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Dove sono?

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Re: Dove sono?

Messaggioda pierodm il 11/10/2008, 17:19

Quando in un discorso si arriva sempre e velocemente ad un nodo - sempre lo stesso - è segno che quello è un nodo sostanziale, e significa anche che tutto il resto è paglia.

L'economia produce ricchezza e povertà, ovvero poveri e ricchi - oltre che le altre dicotomie, circa il consumo di risorse, lo sfruttamento, etc.

Ci sono due liveli del discorso che possono essere praticati, senza che l'uno escluda l'altro. Anzi, sono livelli che vanno considerati entrambi.

Il primo.
Ricchezza e povertà sono come il caldo e il freddo: sensazioni, o più precisamente stati psico-fisici.
In realtà quello che esiste è la temperatura, che fuori di metafora equivale a dire il livello di beni materiali e di consumi, misurati secondo indici oggettivi.
Sul piano delle "misure" valgono gli indici oggettivi, ovviamente, ai quali "ideologicamente" possiamo dare il valore di misurazione della ricchezza di una società, e del rapporto tra ricchi e poveri dentro una data società.
Quest'ultimo rapporto non è un fattore neutro, ma un generatore di valori e un produttore di storia: è precisamente questo rapporto che dev'essere considerato come "prodotto" di un sistema economico, in quanto stato di coscienza che è stato di fatto in una data società, entro dati limiti di tempo.
In questa definizione non metto in conto le eventuali - per altro sistematiche - devianze o estremizzazioni, quali il "premio" esagerato elargito alla ricchezza rispetto al rischio o alla fatica spesi per ottenerla, o quello esiguo dato alle classi povere rispetto al prezzo esistenziale: naturalmente in queste valutazioni entra in gioco l'elemento umano, la percezione individuale, la "materialità" dell'economia, e non più l'astrattezza delle cifre statistiche che misurano il sistema socio-economico nel suo insieme. E' questo l'elemento che mette in comunicazione la sfera economica con la politica.

Il secondo piano di lettura.
Ci sono situazioni che danno con maggiore chiarezza il senso di come un sistema economico possa allo stesso tempo essere produttore di ricchezza e di povertà, a livello oggettivo.
Là dove la società industriale ha assunto un ruolo colonialistico, ha certamente - nel medio e lungo periodo - fornito un netto miglioramento degl'indicatori di benessere e di disponibilità di "beni", indipendentemente dal discorso sulle disuguaglianze di cui al punto precedente.
Ma ha allo stesso tempo prodotto una mutazione totale della cultura e degli stili di vita delle popolazioni "indigene" - vedi ad esempio i nativi americani.
Nell'organizzazione sociale degl'indigeni il concetto di "povertà" probabilmente esisteva, ma in forme assai diverse da quelle subentrate in epoca coloniale, e certamente mescolato e subordinato ad altri valori, ad altro genere di gerarchie.
Nelle società più semplici, per esempio, dove la produzione di beni e servizi è visibile e controllabile, a fronte di una forte limitazione delle potenzialità produttive, non esiste di fatto la possibilità che una parte rilevante della comunità soffra la fame, mentre una parte esigua si abbuffa di carne di bisonte: una situazione del genere, eventualmente, dura poco.
Quello che si crea, col tempo, è una società con qualche dislivello, ma sostanzialmente equilibrata, dove ciascuno ha un suo posto e una sua parte di "ricchezza": poco sviluppo, forse perfino una sclerosi dei processi, ma un'evanescenza del concetto di "povertà".
Con la colonizzazione - in conseguenza dei meccanismi del sistema socio-economico dei colonizzatori - le popolazioni indigene sono state proiettate in uno stato di povertà, se non di miseria: la mortalità infantile poteva essere scesa, se portavano i piccoli a fare i vaccini dal medico condotto, ma erano figli di poveri.
Il sistema economico, fondato e accompagnato da un sistema politico e sociale, ha creato per quelle popolazioni un ruolo che prima non conoscevano: la povertà.
Per essere più chiari, non si tratta solo di uno stato psicologico nuovo, ma di una mutazione dello stato funzonale di intere popolazioni, alle quali viene sottratto un territorio, uno stile di produzione, un rapporto con l'amobiente naturale: una sottrazione non casuale o dovuta alla "malvagità" di un governatore o di uno sceriffo, ma connaturata al sistema produttivo che subentra a quello indigeno.

Non ho introdotto questo secondo piano di lettura per trattare del colonialismo, ma solo per guardare con maggiore evidenza al meccanismo per cui un sistema economico produce allo stesso tempo sia ricchezza, sia povertà - e ho messo da parte gli altri fenomeni, quali lo sfruttamento di risorse e i danni ambientali, perché già chiarissimi di per sè.

Come ripeto, si può anche non guardare al problema in questa prospettiva, e misurare solo la parte positiva, e considerare l'altra faccia dello sviluppo come un fatale prezzo da pagare: credo che anche i Faraoni facessero questo conto, a fronte del numero di schiavi che rimanevano schiacciati dai pietroni durante la costruzione delle piramidi.
Al di là della battuta, non si tratta di svilire o demonizzare oltre il limite la funzione del nostro sistema economico, ma di leggerlo con uno spirito o con un altro, e precisamente con lo spirito che fa la differenza tra la destra e la sinistra.
Potremmo utilmente assumere come caso di studio il sistema sovietico, e l'industrializzazione forzata voluta da Stalin - grandi numeri, grande sviluppo rispetto alla Russia zarista, ma anche per loro vale l'antico detto: altera manu fert lapidem, panem ostentat altera, vale a dire "con una mano ti offre il pane, mentre con l'altra tiene stretta una pietra", presumibilmente per dartela in testa.
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Re: Dove sono?

Messaggioda gabriele il 11/10/2008, 18:50

Non lo siamo no ed è per questo che occorrono delle regole...e anche chi le fa rispettare.

Gabrive


franz ha scritto:
gabriele ha scritto:Ciao Francesco.

Io penso che in una pianta sana le mele marce vengano buttate giù dall'albero ancora prima di far danni.

Vero, ma noi non siamo una pianta sana.

Se gli uomini fossero angeli, ... dicevano i padri fondatrori americani, sapendo bene che non lo sono ....

Ciao,
Franz
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Re: Dove sono? (breve storia del mondo)

Messaggioda franz il 11/10/2008, 18:52

Caro Pierodm,
discorso interessante il tuo ma temo che per approdare ad una maggiore verità dovremmo affrontare ad uno studio piu' analitico, approfondito e partire da piu' lontano. Non so chi oserà seguirci ma ci tento lo stesso.

Essenzialmente ... perché scrivere "trattati" non è adatto al forum (e quindi spero mi perdonerete la sintesi) dobbiamo partire dall'uomo e dalle sue origini.

La prima forma di organizzazione finalizzata alla sopravvivenza è quella dei cacciatori/raccoglitori, tra 100'000 (o forse piu') e 10'000 anni fa. Anche meno per alcuni popoli che sono rimasti in quello stadio fino a poco fa.

In quella società il concetto di povertà non esisteva (forse quindi non esisteva nemmeno la parola ma non possiamo saperlo visto che non esisteva parola scritta) in quanto quella società possedeva ben poco. Possedeva conoscenze (saper fare) e qualche oggetto (zagaglie come armi o attrezzi per cucire e cucinare).
L'esigenza era sopravvivere e pochissimi ci riuscivano. Le tecniche di conservazione del cibo erano primitive e poco veniva accumulato; quasi tutto veniva consumato.
La maggiore ricchezza era "saper fare" (cacciare, conoscere il territorio, i luoghi in cui trovare tuberi, frutta ebacche, nei tempi giusti).
Li non si era "ricchi o poveri". Si era "vivi o morti".
Parliamo di poche centinaia di migliaia di individui sul pianeta. Forse l'unico patrimonio (valore) da difendere era la natura ed il suo equilibrio, perché fonte di alimentazione con la carne e con frutta, tuberi e bacche. Ci sono forti indizi che questo non sia stato fatto adeguatamente e che il successivo passaggio all'agricoltura non sia stato uno sfizio fortuito ma la necessità di sopravvivenza dovuta allo sterminio ad opera dei cacciatori di allora della fauna di grossa taglia grazie alle piu' sofisticate tecniche di caccia di gruppo che i cro-magnon seppero adottare.

La società agricola, sviluppatasi circa 10'000 anni fa, pare indipendentemente in tre luoghi diversi (mezzaluna fertile, cina, america) e che dai quali luoghi si è espansa, permette la sopravvivenza di grandi masse di individui (decine e centinaia di milioni) ma necessita della divisione del lavoro. Chi coltiva, chi difende il raccolto ed i granai, chi fa la contabilità di quanto versato nel granaio, chi produce strumenti per arare, vasellame, armi, attrezzi per il bestiame, mattoni, case. E chi gestisce tutto questo, sul piano religioso e politico (coesione sociale e decisioni da prendere).
Questo genere di società si basa sull'accumulo (scorte di grano e merci) e sul commercio delle eccedenze, quando ci sono.
Questa società produce piu' ricchezza e quindi anche - relativamente - la povertà.

Inoltre vengono a contatto società diverse, quelle agricole, ricche (che dotandosi di mezzi di trasporto per commerciare scoprono altri luoghi) e quelle primitive, rimaste alla caccia (e quindi piu' povere).

Ulteriormente potremmo anche considerare la società industriale (che non rivoluziona solo la produzione di beni ma anche la stessa agricoltura) la quale permette a miliardi di persone di vivere, anche qui con grandi e crescenti disparità, dovute alla contemporanea presenza di zone nel mondo con i tre tipi di società e quindi con tre distinti livelli di benessere.

Con la società industrale cresce ultermente la suddivisione del lavoro, a livello sofisticato (oggi ancora di piu con la società post industriale) e cresce la necessità di commerciare e scambiare i prodotti di questa molecolare suddivisione del lavoro.

Nelle società industriali e post industriali tuttavia la povertà diminuisce anche se non del tutto. Abbiamo sempre un 10-12% di povertà, perché è la definizione stessa di "povertà relativa" (come persone sotto una certa soglia del reddito medio) ad indicare che esistono sempre "poveri" anche nel paese piu' ricco.

Ma quello che dovremmo vedere è la produzione di ricchezza e benessere.
Questa concretamente la vediamo osservando il numero di persone che possono vivere sul pianeta nelle varie forme di società:
caccia: poche centinaia di migliaia, in tanti villaggi e tribu di 35-50 persone in territori di 30-50 Km2.
agricoltura: decine e centinaia di milioni, in città con centinaia di migliaia di ambitanti ed anche piu' (vedere l'antica Roma).
Industria: da mezzo miliardo agli attuali 6.7 miliardi, in megalopoli di decine e decine di milioni di abitanti.

La povertà è solo relativa, legata sia alla divisione del lavoro (i vari saperi sono retribuiti diversamente) ed anche alla compresenza nel pianeta delle vecchie forme di organizzazione sociale (agricola preindustriale e caccia).

Non vorrei annoiare ulteriormente ma questo per me è il quadro storico e sociale di riferimento quando parliamo di produzione (ed accumulo) di ricchezza e di povertà, rispetto a questa ricchezza.

Ribadisco che solo producendo ricchezza è possibile poi ridistribuire.

Ciao,
Franz
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Re: Dove sono?

Messaggioda franz il 11/10/2008, 19:02

gabriele ha scritto:Non lo siamo no ed è per questo che occorrono delle regole...e anche chi le fa rispettare.

Gabrive

Cero che occorrono ma non credo che il problema sia questo.
Il problema è quali e come farle rispettare.
Le regole possono essere poche, efficaci e giuste o tante, inefficaci ed ingiuste.
Concettualmente le regole che possiamo concepire sono milioni.
Quelle che funzionano poche decine o centinaia.
Mi pare che alcuni sostengano che il disatro sia stato provocato da regole eliminate (deregulation) ed altri invece che le regole ci sono ma non sono state fatte rispettare (mancanza di controlli).
Non conosco i meccanismi in modo approfondito per cui non so chi tra le due campanee abbia ragione.

So pero' che troppe regole sbagliate possono fare male al mercato (e quindi a tuttti noi) molto di piu' che la mancanza di regole o di controlli.

Un motore funziona se è ben regolato. Una massa di bielle epistono non prodice spontaneamente energia ma funziona soli se p messo in un determinato modo, assetto.

Ma se è mal regolato il motore si ferma, si ingolfa.

Quindi il problema non è regolare ma regolare bene.

Il problema ulteriore è che io un motore lo faccio volentieri regolare da un meccanico in gamba (o da un pool di meccanici ed ingeneri), non da un avvocato, un chirurgo, un falegname, un calciatore, una infermiera ed un ciclista.

Non trovi?

Fuori di metafora, chi regola il mercato?

Franz
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Re: Dove sono? (breve storia del mondo)

Messaggioda annalu il 11/10/2008, 19:44

franz ha scritto:La prima forma di organizzazione finalizzata alla sopravvivenza è quella dei cacciatori/raccoglitori, tra 100'000 (o forse piu') e 10'000 anni fa. Anche meno per alcuni popoli che sono rimasti in quello stadio fino a poco fa.

In quella società il concetto di povertà non esisteva (forse quindi non esisteva nemmeno la parola ma non possiamo saperlo visto che non esisteva parola scritta) in quanto quella società possedeva ben poco. Possedeva conoscenze (saper fare) e qualche oggetto (zagaglie come armi o attrezzi per cucire e cucinare).
L'esigenza era sopravvivere e pochissimi ci riuscivano. Le tecniche di conservazione del cibo erano primitive e poco veniva accumulato; quasi tutto veniva consumato.
La maggiore ricchezza era "saper fare" (cacciare, conoscere il territorio, i luoghi in cui trovare tuberi, frutta ebacche, nei tempi giusti).
Li non si era "ricchi o poveri". Si era "vivi o morti".
[...]


Quando incappo in un dibattito come quello che state così bene portando avanti voi due, Piero e franz, ho sepre un attimo di spaesamento.
Perché mi sembra che stiate discutendo su due piani differenti, in due luoghi differenti.

La descrizione sommaria di Franz dell'evoluzione della società umana è in buona parte condivisibile, almeno nel senso che l'evoluzione ha aumentato il livello di benessere degli umani in generale, anche se non di tutti singolarmente (si potrebbe discutere sulla presenza sin dalla preistoria di livelli gerarchici, almeno come si osservano in altri animali sociali, e il grado gerarchico influiva di certo sulle potenzialità di sopravvivenza).

Quello che mi crea difficoltà, è che non mi sembra corretto portare questi elementi in un dibattito politico.
Un discorso sull'evoluzione è corretto in un ambito storico - antropologico, dove lo studioso osserva e descrive, cercando di non intervenire e di non influenzare il processo che descrive.
L'ambito politico invece mi sembra del tutto differente.
Il politico, al contrario dell'antropologo, VUOLE influire sulla società di cui parla. Il politico si occupa del presente, ma è proiettato verso il futuro, un futuro che cerca di influenzare col suo pensiero e le sue azioni.

Mentre un antropologo non è (non dovrebbe essere) né di destra né di sinistra, un politico deve al contrario assumere sempre una posizione, aderire ad un progetto, per poterne favorire l'attuazione.

Il problema è che ci sono periodi storici nei quali la posizione da assumere appare netta (in genere si tratta di periodi passati, perché col "senno di poi" giudicare è più facile) ed altri invece (in genere, il presente) che appaiono più incerti e complessi.

Se volessi controbattere con una battuta al discorso complesso di Franz, direi che, se evoluzione c'è stata, se davvero c'è stato, come c'è stato, un generalizzato aumento di ricchezza, allora la redistribuzione è possibile, per ridurre il divario tra ricchi e poveri. Divario che c'è ed è ben chiaro, anche se i poveri di adesso sono meno poveri dei poveri dei secoli passati. E forse anche dei ricchi (di alcuni ricchi). Ma si tratta appunto del passato, mentre noi pensiamo al presente ed al futuro.

Sempre in un'ottica di azione e non di descrizione, ha senso parlare di destra e sinistra.
E se si trattasse di due correnti di pensiero frequentate da persone oneste e in buona fede, il confronto non potrebbe che essere costruttivo: in una semplicistica definizione di destra e sinistra, potremmo vedere il confronto tra chi desidera valorizzare le capacità dei singoli mediante premi di varia natura e considera l'egualitarismo frustrante, e chi al contrario giudica inaccettabili le disparità di trattamento tra le persone, in quanto il merito dovrebbe essere un arricchimento per tutti ed un premio in sé, autogratificante.
Ovviamente, la mia semplificazione è estrema, e le posizioni estreme sono ovviamente impossibili.
Però il !"conflitto" tra le due ideologie risiede principalmente in questo.

Ora, a me sembra che il divario tra ricchi e poveri sia nettamente aumentato negli ultimi anni, all'interno dei paesi industrializzati come il nostro.
A questo si somma la vicinanza fisica, fianco a fianco, di persone nate e cresciute in un paese ricco, e di immigrati poveri provenienti dalle regioni più povere del pianeta.

Lo "scontro di civiltà" che tanto temeva la Fallaci, non è a mio parere tanto uno scontro tra religioni e culture diverse, quanto uno scontro tra popolazioni ricche che non vogliono perdere il loro livello di vita, e popolazioni povere, che rivendicano il diritto di raggiungerlo. Di qui razzismi vari, scontri tra nazioni, e tra modelli di sviluppo.

Se fossi uno storico e vivessi in un altro pianeta, sarei affascinata nel seguire le vicende che ci stanno travolgendo, e non vedrei l'ora di scoprirne gli sviluppi.
Ma sono qui,vivo qui, e gli sviluppi toccano la mia vita, ed ancora più quella dei mie figli e dei miei nipoti.
Per questo mi piacerebbe che questa crisi, che vedo molto imponente, sia superata nel modo meno traumatico possibile.

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Re: Dove sono?

Messaggioda pierodm il 12/10/2008, 0:55

Mi sembra che Annalu abbia centrato il problema.

L'excursus storico e preistorico di Franz è corretto, e non è minimamente in contrasto con ciò che io dicevo.
Per la verità, condivido anche - e come potrei non farlo? - che lo sviluppo economico crea ricchezza, così come sono ben consapevole dell'esistenza sul pianeta di civiltà, culture, sistemi differenziati, che nel tempo e nello spazio hanno creato un intrico complicatissimo di relazioni reciproche.

Quello che ho cercato di sottolineare è, tutto sommato, abbastanza semplice: nei sistemi economici complessi - quelli cioè che contemplano l'esistenza di una "economia" come categoria a sé stante, e di una società gerachicamente adeguata a sostenerne i meccanismi - non si crea solo ricchezza, ma anche povertà. Potremmo aggiungere: più si crea ricchezza, più si crea povertà, anche se quest'affermazione appare meno immediatamente accettabile, e quasi paradossale, o al massimo riferibile a casi particolari ed estremi di sfruttamento di tipo oligarchico e schiavistico.
A questo punto, al di là di quanto ho già detto a sostegno della mia tesi, dovrei tracciare un excursus parallelo a quello di Franz - parallelo, non in opposizione - sulla nascita e sullo sviluppo del significato del concetto di povertà, e dello stato di povertà, che accompagna la creazione di ricchezza.
Ma niente paura: non lo faccio, perché è molto più complicato dell'excursus di Franz e davvero ci porterebbe fuori dai confini. E poi non serve, dato che basta soffermarsi su periodi e valori recenti, e ben conosciuti.

In realtà, questo nostro discorso sfiora l'argomento della "lotta di classe", che ne è la materializzazione politica nel momento nascente della società industriale, ossia del sistema economico più complesso che si sia mai visto sul pianeta.
Dell'analisi marxista del fenomeno m'interessa mettere in evidenza il dato della "coscienza", che dà luogo all'esistenza della "classe": senza coscienza di classe, la classe non esiste sul piano politico, e con essa non esistono tutti i valori che sono connnessi.
Questo dato, che sembra appartenere alla sfera psicologica, si ricollega al concetto di povertà relativa, che è esattamente quella che ha un valore politico, laddove il resto ha un valore statistico o semplicemente storicistico: potremmo dire che questa discrasia segna la difefrenza tra una visione tecnocratica e una politica.
In altre parole: la società raggiunge uno status di produttività oggettiva, ma la politica si fonda sulla coscienza che si ha di questa realtà oggettiva, e delle differenze di potenziale che si formano tra i poli interni di tale oggettività.

Vorrei inoltre sottolineare un punto che mi sta particolarmente a cuore, sul piano logico, prima ancora che su quello etico-politico.
I sostenitori del primato dell'economia - ossia dello sviluppo, della "ricchezza" - parlano di sistema e di società nel loro insieme, e ne danno i dati di sviluppo riferiti all'insieme: hanno ragione, niente di scorretto in questo.
Ma, proprio perché hanno ragione, dovrebbero riflettere sul fatto che un dato livello di sviluppo-richezza è il risultato dell'opera di tutta intera la società, la quale dovrebbe tendenzialmente godere in modo uguale di questa ricchezza.
Succede invece che in ogni sistema - tanto più in quelli complessi - la distribuzione della ricchezza avviene in forme assai diseguali: ciò viene spigato con i meccanismi che presiedono alla produzione di ricchezza.
Possiamo anche accettare questa spiegazione, ma allora viene a cadere la possibilità di parlare di sviluppo un po' troppo all'ingrosso. E allo stesso tempo la distribuzione diseguale appare nella sua vera veste di "povertà" prodotta dal sistema economico, e non come un semplice "rimanere indietro" su livelli in qualche modo fatali e "naturali".
L'esistenza cioè della disuguaglianza, e della povertà, è necessaria al sistema economico: se non si vuole definirla un "prodotto", chiamiamola "sottoprodotto", ma è una minimizzazione.

In questo discorso, il punto essenziale - che mi sembra spesso trascurato - riguarda il fatto che lo sviluppo è opera di TUTTA la società, nel tempo e nello spazio, come fatto vero e proprio di civiltà: le tradizioni, il lento accumularsi di know-how, il lavoro, i sacrifici, l'emigrazione, l'educazione, la cura coltivata di ogni dettaglio di vita, l'accumulazione di "intelligenza", etc, sono i fattori che concorrono al livello di civiltà necessario per ogni successivo passo dello sviluppo economico, e sono valori (in senso stretto del termine) che non "appartengono" a qualcuno in particolare, e quindi nemmeno a coloro che ad ogni grado dello sviluppo si appropriano di una quantità di ricchezza non commisurata ai propri meriti e al proprio contributo.
L'obiezione è che questa appropriazione è necessaria per fornire la spinta all'impresa economica, poiché promette e consente un premio: obiezione corretta, che però esclude dal gioco quella visione storicistica ben rappresentata nell'excursus di Franz, dato che sposta l'attenzione su azioni e reazioni calcolate sul metro di una o due generazioni, al massimo, e su meccanismi di "coscienza" individuale immediati.
Quindi, anche la misura della "povertà" dev'essere giocata sullo stato presente e immediatamente percepibile, e non rimandato ad una prospettiva quasi millenaristica.

Va be', stiamo riscoprendo la genesi delle società umane: rimane il fatto che la Juventus dovrebbe essere abolita.
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Re: Dove sono? (breve storia del mondo)

Messaggioda franz il 12/10/2008, 10:50

annalu ha scritto:Quello che mi crea difficoltà, è che non mi sembra corretto portare questi elementi in un dibattito politico.
Un discorso sull'evoluzione è corretto in un ambito storico - antropologico, dove lo studioso osserva e descrive, cercando di non intervenire e di non influenzare il processo che descrive.
L'ambito politico invece mi sembra del tutto differente.
Il politico, al contrario dell'antropologo, VUOLE influire sulla società di cui parla. Il politico si occupa del presente, ma è proiettato verso il futuro, un futuro che cerca di influenzare col suo pensiero e le sue azioni.

Cara Annalu, non ho fatto un discorso di evoluzione in senso genetico ma l'ho posto in senso evoluzione culturale (socioeconomica), delle relazioni economiche tra gli uomini a seconda del tipo di cultura (cacciatori, agricoltori, industria etc).
Come tale esso è un dato di fatto da cui partire e che la politica non puo' ignorare.
L'ambito politco è differente ma non puo' certo dire che l'assetto socioeconomico che si è costituito con il tempo non porta ricchezza.
E' necessario (e corretto) ogni tanto vedere la prospettiva storica, nella sua dinamica, perché se noi osserviamo delle foto ferme, potremmo anche prendere abbagli.

Ora, a me sembra che il divario tra ricchi e poveri sia nettamente aumentato negli ultimi anni, all'interno dei paesi industrializzati come il nostro.
A questo si somma la vicinanza fisica, fianco a fianco, di persone nate e cresciute in un paese ricco, e di immigrati poveri provenienti dalle regioni più povere del pianeta.

Ok per quello che "sembra" ma per fortuna esistono anche misurazioni oggettive e non sono basate solo sul PIL.
Sono basate sulla diffusione della educazione e sulla qualità della salute, oltre al discorso del reddito.
Esiste per questo un indicatore ONU, non basato solo sullo sterile PIL.
E le misurazioni oggettive dicono che il divario è fortemente diminuito, proprio negli ultimi due decenni, grazie al fatto che paesi immensi e popolosi come Cina, India e Brasile e Russia sono entrati in modo dirompente nell'economia mondiale.
Questi 4 paesi (in sigla BRIC) rappresentano il 40% della popolazione mondiale e si aggiungono in modo rapido al 20% già benestante.

Qui va detto che appaiono autoassolutorie certe affermazioni (non tue, annalu, ma qui presenti) che indicano che in questo discorso il paragone con il comunismo non c'entra o che tirare fuori l'argomento sia pretestuoso. Perché in realtà è con la caduta del muro nel 1989 e con la fine del comunismo in economia che paesi ex-comunisti iniziano finalmente un percorso di prosperità (con le conseguenti disparità rispetto alla povertà uniforme) e quindi la crescita mondiale di questi due decenni è dovuta al fatto che è caduto un modello che era fallimentare ed affamatorio per buona parte del pianeta.

Ciao,
Franz
Ultima modifica di franz il 12/10/2008, 12:01, modificato 3 volte in totale.
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Re: Dove sono?

Messaggioda franz il 12/10/2008, 11:50

pierodm ha scritto:L'excursus storico e preistorico di Franz è corretto, e non è minimamente in contrasto con ciò che io dicevo.
Per la verità, condivido anche - e come potrei non farlo? - che lo sviluppo economico crea ricchezza, così come sono ben consapevole dell'esistenza sul pianeta di civiltà, culture, sistemi differenziati, che nel tempo e nello spazio hanno creato un intrico complicatissimo di relazioni reciproche.
...
I sostenitori del primato dell'economia - ossia dello sviluppo, della "ricchezza" - parlano di sistema e di società nel loro insieme, e ne danno i dati di sviluppo riferiti all'insieme: hanno ragione, niente di scorretto in questo.
Ma, proprio perché hanno ragione, dovrebbero riflettere sul fatto che un dato livello di sviluppo-richezza è il risultato dell'opera di tutta intera la società, la quale dovrebbe tendenzialmente godere in modo uguale di questa ricchezza.
Succede invece che in ogni sistema - tanto più in quelli complessi - la distribuzione della ricchezza avviene in forme assai diseguali: ciò viene spigato con i meccanismi che presiedono alla produzione di ricchezza.

Bene, eravamo partiti (in senso generale, non riferendomi ai singoli interventi tuoi o di altri) da una posizione scettica sulla "creazione di ricchezza", del tutto comprensibile in un momento in cui un giorno si e l'altro pure i giornali ci assillano con questa palla della "distruzione di nnn miliardi" e poi abbiamo assodato che ricchezza (ed aggiungo educazione e salute) si diffondono e aumentano grazie a questo modello produttivo economico. Che comprende i suoi lati oscuri, crisi incluse.
A latere si era inserito il tema che oltre alla produzione (ora assodata) di reddito e ricchezza, ci fosse una produzione di povertà ma vedo che l'aspetto è stato lasciato cadere. Sono pronto ad approfondirlo, se ancra fosse necessario.

Ora il tema si sviluppa sulla qualità della ridistribuzione e cio' che dice Pierodm mi trova del tutto d'accordo.
Compito dell'economia (parte della società che ha - banalizzando - il compito di trovere meccanismi efficenti di produzione del reddito e della ricchezza) è appunto la produzione.
Cio' che l'economia fa è efficente, ma non è equo.
Compito della politica è occuparsi delle regole e della equità.
Compito della cultura occuparsi della produzione di know-how, del sapere orientato alla produzione, alla politica, alla società, ance negli aspetti non produttivi e non economici.

Ora tu sostieni, a ragione, che ci sono sostenitori del primato dell'economia.
Esistono anche sostenitori del primato della politica.
Io non appartengo ad entrambi e dico che ognuno ha il primato (dominio) nel suo ambito di competenza.
La politica non dica e soprattutto non imponga all'economia come produrre ricchezza, beni, plusvalore entrando in problemi in cui non è competente.
L'economia non dica e soprattutto non imponga alla politica come ridistribuire e trovare soluzioni eque.
Idem per la cultura. Ognuno a mio avviso ha il suo ambito "privato" che non accetta interferenze ma ognuno dei tre offre agli altri due qualcosa e ne riceva altro in cambio.

In breve, è chiaro che l'economia da' alla politica ed alla cultura cio' che puo' dare e cioè risorse economiche, sotto forma di imposte, per esempio. Se dà poco otterrà poco e questo a suo danno.
La politica regola, emette normative e si occupa della gestione dell'equità in qui settori in cui essa è insufficente o inesistente. Senza le risorse ottenute dall'economia nulla funzionerebbe per cui la politica deve capire che se regola male, anche la retribuzione che riceve diminuisce. Se chiede troppo potrebbe ingolfare il motore. La gestione dell'equità fatta dalla politica è un onere per l'economia ma anche un vantaggio, perché maggiori risorse a "chi non ha" aumenta i consumi.
Non dobbiamo poi limitarci al discorso della ridistribuzione del reddito. Sono parimenti importanti quelli del sapere (che si traduce maggior numero di cittadini in grado di saper fare in campo economico e politico) e della salute.
La cultura offre all'economia ed alla politica le basi del sapere (saper fare sia in economia che in politica) e la legittimazione sociale, senza la quale l'insieme è disarmonico e zoppicante.

Le cose sono piu' complesse ma in poche righe non è il caso di aggiungere altro.
Posso eventualmente riassumere riportando uno schema trovato su un libro anni fa
Immagine

Se questi scambi sono armonici e ben equilibrati (e succede se nessuno ha l'idea di prevalere sugli altri) allora la società va bene, produce ricchezza, cultura, in modo equo e ben distribuito.

Ciao,
Franz
Ultima modifica di franz il 12/10/2008, 12:10, modificato 3 volte in totale.
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Re: Dove sono?

Messaggioda gabriele il 12/10/2008, 12:04

In questo momento storico risponderei prima: chi regola la politica?

E' la politica che introduce le regole e se queste regole vengono continuamente usate per sfalsare il mercato, cioè per interagire con esso a vantaggio di pochi allora è evidente che il problema che stiamo vivendo si ripresenterà a breve.

Gli enti pubblici devono intervenire il meno possibile sul il mercato, tanto più in Italia dove le mafie, attraverso la politica e l'imprenditoria, cercano di influenzarlo a loro favore.
Più il mercato è influenzato dallo Stato, maggiore è la probabilità che si formino dei monopoli. Dannosi perché per loro natura immobili, stagnanti e quindi in antitesi al progresso.

Regole "giuste" cosa significa se non questo?

Tutti i governanti sapevano cosa stava succedendo. Eppure nessuno è intervenuto. Troppi "amici" (o affari) da difendere, molto probabilmente. Ecco che la mela che doveva cadere per sua natura, perché marcia e poco competitiva, non è caduta dall'albero.

Oggi si cerca di difendere i privilegi e gli errori del passato. Disperatamente. Inutilmente. Ora tutti sanno e ci sarà la crisi.

Cosa fare? Detassare gli stipendi e le tasse per le piccole e medie imprese. Non c'è via di scampo se non salvare la forza produttiva dell'Europa. E la cosa va fatta in fretta. Non siamo come nella crisi di fine anni 80. Ora abbiamo alle porte competitori accaniti come Cina ed India.

Gabrive

franz ha scritto:
gabriele ha scritto:Non lo siamo no ed è per questo che occorrono delle regole...e anche chi le fa rispettare.

Gabrive

Cero che occorrono ma non credo che il problema sia questo.
Il problema è quali e come farle rispettare.
Le regole possono essere poche, efficaci e giuste o tante, inefficaci ed ingiuste.
Concettualmente le regole che possiamo concepire sono milioni.
Quelle che funzionano poche decine o centinaia.
Mi pare che alcuni sostengano che il disatro sia stato provocato da regole eliminate (deregulation) ed altri invece che le regole ci sono ma non sono state fatte rispettare (mancanza di controlli).
Non conosco i meccanismi in modo approfondito per cui non so chi tra le due campanee abbia ragione.

So pero' che troppe regole sbagliate possono fare male al mercato (e quindi a tuttti noi) molto di piu' che la mancanza di regole o di controlli.

Un motore funziona se è ben regolato. Una massa di bielle epistono non prodice spontaneamente energia ma funziona soli se p messo in un determinato modo, assetto.

Ma se è mal regolato il motore si ferma, si ingolfa.

Quindi il problema non è regolare ma regolare bene.

Il problema ulteriore è che io un motore lo faccio volentieri regolare da un meccanico in gamba (o da un pool di meccanici ed ingeneri), non da un avvocato, un chirurgo, un falegname, un calciatore, una infermiera ed un ciclista.

Non trovi?

Fuori di metafora, chi regola il mercato?

Franz
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Re: Dove sono? (breve storia del mondo)

Messaggioda annalu il 12/10/2008, 13:03

franz ha scritto:Cara Annalu, non ho fatto un discorso di evoluzione in senso genetico ma l'ho posto in senso evoluzione culturale (socioeconomica), delle relazioni economiche tra gli uomini a seconda del tipo di cultura (cacciatori, agricoltori, industria etc).
Come tale esso è un dato di fatto da cui partire e che la politica non puo' ignorare.
L'ambito politco è differente ma non puo' certo dire che l'assetto socioeconomico che si è costituito con il tempo non porta ricchezza.
E' necessario (e corretto) ogni tanto vedere la prospettiva storica, nella sua dinamica, perché se noi osserviamo delle foto ferme, potremmo anche prendere abbagli.

Prima di tutto, da dove hai ricavato l’impressione che io parlassi di evoluzione genetica? Forse dal fatto che ho citato l’organizzazione gerarchica degli umani primitivi a quella di altri animali, come se l’evoluzione culturale riguardasse solo gli umani? Se così fosse, gran parte dell’etologia sarebbe da buttare.

Ora, che l’evoluzione socioeconomica (e culturale) porti ricchezza, non c’è dubbio.
Ma qui ha ragione Piero: il confronto tra ricchi e poveri non può venir fatto tra ricchi di oggi e poveri di ieri, ma tra ricchi e poveri che vivono fianco a fianco nello stesso periodo storico, e godono in modo molto diverso della ricchezza che l’umanità nel suo complesso ha prodotto.

franz ha scritto:Ok per quello che "sembra" ma per fortuna esistono anche misurazioni oggettive e non sono basate solo sul PIL.
Sono basate sulla diffusione della educazione e sulla qualità della salute, oltre al discorso del reddito.
Esiste per questo un indicatore ONU, non basato solo sullo sterile PIL.
E le misurazioni oggettive dicono che il divario è fortemente diminuito, proprio negli ultimi due decenni, grazie al fatto che paesi immensi e popolosi come Cina, India e Brasile e Russia sono entrati in modo dirompente nell'economia mondiale.
Questi 4 paesi (in sigla BRIC) rappresentano il 40% della popolazione mondiale e si aggiungono in modo rapido al 20% già benestante.

Qui la colpa è mia, non mi sono spiegata bene.
A livello mondiale, il divario tra paesi ricchi e paesi poveri è di certo diminuito, ne sono prova tra l’altro le stesse migrazioni dai paesi più poveri del mondo verso l’Europa ricca: quando la povertà è al di sotto di una certa soglia, i poveri nemmeno conoscono la possibilità di una vita diversa. Quando la loro condizione di povertà comincia a migliorare, diminuisce il loro isolamento sociale e culturale, e “scoprono” l’esistenza dei ricchi. Per assurdo, il primo effetto di una diminuzione del livello di povertà è la scoperta del divario tra ricchi e poveri, e se la situazione non viene affrontata con serietà, è questo il punto dove nascono i grandi conflitti.

Quando parlavo di aumento del divario tra ricchi e poveri, mi riferivo invece al divario presente all’interno dei singoli paesi. E quello è aumentato senza dubbio, praticamente in tutto l’occidente, e non solo.
Il problema che i veri ricchi, che sono in genere anche potenti, invece di preoccuparsi di una migliore distribuzione della ricchezza, hanno approfittato dell’arrivo sulla scena di lavoratori provenienti dai paesi poveri per metterli in concorrenza coi lavoratori autoctoni e levare a tutti molti diritti che i lavoratori locali avevano ottenuto nel tempo. Questo per aumentare la LORO personale ricchezza, ammantandola da necessità del mercato globale.

franz ha scritto:Qui va detto che appaiono autoassolutorie certe affermazioni (non tue, annalu, ma qui presenti) che indicano che in questo discorso il paragone con il comunismo non c'entra o che tirare fuori l'argomento sia pretestuoso. Perché in realtà è con la caduta del muro nel 1989 e con la fine del comunismo in economia che paesi ex-comunisti iniziano finalmente un percorso di prosperità (con le conseguenti disparità rispetto alla povertà uniforme) e quindi la crescita mondiale di questi due decenni è dovuta al fatto che è caduto un modello che era fallimentare ed affamatorio per buona parte del pianeta.

E qui, anche se non sono stata tirata in ballo personalmente, mi permetto di essere in disaccordo con te.
E’ vero che i paesi del “socialismo reale” hanno potuto avere una grande crescita economica solo in seguito al crollo muro di Berlino, ma non si può cancellare il socialismo semplicemente perché i regimi comunisti erano dittature crudeli.
Il socialismo, il marxismo, sono le teorie che hanno permesso ai lavoratori europei di guadagnarsi condizioni sociali ed economiche più giuste. L’esempio migliore è rappresentato dalle socialdemocrazie europee, ma tutta l’Europa ne ha ricevuto vantaggi: sanità e scuola accessibili a tutti, gli ammortizzatori sociali … o pensi che queste non siano conquiste, ma gentili concessioni dovute alla generosità dei più ricchi?
Che siano state conquiste guadagnate a caro prezzo, è dimostrato da ciò che sta accadendo ora, anche qui in Italia: il continuo arretramento della posizione socioeconomica delle classi più povere, la diminuzione delle garanzie e la competizione selvaggia. Non per niente Berlusconi taccia di “comunismo” chiunque non la pensi come lui e chieda una politica di maggiore equità sociale.

E’ come se ora della Rivoluzione Francese ricordassimo solo il periodo del Terrore, ed auspicassimo la restaurazione, perché i moderni stati borghesi sono frutto di una rivoluzione sanguinaria.

Ovvio che non possiamo in alcun modo augurarci la nascita di nuove ideologie utopiche che potrebbero solo portare nuovi lutti, ma una dialettica tra le varie classi (?!) o come vuoi chiamare le diverse condizioni socioeconomiche, deve esserci, e deve contribuire a far crescere il livello di vita dei ceti più umili, perché da questo si giudica la civiltà di un popolo.

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