vedevano dai tempi della Prima Repubblica, quando appunto i leader dei partiti di governo, messi in difficoltà dalle correnti, gettavano in campo tutto il loro peso, per misurarsi con i contestatori interni.
Così, quando Berlusconi ha messo in votazione tutti i temi più controversi, compresi quelli avanzati quotidianamente da Fini e dalla sua pattuglia di dissidenti - dal processo breve alla giustizia all’immigrazione -, e quando, alla fine dei conteggi, il suo ruolo di leader è uscito confermato da un fortissimo consenso interno, tutti i presenti hanno cominciato a chiedersi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
La strategia berlusconiana prevede due possibilità. Se le procure dovessero veramente inquisire il premier per mafia, sulla base delle accuse dei pentiti, la reazione del centrodestra sarà durissima. Il Cavaliere non lo ha detto a voce alta, per evitare che finisse sui giornali, ma la risposta potrebbe perfino arrivare a dimissioni in massa di tutti i parlamentari di maggioranza, per far sciogliere il Parlamento e arrivare a nuove elezioni politiche. Elezioni a cui si andrebbe in uno scenario da scontro istituzionale e sull’onda di una campagna in cui Berlusconi chiederebbe voti contro la magistratura che ha attaccato il governo che gode dell’appoggio della maggioranza degli elettori.
Se invece i pm scelgono di frenare, magari solo per cercare testimonianze più convincenti di quelle emerse fin qui, il premier chiamerà la sua maggioranza in Parlamento ad approvare a passo di carica, prima il processo breve, poi la riproposizione del lodo Alfano sotto forma di legge costituzionale. Anche in questo caso l’eco di questa campagna, stavolta solo parlamentare, è destinata a ripercuotersi nella corsa per le Regionali. Che in prospettiva, sondaggi alla mano, e grazie anche al riavvicinamento con Casini, il Cavaliere vede abbastanza in discesa. Delle Regioni in mano al centrosinistra, infatti, le due del Nord, Piemonte e Liguria, stando al voto delle Europee, potrebbero passare al centrodestra. Nel Lazio, dove ancora pesa lo scandalo Marrazzo, le possibilità di accordo tra Udc e Pd sono ridotte al lumicino. In più, mentre il Pdl ha in Renata Polverini una candidata forte alla carica di governatore, il centrosinistra non ha ancora fatto la sua scelta. In Puglia, le divisioni tra l’attuale governatore Vendola e il suo aspirante successore Emiliano, spingono a favore del centrodestra. E anche la Campania è incerta: ma se il Pdl piange con Cosentino, il Pd, dopo l’era Bassolino, ha ben poco da festeggiare.
Delle due strade - lo scioglimento semirivoluzionario delle Camere, con le dimissioni di massa dei parlamentari, o il proseguimento, pur tormentato, della legislatura, in cui tuttavia le Regionali rappresenterebbero l’ultimo appuntamento elettorale previsto - è evidente che il Quirinale considera la seconda il male minore. Ed è proprio per scongiurare la prima, che ieri Napolitano è entrato in scena. Il suo messaggio era rivolto al premier, per cercare di tenerlo a freno. Ai giudici, perché si tolgano dalla testa di buttare giù il governo con un avviso di garanzia. Ma sotto sotto, anche all’opposizione, che in una situazione tragica come questa non ha ancora deciso quale ruolo giocare.
lastampa.it, 28/11/2009