da pierodm il 12/10/2008, 17:04
Concordo ancora una volta con Annalu, ma vorrei citare una sua frase specifica per puntualizzare.
“La nascita di nuove ideologie utopiche”, dice Annalu, alludendo a regimi del cosiddetto socialismo reale precedentemente nominati.
Colgo l’occasione per dichiarare un mio giudizio, che sostengo praticamente da sempre: il regime sovietico e quello maoista non hanno niente di “utopico”, ma sono anzi improntati ad un rigidissimo realismo.
Sono stati principalmente regimi che avevano come scopo la modernizzazione dei rispettivi paesi, in chiave di industrializzazione.
Entrambi hanno ottenuto lo scopo, più o meno, ma solo per scoprire che l’industrializzazione senza democrazia è una specie di mostruosità: anche lì, comunque, si sono avuti grandi risultati sul piano dello sviluppo.
Soprattutto l’URSS, con tutte le sue antiche e storiche arretratezze, quando è caduto il regime dei soviet, era comunque un paese assai diverso e molto più sviluppato della Russia zarista d’inizio secolo.
Proprio per questo rappresenta un ottimo esempio di ciò che si diceva: l’economia produce ricchezza e sviluppo, ma allo stesso tempo produce anche conseguenze negative, se non vere e proprie tragedie – povertà, consumo dissennato di risorse, sfruttamento di classi subalterne, asfissìa delle libertà civili, etc.
Capisco le ragioni ideologiche che portano ad accettare questa evidenza nel caso dei regimi “comunisti” orientali, mentre si fa una fiera resistenza per ciò che riguarda l’occidente, ma questo doppiopesismo non fa bene alla democrazia, proprio nel momento in cui si vorrebbe esserne i paladini.
Passiamo ora ad un’affermazione di Franz:
“ Bene, eravamo partiti (in senso generale, non riferendomi ai singoli interventi tuoi o di altri) da una posizione scettica sulla "creazione di ricchezza"… A latere si era inserito il tema che oltre alla produzione (ora assodata) di reddito e ricchezza, ci fosse una produzione di povertà ma vedo che l'aspetto è stato lasciato cadere.”
Francamente non vedo né l’una né l’altra cosa.
Nessuno mi sembra che abbia contestato la creazione di ricchezza da parte dell’economia, anche perché sarebbe stupido fare le pulci ad un concetto così evidente, anzi direi perfino ovvio – salvo il fatto che si può discutere su certe forme di ricchezza e sull’effettiva necessità di certi prodotti.
Non mi sembra neanche che sia stata lasciata cadere la “produzione di povertà”, certamente non da me che ho introdotto l’argomento.
In realtà, quando ho puntualizzato questo concetto, non intendevo fare una scoperta particolarmente acuta: mi sembrava un’evidenza ovvia quasi quanto la prima, ossia l’economia che produce ricchezza.
Quello che intendevo era sottolineare la necessità di tener ben presenti entrambe le facce della medaglia, nel guardare la sfera economica: produttrice di ricchezza, ma anche produttrice di innumerevoli problemi, tra cui la povertà – due facce ugualmente importanti, e ugualmente significative, e non l’una considerata identificativa del fenomeno economico, e l’altra di ripiego, confinata alla dimensione etica o assistenziale.
Quindi mi affianco alla prima impressione di Annalu: Franz produce una massa di dati e di ragionamenti che sfondano una porta aperta, quando cerca di dimostrare il ruolo virtuoso dell’economia produttrice di beni e ricchezze, materiali e immateriali, ma sembra teorizzare in forma assai vaga sugli aspetti politici di questo sistema produttivo: esattamente come fanno gli economisti, o meglio ancora i sostenitori duri e puri del capitalismo.
Su questo tema ho già detto nei miei interventi di questi giorni, e non serve ripetere.
Vale la pena invece riprendere l’argomento di Franz, sulla divisione dei ruoli tra economia e politica.
Questa divisione vale – sia pure con le dovute cautele – per un’analisi per così dire “tecnica” dei fenomeni, ma nella realtà operante rischia di apparire assurda. E mi lascia perplesso quello che afferma proprio oggi Veltroni in materia, secondo ciò che è pubblicato sulla Repubblica.
Fare un discorso sintetico non è facile, perché sono troppi e troppo importanti i valori messi in discussione.
Primo.
Se accettiamo una suddivisione così netta – che si vuole netta – si ha il risultato di un sistema tendenzialmente e programmaticamente contraddittorio, se non schizofrenico tout-court, poiché in una società devono convivere due o più centri di potere e più logiche, più “etiche” indipendenti l’una dall’altra, che però insistono sulla medesima massa di persone e sulle medesime esistenze umane, sul medesimo territorio e sul medesimo flusso di risorse.
Una gerarchia tra questi poteri, benché lasciata teoricamente fuori dalla porta, rientrerebbe rapidamente dalla finestra, e l’uno o l’altro reclamerebbe alla fine il suo proprio “primato”: come avviene in effetti, sia pure con l’espediente di dividersi la parti, con la politica che finge di governare, e l’economia che esercita il potere effettivo sulla vita delle persone.
“La politica non dica e soprattutto non imponga all'economia come produrre ricchezza, beni, plusvalore”. Dice Franz.
Come sarebbe? La politica può dire “non amazzare”al cittadino generico, ma non può regolare le attività economiche che rischiano di ammazzare nelle decine di modi che si verificano nella pratica? E non deve interessarsi alle conseguenze delle scelte economiche, all’insediamento delle aziende, a come sono reperiti i capitali, alla loro circolazione, alle forme del lavoro, alla contrattualistica di subordinazione, etc?
Una cosa è lo statalismo e il dirigismo, che decide quanti cappelli fabbricare in un anno e magari farli fare in un fabbrica statale, altra cosa è una politica che conosce, s’interessa e interviene in una sfera che riguarda praticamente la totalità dei cittadini, e che determina la loro vita e il loro libertà di fatto e di diritto.
“L'economia non dica e soprattutto non imponga alla politica come ridistribuire e trovare soluzioni eque”, dice poi Franz.
Qui il soggetto è assai più indeterminato: chi è “l’economia”?
In genere infatti “l’economia” non dice, ma fa, e mette di fronte a fatti compiuti: è la sua forza.
E’ per altro nella logica economica prescindere dalle soluzioni eque, dato che vale piuttosto il criterio delle soluzioni vantaggiose, o efficienti.
Il valore della “equità” appartiene interamente alla politica.
Il problema delle democrazie borghesi e capitaliste è che devono convivere due opposte logiche, due “etiche”, che però hanno poteri ineguali, o meglio poteri diversi.
L’economia può fare a meno della democrazia, o almeno di molti aspetti della democrazia liberale, e anzi trae vantaggio da una forte limitazione di questi aspetti.
La democrazia – e sul piano spicciolo i partiti di governo – non possono fare a meno del consenso derivante dai vantaggi “regalati” dallo sviluppo economico, lasciando da parte il complesso rapporto tra classi dirigenti e potere economico.
Vedo davanti a me un discorso ancora più lungo e complicato di quelli fatti finora.
Quindi taglio, dicendo che il liberalismo deve ancora scoprire come far fronte a questo incalzare di problemi, dopo che si è deciso di escludere dal tavolo politico il punto di vista socialista, che era intervenuto un secolo fa per consentire al sistema di mantenere una parte delle sue promesse di libertà e di giustizia sociale.
Tirare in ballo l’URSS o la Cina per sgattaiolare dal problema è una follia politica, oltre che un’assurdo logico.