L'ANALISI
Il manifesto delle intenzioni
di MASSIMO GIANNINI
"ABBIAMO fatto un miracolo", dice Berlusconi al termine della prima giornata del G8 a L'Aquila. Ma se questo è vero dal punto di vista del format, lo è meno dal punto di vista dei contenuti. Il sedicente "accordo" raggiunto dai Grandi del Pianeta sul rilancio dell'economia e sulla ri-regulation della finanza ruota intorno a un impianto quasi moroteo: "Brevi cenni sull'universo". Un manifesto di intenzioni universalmente condivisibili, perché volutamente generiche. Come da copione.
Nessuno si aspettava nulla, da questo appuntamento mondiale che serviva molto più al capo del governo italiano che a tutti gli altri. E il nulla, puntualmente, è arrivato. Non tanto per l'inefficienza dell'ospitante (l'Italia), quanto per la dissonanza tra gli ospiti (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) e per l'insufficienza dello strumento (il G8). La crescita doveva essere il piatto forte del summit. E il piatto è rimasto sostanzialmente vuoto. Gli Otto (a dispetto del miracolismo berlusconiano) non hanno moltiplicato pani e pesci. Nel documento finale l'analisi della congiuntura resta contraddittoria: ci sono "segnali di stabilizzazione", ma la situazione rimane "incerta" e permangono "rischi significativi per la stabilità economica e finanziaria".
"People first", questo sì. Priorità assoluta alle persone, a chi non ha lavoro, a chi lo ha perso. Ma sono parole. Nei fatti, nessun nuovo "stimolo", nessun altro "Piano Marshall", per sostenere economie da mesi allo stremo. Chi può, farà per conto suo. Qui ha pesato l'ortodossia teutonica di Angela Merkel. La sua Germania, forte di un rimbalzino del 4,4% negli ordinativi dell'industria a maggio, pretendeva un confronto immediato sull'"exit strategy" dalla recessione: basta aiuti governativi e spese pubbliche, che destabilizzano i bilanci e infiammano l'inflazione. La Cancelliera non ha ottenuto il rigore che voleva. Ma ha impedito che gli altri ottenessero il contrario.
La stessa cosa è accaduta nella discussione sul prezzo del petrolio, altro fattore endemico di destabilizzazione, visto che solo nell'ultimo anno ha oscillato tra i 32 e i 147 dollari al barile. Nicholas Sarkozy e Gordon Brown avrebbero voluto che il G8 fissasse un "prezzo giusto" intorno ai 70 dollari, per mettere la speculazione con le spalle al muro. Dmitrij Medvedev si è opposto, in nome di un libero mercato che evidentemente deve valere ovunque, meno che nei confini della madre Russia.
In compenso, i Grandi si batteranno per "sostenere la domanda", per "mantenere aperti i mercati" e per "respingere il protezionismo di ogni genere". Come, lo diranno in un'altra occasione. La stessa cosa vale per gli altri capitoli del pacchetto economico all'ordine del giorno. Due esempi. Il primo è lo scudo fiscale, cui l'Italia stava alacremente lavorando, prima di incappare nello stop nell'Unione europea: canale "utile" per far rientrare i capitali dall'estero. Come attivarlo, lo sapremo solo dopo aver definito "un quadro di discussione tra i Paesi interessati".
Il secondo esempio è la lotta all'evasione: "Non possiamo continuare a tollerare grossi ammontari di capitali nascosti per evadere il fisco", si legge nel documento finale. Dunque, lotta senza quartiere ai paradisi fiscali. Come, lo sapremo quando l'Ocse finirà il suo lavoro sulla black list. Nel frattempo, si procede in ordine sparso. Alcuni Paesi, che fanno più fatti che chiacchiere, hanno già firmato patti bilaterali per la cooperazione fiscale e il superamento del segreto bancario: Francia e Germania hanno fatto accordi con Svizzera, Austria e Lussemburgo. Altri Paesi, che preferiscono le chiacchiere ai fatti, stilano false "liste nere": l'Italia non ha ancora fatto accordi con nessuno.
L'ultimo capitolo, sul quale aveva scommesso tutte le sue carte Giulio Tremonti, riguarda le nuove regole della finanza. Il cosiddetto "Global Legal Standard". Anche qui, al netto della retorica trionfalistica della delegazione italiana, non c'è stata quella "accelerazione enorme" né quel "colpo di manovella" di cui parla il ministro dell'Economia. Né, in tutta onestà, ci poteva essere. C'è il vago impegno degli Otto ad applicare "norme e principi comuni di correttezza, integrità e trasparenza", e a "riformare la regolamentazione finanziaria, stabilendo norme più stringenti tra cui il controllo degli hedge funds e il tetto agli stipendi dei manager". Ma questo è tutto. Le bibliche "dodici tavole" di Giulio non sono diventate legge. Non piacevano né a Obama, né a Brown. Di nuovo, tutto è rinviato all'autunno, e al necessario coinvolgimento del "Financial Stability Board" presieduto da Mario Draghi (volutamente ma inopinatamente tagliato fuori dall'elaborazione del testo tremontiano).
Nel frattempo, ognuno si fa la sua ri-regulation. In America il Segretario al Tesoro Tim Geithner l'ha sottoposta tre settimane fa al Congresso. In Gran Bretagna il Cancelliere dello Scacchiere Alastair Darling l'ha presentata ieri a Westminster. E questo è tutto. Per vedere un po' di arrosto, dietro questo fumo, bisognerà aspettare settembre e il G20 di Pittsburgh.
Ma è un errore aver fatto di questo G8 l'ennesima occasione perduta. I destini dell'economia e della ripresa mondiale, per quanto allargati dalla globalizzazione, si giocano ancora in buona parte nel perimetro del G8. L'anno scorso la somma dei Prodotti lordi degli Otto Grandi ha raggiunto i 22 mila miliardi di dollari, mentre la somma dei Pil degli emergenti (Cina, India, Brasile e Messico) è poco meno di un terzo. Il totale dei consumi privati dei primi ha superato i 14 mila miliardi di dollari, mentre quello totalizzato dai secondi è stato sette volte minore. Il G8 servirebbe ancora. Purché si producesse in un utile conferimento di sovranità nazionali, e non si limitasse a un inutile spargimento di carte intestate.
(9 luglio 2009)
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