Egemonia culturale del Centrodestra?

Da ilmattino.it :
15/03/2009
Mauro Calise
È possibile che Berlusconi ce la faccia a raggiungere la meta simbolica del 51% che si è prefisso per le prossime elezioni. Ma ormai, diciamocelo con franchezza, la maggioranza che guida, per peso e autorevolezza, è già ben oltre questa soglia. In politica, è vero, contano innanzitutto i numeri.
Ma accanto alle cifre è importante, anzi importantissima, anche l’egemonia culturale. La capacità di interpretare e orientare, oltre all’agenda governativa, anche il dibattito pubblico. E qui il centrodestra gioca, già da diversi mesi, a tutto campo. Complice l’impasse strategica in cui l’opposizione si è cacciata con una serie impressionante di errori, di leadership e di posizionamento, le iniziative di maggior respiro hanno tutte per protagonisti i personaggi di maggior calibro del Pdl.
Prendiamo il caso di Fini e Tremonti, sempre più impegnati a contendersi - anche se su terreni diversi - le simpatie del centrosinistra. Con una serie di incursioni esplicite in territori che, fino a ieri, erano dominio riservato della nomenklatura avversaria. Il presidente della Camera ha sancito la sua strabiliante riconversione d’immagine: da ex segretario di un partito fino a quindici anni fa considerato extra-costituzionale a irremovibile guardiano delle regole e dei valori della nostra carta fondamentale. Non esitando a mettersi, a muso duro, di traverso alle ricorrenti tentazioni - finora soprattutto verbali - del Cavaliere di strapazzare alcune norme chiave della Costituzione. A sua volta, Tremonti si è mostrato, negli ultimi mesi, attentissimo interlocutore di posizioni anche distanti dalle sue, interessato soprattutto a ascoltare, dialogare e cercare percorsi inediti per fronteggiare la crisi.
L’idea di affidare ai prefetti compiti di vigilanza sulle banche risulterà certamente impraticabile, ma è il segnale di una volontà di adottare anche scelte eterodosse pur di cambiare quel sistema di intrecci e collusioni economico-finanziarie che ha messo in ginocchio il Paese. Più in generale, pur se con prese di posizione non sempre condivisibili, il ministro del Tesoro ha dimostrato di possedere quella visione e prospettiva d’insieme che erano, fino a poco fa, il monopolio della migliore sinistra riformista. E che oggi il Pd fa fatica a rimettere insieme e in moto. Se a ciò si aggiunge l’onnipresenza mediatica e la spregiudicata abilità tattica di cui il premier continua a dare prova, diventa sempre più chiaro che lo spazio politico - almeno quello che conta - sta diventando monocolore. Non si tratta del solito allarme contro i rischi del partito unico, visto che in Italia di partiti continuano a essercene fin troppi.
E nemmeno è il caso di evocare i fantasmi di un regime monolitico e monocorde. Al contrario. Più diventa evidente la debolezza del centrosinistra, più cresce la sua afasia, più si rafforzano le spinte perché il centrodestra, al proprio interno, si diversifichi e si pluralizzi.
Un po’ come succedeva alla Dc quando, in assenza della prospettiva (o pericolo) di un ricambio alla guida del governo, si divideva in correnti idealmente e culturalmente ben distinte. E così come era di moda, in molti circoli della sinistra durante gli anni sessanta, essere filomorotei o tifare per Donat Cattin, oggi, in molte discussioni, ci si comincia a scoprire più vicini a Fini o a Tremonti. Certo, è presto per dire se si tratta di un fenomeno passeggero, legato alla sbandata micidiale del Pd in quest’ultimo anno di cocenti e ripetute sconfitte. O se invece, dopo una breve parentesi di bipolarismo, ci stiamo di nuovo incamminando verso un sistema politico imperniato su un’unica forza politica quasi monopolistica.
Perché il Pdl si trasformi nella Dc del futuro, occorre ancora il passaggio decisivo di dimostrare di saper fare a meno del proprio padre-padrone. Ma i molti leader che stanno crescendo, al centro come in periferia, dimostrano che quest’impresa non è più una «mission impossible».
Mauro Calise
15/03/2009
Mauro Calise
È possibile che Berlusconi ce la faccia a raggiungere la meta simbolica del 51% che si è prefisso per le prossime elezioni. Ma ormai, diciamocelo con franchezza, la maggioranza che guida, per peso e autorevolezza, è già ben oltre questa soglia. In politica, è vero, contano innanzitutto i numeri.
Ma accanto alle cifre è importante, anzi importantissima, anche l’egemonia culturale. La capacità di interpretare e orientare, oltre all’agenda governativa, anche il dibattito pubblico. E qui il centrodestra gioca, già da diversi mesi, a tutto campo. Complice l’impasse strategica in cui l’opposizione si è cacciata con una serie impressionante di errori, di leadership e di posizionamento, le iniziative di maggior respiro hanno tutte per protagonisti i personaggi di maggior calibro del Pdl.
Prendiamo il caso di Fini e Tremonti, sempre più impegnati a contendersi - anche se su terreni diversi - le simpatie del centrosinistra. Con una serie di incursioni esplicite in territori che, fino a ieri, erano dominio riservato della nomenklatura avversaria. Il presidente della Camera ha sancito la sua strabiliante riconversione d’immagine: da ex segretario di un partito fino a quindici anni fa considerato extra-costituzionale a irremovibile guardiano delle regole e dei valori della nostra carta fondamentale. Non esitando a mettersi, a muso duro, di traverso alle ricorrenti tentazioni - finora soprattutto verbali - del Cavaliere di strapazzare alcune norme chiave della Costituzione. A sua volta, Tremonti si è mostrato, negli ultimi mesi, attentissimo interlocutore di posizioni anche distanti dalle sue, interessato soprattutto a ascoltare, dialogare e cercare percorsi inediti per fronteggiare la crisi.
L’idea di affidare ai prefetti compiti di vigilanza sulle banche risulterà certamente impraticabile, ma è il segnale di una volontà di adottare anche scelte eterodosse pur di cambiare quel sistema di intrecci e collusioni economico-finanziarie che ha messo in ginocchio il Paese. Più in generale, pur se con prese di posizione non sempre condivisibili, il ministro del Tesoro ha dimostrato di possedere quella visione e prospettiva d’insieme che erano, fino a poco fa, il monopolio della migliore sinistra riformista. E che oggi il Pd fa fatica a rimettere insieme e in moto. Se a ciò si aggiunge l’onnipresenza mediatica e la spregiudicata abilità tattica di cui il premier continua a dare prova, diventa sempre più chiaro che lo spazio politico - almeno quello che conta - sta diventando monocolore. Non si tratta del solito allarme contro i rischi del partito unico, visto che in Italia di partiti continuano a essercene fin troppi.
E nemmeno è il caso di evocare i fantasmi di un regime monolitico e monocorde. Al contrario. Più diventa evidente la debolezza del centrosinistra, più cresce la sua afasia, più si rafforzano le spinte perché il centrodestra, al proprio interno, si diversifichi e si pluralizzi.
Un po’ come succedeva alla Dc quando, in assenza della prospettiva (o pericolo) di un ricambio alla guida del governo, si divideva in correnti idealmente e culturalmente ben distinte. E così come era di moda, in molti circoli della sinistra durante gli anni sessanta, essere filomorotei o tifare per Donat Cattin, oggi, in molte discussioni, ci si comincia a scoprire più vicini a Fini o a Tremonti. Certo, è presto per dire se si tratta di un fenomeno passeggero, legato alla sbandata micidiale del Pd in quest’ultimo anno di cocenti e ripetute sconfitte. O se invece, dopo una breve parentesi di bipolarismo, ci stiamo di nuovo incamminando verso un sistema politico imperniato su un’unica forza politica quasi monopolistica.
Perché il Pdl si trasformi nella Dc del futuro, occorre ancora il passaggio decisivo di dimostrare di saper fare a meno del proprio padre-padrone. Ma i molti leader che stanno crescendo, al centro come in periferia, dimostrano che quest’impresa non è più una «mission impossible».
Mauro Calise