19/08/2009
Chiudi
ilmattino.it :
Nicola De Blasi
Tra proclami e parziali smentite molto è stato detto sui dialetti. Non è ben chiaro l'obiettivo di tanti discorsi, ma sembra ancora valido questo avvertimento di Antonio Gramsci: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi». Vale a dire che forse il dialetto non è davvero il problema cruciale, ma è il caso di svolgere qualche riflessione alla luce della nostra storia linguistica. Il 9 agosto abbiamo letto che il senatore Bossi ha parlato di «carcerazione dei nostri dialetti imposta da Roma ladrona» (e «padrona») e di una «legge per la salvaguardia dei nostri dialetti che dovranno essere insegnati anche nelle scuole». Quale idea della storia linguistica è veicolata da queste frasi?
Esse alluderebbero a un'imposizione dell'italiano attraverso una coercizione; ma quando Roma, nel 1870, è stata unita all'Italia, l'italiano era già da circa due secoli la lingua studiata nelle scuole, dove col tempo aveva sottratto spazio non ai dialetti, ma al latino, perché gli italiani cercavano liberamente una lingua comune di cultura. Questa lingua uguale per tutti, dopo l'Unità, è stata insegnata a tutti gli scolari come una specie di provvidenziale dono della storia. L'italiano non è stato mai diffuso con ferrei ordinamenti legislativi (che ora si invocano per i dialetti) e l'apprendimento dell'italiano a scuola non ha mai indotto gli alunni ad abbandonare definitivamente il dialetto nella comunicazione quotidiana. Se ciò è avvenuto è stato per altri motivi. Allo stesso modo chi va in piscina impara a nuotare, ma continua a camminare. Oggi i dialetti sono parlati meno che in passato perché molte cose sono cambiate. Pensiamo solo che nel 1951 lavorava nell'agricoltura il 42% della popolazione, mentre nel 2007 gli agricoltori erano il 4,3%, cioè la decima parte. Se la realtà cambia non è con le leggi che si proteggono i dialetti, anche perché da tempo, almeno dai programmi del 1979, c'è spazio nella scuola per la valorizzazione dei dialetti e per il confronto con l'italiano, in vista di una più completa conoscenza della realtà linguistica. Perché proporre nuove leggi e semmai appositi finanziamenti, per di più in una scuola dove non si sa come pagare i supplenti? Che cosa significherebbe insegnare i dialetti? Si vorrebbe forse fissare in ogni regione la norma di un unico dialetto, laddove in Italia i dialetti sono tantissimi, più di mille, come direbbe Dante? Ciascuno ama il proprio dialetto, anche se poco noto, ma non ha alcun motivo di apprendere per obbligo il dialetto di un'altra zona, solo perché più famoso. Non c'è infatti corrispondenza biunivoca tra regioni e dialetti, perché le regioni esistono come entità amministrative da circa quarant'anni, mentre i dialetti vivono da oltre mille anni e non si sono certo modellati sugli usi degli attuali capoluoghi. Un apparato di leggi, questa volta sì coercitivo, potrebbe solo privilegiare una ventina di idiomi, affossandone tante altre centinaia: davvero un bel risultato in nome della salvaguardia i dialetti!
Nicola De Blasi