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No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda franz il 17/01/2019, 21:02

No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054. Ma finirà l’Italia, se continuate così

Quello della fine del lavoro è uno spauracchio agitato dai tempi di Marx, che non si è mai verificato. Semmai, il lavoro cambia di continuo. E finiremo nei guai se non ci attrezziamo al cambiamento, puntando sulla scuola anziché sui sussidi

Di Michele Boldrin

Utopisti d’ogni colore e fattura, da lungo tempo, predicano che un giorno le macchine – oggi più elegantemente chiamate robot – produrranno tutto ciò di cui vi è bisogno, mentre il lavoro degli umani svolgerà un ruolo minimo ed ancillare nel processo di produzione e distribuzione di merci e servizi. Nella versione più celebre e, in un certo senso, ottimista di questa predizione Marx vaticinava che questo avrebbe coinciso con la realizzazione del comunismo. Nel comunismo i beni di produzione sarebbero stati di proprietà comune (dopo una fase intermedia, il socialismo, durante la quale sarebbe stato necessario gestire la produzione attraverso un controllo statale, quindi coercitivo, di tali mezzi di produzione) e gli umani, finalmente liberati dal bisogno che la scarsità impone, avrebbero vissuto comunitariamente felici e contenti. Una visione non molto diversa da quella di Keynes il quale – in un articolo del 1930 intitolato Economic Possibilities for our Grandchildren – faceva una predizione praticamente simile. L’economista inglese, essendo chiaramente più sicuro di se di quanto non lo fosse il filosofo di Treviri, si arrischiava anche a predire quando tale liberazione dalla scarsità sarebbe avvenuta: più o meno ai giorni nostri.

Come tutti abbiamo modo di constatare guardandoci attorno, entrambe le previsioni (e molte altre simili, seppur meno celebri) sono tristemente fallite: la scarsità ed il bisogno sono ancora con noi. I regimi socialisti sono crollati quasi tutti a seguito di immani catastrofi mentre quelli che ancora resistono, da Cuba alla Corea del Nord passando per il Venezuela, affamano i propri sudditi. Ma anche nei paesi dove il progresso tecnologico si è maggiormente realizzato grazie all’esistenza di una qualche forma di proprietà privata – va detto che JMK, nell’articolo in questione, rimase cautamente silente sulle forme di proprietà che avrebbero permesso gestire l’abbondanza prossima ventura – l’abbondanza è ben lontana dall’essere realtà.

Eppure continuano ad apparire guru, santoni e futurologi di vario tipo ad annunciare che il cambiamento tecnologico – oggi sotto forma di intelligenza artificiale, i robot appunto – sta eliminando il lavoro e che questo problema, la mancanza di lavoro, va curato con qualche intervento statale che redistribuisca le enormi ricchezze prodotte dalle macchine da coloro che quelle macchine possiedono ai nullatenenti e nullafacenti. La qual cosa, neanche a dirlo, richiede un radicale cambiamento del “paradigma economico dominante” (che ci sia ognun lo dice) da sostituirsi con un “approccio totalmente innovativo” (dove sia nessun lo sa).

In questa visione contemporanea, decisamente meno ottimistica di quelle di Marx e Keynes, gli umani finiranno per esser divisi in due categorie. I pochissimi proprietari delle magiche macchine vivranno da nababbi nuotando in una ricchezza infinita mentre tutti gli altri saranno ridotti all’indigenza e ad una vita priva di dignità e, ovviamente, di strumenti autonomi di sostentamento. Il buon Bill Gates medesimo, qualche anno fa, si è lasciato andare ad un pindarico volo di questo tipo suggerendo che era assolutamente urgente tassare il reddito prodotto dai robot per distribuirlo a coloro il cui lavoro i robot avevano sostituito. Sembra sia poi diventato silente quando qualcuno gli ha fatto osservare che la sua notevole ricchezza si era accumulata nei decenni attraverso la produzione, guarda caso, del “cervello” dei moderni robot e che, quindi, il primo da espropriare era esattamente lui.

Buon ultimo è arrivato ieri anche Davide Casaleggio (*) il quale – in una intervista/proclama al Corriere della sera, corredata di elegante video e le cui ovvie finalità politiche immediate cercherò di ignorare – s’arrischia d’imitare John Maynard Keynes predicendo che nel 2054 il lavoro “così come lo conosciamo”, non ci sarà più. Quest’ultima previsione, devo dire, quasi quasi la sottoscrivo anche io visto che, nel 2018, il lavoro così come lo conoscevano nel 1982 non esiste più: il cambio tecnologico, da sempre, cambia quel che gli umani fanno quando lavorano.

Tralasciamo, per mancanza di spazio, l’elenco delle corbellerie contenute nel video didattico; le televisioni italiane ci hanno purtroppo assuefatti a ben peggio. Concentriamoci invece sui due problemi che questo tipo di cambio tecnologico sta generando: (i) la domanda per nuove forme, mai esistite prima, di lavoro umano e, (ii), la difficoltà che molti incontrano nell’adattarsi a tale cambiamento e ad utilizzarlo in modo tale da migliorare le proprie condizioni di vita. È importante sottolineare che questi due processi stanno avvenendo in maniera non dissimile, anche se forse quantitativamente più rapida, a quella con cui essi si sono realizzati nei decenni e secoli precedenti.

Occorre avere una memoria storica molto debole per scordare le enormi migrazioni dalle campagne alle città, avvenute durante il secolo scorso nei paesi che oggi chiamiamo “avanzati”, e la conseguente sparizione di quasi tutti i lavori più diffusi all’inizio del 1900, sostituiti da altri allora inconcepibili. La risposta a queste gigantesche trasformazioni si fondò su tre pilastri. L’ampliamento ed il miglioramento dell’educazione che cambiò le professionalità di cui la popolazione era in possesso. L’utilizzo dei risultati della ricerca scientifica per migliorare la qualità della vita nelle città e risolvere i problemi di trasporto, congestione ed inquinamento che venivano emergendo. La progressiva flessibilizzazione del rapporto fra individuo, professione e luogo di residenza che ci ha portato ad essere capaci sia di cambiare posto di lavoro che professione e stile di vita quando opportuno.

Se oggi molte occupazioni che, per due o tre generazioni, ci eravamo abituati a considerare come “naturali” sta scomparendo ricordiamo che nel 1940 in Italia gli occupati nell’agricoltura erano il 50% del totale, mentre oggi sono meno del 5%: nulla di nuovo sotto il sole. Il che non implica, ovviamente, sia opportuno ignorare il problema, anzi. Implica invece che questo processo di cambiamento va affrontato con lo stesso ottimismo, lo stesso realismo e, soprattutto, la stessa volontà di cambiamento con cui lo affrontammo e lo gestimmo positvamente allora. E qui casca l’asino non solo della Casaleggio e del suo proprietario ma dell’intero movimento culturale che egli rappresenta ed oggi, purtroppo ci governa.

Non è con il disprezzo della scienza, con lo sminuimento della professionalità e del merito, con la distruzione per mancanza di finanziamento e considerazione sociale di scuola ed università, con l’apologia di un passato tanto inesistente quanto inventato, con la chiusura nelle frontiere nazionali ed il rigetto delle nuove energie umane che in Italia vorrebbero vivere, con il rifiuto del cambiamento e del rischio, con la richiesta di sussidi al far niente o al mantenimento dell’esistente, che possiamo gestire positivamente questo processo . Al contrario, dovremmo fare l’esatto contrario. Ovvero l’esatto contrario non solo di quanto Davide Casaleggio predica al Corriere ma anche, soprattutto, l’esatto contrario di quello che questo governo – la maggioranza del quale fa a lui riferimento – sta facendo ed intende fare.

Il mondo non intende invertire rotta né la invertirà, per la semplice ragione che centinaia di milioni di persone stanno uscendo da millenni di miseria grazie al cambio tecnologico ed alla crescita. La rotta dobbiamo invertirla noi italiani mostrando il nostro genio al mondo. Solo questo ci permetterà di inventare i milioni di nuovi posti di lavoro – meno pesanti, più creativi, soddisfacenti e remunerativi di quelli che stanno sparendo – e di cavalcare questa nuova onda del cambiamento tecnologico mondiale, anziché venirne travolti perché paralizzati dalle nostre paure ed insicurezze su cui dei cattivi predicatori hanno costruito e stanno rafforzando il loro potere signorile.

https://www.linkiesta.it/it/article/201 ... nti/40769/

(*) https://www.corriere.it/politica/19_gen ... cb3c.shtml
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda franz il 22/01/2019, 10:40

Sempre Michele Boldrin, su l'Inkiesta


UNA SCOMODA VERITÀ
18 gennaio 2019
La disuguaglianza? Sarà sempre più una questione di intelligenza

Con l’avanzare della tecnologia cresce la complessità. Che a sua volta esclude sempre più persone dal mercato del lavoro. L’istruzione può parare il colpo, ma fino a un certo punto. Il mondo di domani sarà un guaio, per chi non ha capacità cognitive adeguate

Il progresso tecnologico porta con sé un cambiamento delle mansioni e delle conoscenze di coloro i quali operano per produrre beni e servizi. Questo succede da tempo immemore e gli immani sconvolgimenti dell’ultimo secolo sono lì a ricordarci che, in pochi decenni, si può passare dall’agricoltura all’industria manifatturiera e poi ai servizi, migliorando la condizione di vita media ed infatti aumentando il reddito reale di praticamente tutti coloro che lavorano. Questo non è un processo indolore: alcuni guadagnano di più, in questo processo, ed altri di meno. Alcuni persino ci perdono. In generale, scelte politiche adeguate sono necessarie per facilitare la transizione ed evitare che coloro i quali meno si sanno adattare al cambiamento apprendano a farlo e ne ricevano almeno qualche beneficio. Questa è una strada già percorsa innumerevoli volte in passato ed il problema del nostro paese è oggi quello di saper ritrovare l’ottimismo culturale, la flessibilità sociale e la dinamicità istituzionale per gestire tale transizione.

La sfida che il cambio tecnologico oggi ci constringe ad affrontare, quindi, non è quella della “sparizione” dei lavori e delle professioni a cui l’ultimo secolo ci ha abituati – lavori che, secondo alcuni, dovremmo rimpiazzare con sussidi per coloro che li “perdono” – bensì un’altra, più complicata e, forse, davvero nuova. Chiamiamola sfida della complessità crescente: il progresso tecnologico richiede, senza alcun dubbio, conoscenze professionali sempre più sofisticate e sempre più difficili da apprendere e padroneggiare. Ogni nuova tecnologia richiede nuove conoscenze che ne permettano l’utilizzazione e l’acquisizione di queste conoscenze richiede sia una maggiore istruzione sia un utilizzo maggiore delle nostre capacità cognitive. In altre parole: il cambio tecnologico che le invenzioni degli umani ha prodotto nel corso dei secoli ha sostituito, decennio dopo decennio, lo sforzo fisico – la forza bruta, per così dire – con l’intelligenza e la conoscenza. E qui sta, forse, il problema nuovo, che è quantitativo prima che qualitativo.

Le capacità cognitive sono diventate il fattore cruciale nel determinare se una persona sia o meno in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e conoscenze

L’istruzione può permettere a tutti, almeno in principio, di acquisire le conoscenze necessarie al proficuo utilizzo di nuove tecnologie. Con “proficuo utilizzo” intendiamo qui due cose: da un lato la capacità di operare efficacemente con le nuove “macchine” e, dall’altro, la capacità di utilizzare le nuove conoscenze per produrre “macchine” (ovvero, metodi di produzione) più avanzati e profittevoli. Questa operazione di adattamento è possibile, in principio, per tutti: basta avere accesso all’istruzione adeguata – questo è il compito primario che le politiche pubbliche devono assolvere – e le capacità cognitive adeguate ad apprendere le nuove conoscenze. E qui, forse, casca l’asino.

Casca l’asino, ovvero si determina il problema veramente nuovo, perché le capacità cognitive non sono distribuite uniformemente fra le persone. Lo stesso, sia chiaro, vale per la forza bruta: nei secoli che furono le persone fisicamene più forti comandavano o, comunque, avevano la capacità di produrre più di altri e questo permetteva loro una condizione sociale superiore. Senza alcun dubbio la forza bruta, da sola, non è mai bastata: essere “svegli” è sempre stato utile assai. Il fatto è che, negli ultimi decenni, l’essere svegli di mente e rapidi di comprendonio ha assunto un ruolo predominate. Per dirla brutalmente: le capacità cognitive sono diventate il fattore cruciale nel determinare se una persona sia o meno in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e conoscenze.

Una montagna di evidenza empirica ci insegna che la distribuzione delle capacità cognitive – fuor di metafora: il Quoziente d’Intelligenza – segue una curva gaussiana.

https://lk.shbcdn.com/blobs/variants/4/ ... 4779478779

Come è possibile vedere nella figura una percentuale relativamente piccola di persone si colloca ai due estremi della curva, il grosso sta nel centro. Il progresso tecnologico sposta progressivamente, da sinistra verso destra, il confine fra coloro che non sono in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e quelli che invece sono capaci di farlo. Finchè quello spostamento avviene nell’intervallo fra, diciamo, 70 ed 80, si creano dei problemi ma questi sono quantitativamente minori. Le sfortunate persone incapaci di usare proficuamente le nuove tecnologie sono in numero relativamente limitato e le più svariate forme di solidarietà sociale ed umana sono state capaci di gestire in un modo o nell’altro (a volte con gravi conflitti, cerchiamo di non scordarlo) le transizioni tecnologiche emerse negli ultimi due secoli.

La situazione si fa progressivamente più complicata mano a mano che il progresso tecnologico sposta la soglia di “proficuo apprendimento” oltre un certo intervallo: fra 80 e 90 la curva si impenna sostanzialmente il che si traduce in un numero drammaticamente crescente di persone che hanno difficoltà obiettive ad usare proficuamente le nuove tecnologie che altri, tipicamente quelli nella coda destra della medesima curva, vanno introducendo. Qui sta forse, oggi, il problema nuovo. Che non è qualitativamente nuovo ma lo è quantitativamente. Perché un conto è cercare di trovare metodi di sostentamento e ruoli sociali utili per un 5-10% della popolazione e ben altra cosa è farlo per il 30-40%.

Chiunque oggi si dedichi all’insegnamento, alla formazione professionale o all’inserimento nel mondo del lavoro è certamente cosciente della rapida emergenza di questo problema: le nuove tecnologie sono, per molte persone, difficili da apprendere ed utilizzare. Questo crea una barriera drammaticamente alta non solo alla mobilità occupazionale ma alla pace sociale stessa. Questo fenomeno, tanto obiettivo quanto drammatico e rapidamente emergente, sta creando una nuova frattura sociale. Essa è diversa da quella a cui ci eravamo abituati, fra capitalisti e proletari. La divisione che sta rapidamente emergendo è fra coloro che hanno le capacità cognitive per utilizzare proficuamente il cambiamento tecnologico e quelli che sembrano non essere in grado di farlo. L’abbiamo compresa a sufficienza ed abbiamo gli strumenti per affrontarla? Vi sono ragioni per dubitarlo: meglio rifletterci senza ipocrisie, tentennamenti e soluzioni messianiche. Hic sunt leones.

https://www.linkiesta.it/it/article/201 ... nza/40784/?
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda pianogrande il 22/01/2019, 12:07

Si
Eccolo lo scontro sociale del nuovo millennio
Una categoria di “abili” e quindi produttivi, minoritaria ma indispensabile, contro una categoria di “non abili” piuttosto inutile e parassitaria ma politicamente determinante per prendere il potere.

Sta già succedendo.

Se la politica non avrà il coraggio di affrontare il problema continuando invece a usare i non abili come comodo serbatoio di voti per poi spremere gli abili per pagarsi il voto, lo scontro, alla fine, sarà durissimo e il mondo si dividerà come la solito in due (guarda caso, ricchi e poveri).
Fotti il sistema. Studia.
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda trilogy il 22/01/2019, 12:57

Molto interessante...ma siamo in uno scenario che viene riassunto dall'acronimo VUCAvolatile, uncertain, complex and ambiguous. Tutti gli sviluppi sono possibili, non c'è nulla di certo e nulla di pre-determinato molto dipenderà da noi e anche dal caso...A new world emerges from the cries of the one who disappears. Everything is now possible: it's up to you!
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda trilogy il 22/01/2019, 13:39

In Finlandia ad esempio investono sui cittadini per prepararsi al futuro

Progetto per sviluppare le applicazioni pratiche dell'AI - Finlandia, corsi per tutti sull'intelligenza artificiale

L'alta formazione professionale come antidoto alla crisi e leva di competitività e sviluppo economico. In Finlandia si investe sui cervelli, non solo su quelli dei ricercatori universitari, ma anche sulle menti della gente comune. È questo il succo del programma «1 percent»: insegnare all'1% della popolazione del paese, circa 55 mila persone, i concetti basilari dell'intelligenza artificiale per costruire gradualmente una società che sappia sfruttare questa tecnologia in molteplici professioni e aspetti della vita quotidiana. E così decine di migliaia di «esperti non tecnologici» stanno partecipando a questo grande esperimento, con l'obiettivo di riposizionare l'economia finlandese verso l'alta gamma dell'intelligenza artificiale.

C'era una volta Nokia, che nel campo delle telecomunicazioni ha fatto storia, ma da leader del comparto ora si trova a inseguire. Ecco, con il programma «1 percent» la Finlandia vuole rimanere in una posizione competitiva e non restare schiacciata tra Cina e Stati Uniti, veri grandi player nello sviluppo dell'intelligenza artificiale.

«Non avremo mai così tanti soldi per essere i leader nel campo dell'intelligenza artificiale», ha dichiarato il ministro dell'economia, Mika Lintilä, «ma possiamo far la differenza nel modo in cui usiamo le nostre risorse».

La sfida con gli americani e i cinesi sulla tecnologia di base, questo il pensiero del ministro, non ha senso: alla Finlandia mancano anche le materie prime. Ma il paese nordico potrebbe occupare una nicchia nelle applicazioni pratiche dell'Ai. Da qui il coinvolgimento in questo progetto della gente comune, di medici, artigiani e professionisti.

Il progetto aveva mosso i primi passi un paio di anni fa all'università di Helsinki, che aveva lanciato, con scopo promozionale, un corso online gratuito di «Elementi di intelligenza artificiale». Bastavano pochi clic, e conoscere l'inglese, che da ogni parte del mondo era possibile seguire questo corso ideato dal professor Teemu Roos. Poi il progetto è stato implementato a livello nazionale con il supporto di aziende private e del governo.

Nell'ottobre del 2018 la Finlandia è stato il primo paese europeo a mettere in atto una strategia nazionale per l'intelligenza artificiale: in primavera il progetto farà un ulteriore step per portare a bordo anche le piccole e medie imprese. Inoltre, c'è in programma una collaborazione con Estonia e Svezia per creare il laboratorio numero uno in Europa per i test di intelligenza artificiale. Insomma, un'infrastruttura digitale baltica come piattaforma innovativa. «Stiamo utilizzando l'intelligenza artificiale come progetto di punta per un più ampio ragionamento sui temi della digitalizzazione», ha osservato Ilona Lundström, direttore generale del ministero dell'Economia finlandese. Un approccio speciale per avvicinare il futuro ed esserne protagonisti.

fonte: https://www.italiaoggi.it/news/finlandi ... le-2325550
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda Robyn il 23/01/2019, 18:58

Questo richiederebbe un sistema scolastico che educhi alla complessità che ti dia tutte quelle nozioni di base che permettono di affrontare le più svariate situazioni.Per ex non sono mai stato d'accordo a fermare l'obbligo scolastico a 15 anni ma portarlo a 16 facendo i due anni della scuola media superiore
Locke la democrazia è fatta di molte persone
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Re: No, Casaleggio: il lavoro non finirà nel 2054

Messaggioda trilogy il 27/01/2019, 20:25

ManpowerGroup, automazione crea lavoro
94% aziende italiane incrementerà o manterrà occupazione

A fronte dei processi di automazione adottati, l'87% delle aziende nel mondo, e il 94% in Italia, ha pianificato di incrementare o mantenere i propri livelli di occupazione, mentre, l'84% (78% in Italia) ha pianificato di aumentare le competenze dei propri dipendenti al 2020 (rispetto al 21% del 2011). E' quanto emerge da una ricerca di ManpowerGroup sull'impatto occupazionale dell'automazione industriale nei prossimi due anni.

"Le organizzazioni che stanno investendo in tecnologie digitali e assegnando mansioni di lavoro a robot sono quelle che più creano nuovi posti di lavoro", spiega il report, che ha coinvolto 19.000 datori di lavoro in 44 paesi, e segnala come la scarsità di talenti sia un tema a livello globale. La ricerca evidenzia come la domanda per competenze informatiche stia crescendo in modo significativo e veloce: il 16% delle aziende prevede di incrementare il personale nelle mansioni It, una percentuale cinque volte maggiore di quella delle aziende dello stesso settore che si aspettano una diminuzione.

fonte: http://www.ansa.it/industry_4_0/notizie ... 67126.html
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