da pierodm il 18/01/2011, 14:19
Cara Manuela, non posso fare a meno di precisarlo: quella che stiamo mettendo in piedi è una polemica che vale la pena di fare, se non altro perché anche da parte tua c'è la voglia e la capacità di entrare nel merito e di prendersi la responsabilità di citare cose, idee e riferimenti intellettuali. Tutte cose che sono assai più importanti che non l'essere d'accordo o in disaccordo, almeno in una conversazione.
Prima di entrare, però, nei dettagli devo riferire ciò che pensavo ieri sera, ascoltando la prima parte dell'Infedele (poi ero stanco e non so come sia proseguita la trasmissione): vista con gli occhi di Manuela, e di un paio d'altri di questo forum - pensavo - questo studio risulterebbe una specie di accolita di "rivoluzionari", di bolscevichi, di ottusi massimalisti, velleitari, infantili, etc etc etc ... fatta eccezione naturalmente per De Benedetti, che è di sicuro esente dal retaggio del '900, essendo un giovane virgulto portatore di idee fresche e modernissime.
Importa qualcosa che questa sia la scheda professionale di Mucchetti? - Laurea in filosofia all'Università Statale di Milano, giornalista professionista dal 1981, ha iniziato l'attività giornalistica professionale sul quotidiano Bresciaoggi, una cooperativa della quale è stato uno degli amministratori. Poi a “Mondo economico”, settimanale de il Sole 24 Ore. Dal 1986 al 2004 ha lavorato all'Espresso dov’è stato vicedirettore. Attualmente è vicedirettore ad personam del Corriere della Sera.
E' possibile liquidare con la stessa faciloneria, che viene usata con me con altri in questo forum, la figura, l'opera, la competenza di Revelli, del quale citiamo qualcosa a titolo esemplificativo - Figlio del partigiano-scrittore Nuto Revelli, è titolare delle cattedre di Scienza della politica, Sistemi Politici e Amministrativi Comparati e Teorie dell'Amministrazione e Politiche Pubbliche presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento - Poveri, noi di Marco Revelli, Einaudi editore: L'Italia non è come ce la raccontano: abbiamo creduto di crescere e stiamo declinando, la nostra presunta «modernizzazione» è un piano inclinato verso la fragilità e l'arretratezza. E nello spazio sempre piú ampio che si apre tra presunto benessere e fatica quotidiana del vivere crescono l'invidia, i rancori, le intolleranze - Nel clima di crisi globale, anche in Italia stanno venendo alla ribalta questioni come l'impoverimento del ceto medio e le disuguaglianze crescenti, e tuttavia il racconto prevalente continua a rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro Paese, sia dal punto di vista economico che sociale. Marco Revelli ha un'opinione diversa. Utilizzando le statistiche ma anche le storie di cronaca, raccontando la difficile realtà dell'economia e della povertà ma anche le emozioni che corrono sotto la superficie visibile sui mass media, in questo libro Revelli ci mostra un'Italia terribilmente fragile, in cui molti, caduta la speranza di migliorare le proprie condizioni, cercano un effimero risarcimento a danno degli ultimi, spingendoli sempre piú giú, sempre piú ai margini. Un Paese in cui i fondamenti della convivenza civile e forse della stessa democrazia sono erosi dalle disuguaglianze e dal modo in cui la politica, invece di attenuarle, cavalca i risentimenti e il rancore da esse generati.
Capisco che la mia citazione di due scrittori o, peggio, intellettuali suoni come una specie di provocazione, forse peggiore della citazione degli operai della Fiat: sempre meglio, però, della modernità della Santanchè. Io credo.
Ma veniamo umilmente a noi.
per non sapere di cosa parlo quando parlo di culture novecentesche e cosa c'entra il muro di Berlino
Cosa c'entra il Muro con la storia del '900 è chiaro a tutti. Quello che volevo sapere è cosa c'entra con quello che dicevo io.
In modo meno stringente, volevo capire quali parti, quali concetti, quali culture del '900 sarebbero da considerare una viscida zavorra dalla quale liberarsi ad ogni costo.
In forma ancora più generale vorrei sapere quali siano le culture MY2011 - Model Year 2011 - tanto per stare in tema automobilistico d'attualità.
il problema dell'incapacità della classe dirigente non riguardi solo la sinistra, è vero, ma a me interessa quella.
Sbagliato, sul piano teorico: la classe dirigente di una nazione non è classificabile secondo partiti, ma è un dimensione sociologica e storica "pre-politica". Quella di ciascun partito è semmai una nomenklatura, o una serie di dirigenti, che possono provenire da una classe sociale dirigente, o da classi subordinate in ascesa.
Sul piano pratico, è assolutamente lecito interessarsi ad una specifica nomenklatura, se lo scopo è analizzare quel partito.
Se lo scopo è di ricercare le cause di una condizione sociale, di una serie di fenomeni nazionali, etc, bisognerebbe innanzi tutto rivolgere la proipria attenzione alle forze/partiti prevalenti nel governo della nazione.
In subordine, è certamente possibile analizzare il rapporto tra le forze prevalenti nel governo e quelle di altri partiti (nel caso, la sinistra), ma risulterebbe stravagante separare i diversi protagonisti della storia.
Se hai esplicitato maggiormente in altri interventi, mi è sfuggito, e ti prego di rendermene edotta. Ma se non mi sbaglio, allora è proprio questo quel "corpus teorico" cui mi riferivo, quell'"a priori" cui l'azione politica dovrebbe conformarsi per guadagnare la patente di "sinistra"
Sono, credo, quindici anni che scrivo sulle varie versioni di questo sito (ML, forum) e ho esplicitato in abbondanza.
Ma non serve andare tanto lontano o in profondità.
Tu ponevi il problema di cosa sia una sinistra "moderna", e io mi sono preso la briga di dire un paio di cose: se pure avessi solo parlato della pettinatura dei dirigenti, o dei colori "moderni" da adottare nel logo del partito, avresti potuto ugualmente lamentarti che avevo un'idea "a priori" su cosa sia la modernità - cosa della quale anche io, volendo, potrei "accusare" te, se volessi usare lo stesso criterio.
D'altra parte credo che la gran parte delle nostre idee - le mie, almeno - sono in qualche modo "a priori", rispetto a quello che mi verrà chiesto fra due ore, o due settimane: non è che devo aspettare che Manuela mi chieda cosa intendo per sinistra per farmi venire in mente qualcosa in tutta fretta.
Questo per quanto riguarda il metodo.
Nel merito. Sempre ieri sera, ho sentito tre ospiti diversi (uno era il noto bolscevico don Ciotti) enunciare in momenti diversi lo stesso concetto: "avere coscienza di quale società vogliamo". Io, anche io, questo ho detto, esemplificando qualcheargomento sul quale si articola questa altrimenti fantomatica "società".
Quanto alle "patenti", cara Manuela, lascerei stare questi termini: ogni giudizio, ogni ragionamento sarebbe una questione di "patenti", compreso quello sui tuoi criteri di "laicità", oltre che quelli di "modernità".
In una cosa hai proprio ragione: il pragmatismo è un retaggio settecentesco, di quel Settecento che all'Italia è tanto mancato, e cavolo se ne paghiamo le conseguenze!
Se per Settecento intendo l'Illuminismo, commetti un grosso errore.
l'Italia fu nel '700 uno dei luoghi dove furono più attive le idee illuministiche, dopo la Francia, sia a Milano con Verri e Beccaria, sia a Napoli, che era ancora una delle città più "internazionali" e cosmpolite italiane.
Le ragioni dell'italietta vanno cercate altrove, così come vanno indagate in altro modo le forze che hanno soffocato e annichilito la cultura illuministica italiana.
La FIOM ha messo sul tavolo quelli che ha chiamato "diritti indisponibili", usando lo stesso termine della Binetti sul testamento biologico.
Nel porre la mia domanda non mi riferivo specificatamente alle vicende più recenti, ma alla storia stessa del sindacalismo italiano. Ma vale anche per la posizione attuale della FIOM, naturalmente.
Se parliamo di diritti non contrattabili, o indisponibili, le stesse carte costituzionali di ogni paese democratico ne sono costituite, senza che ciò le faccia somigliare al clericalismo della Binetti o le faccia essere meno "laiche".
La Binetti e i claricali, quando decretano l'indisponibilità di qualcosa, "legiferano" sulla pelle e sulla vita di altre persone, condizionandone la libertà di scelta e di comportamento.
Il sindacato parla in nome degli interessi e delle scelte dei suoi iscritti, e svolge semplicemente il proprio ruolo - la propria miscion, direbbe qualcuno.
Se proprio volessimo fare un parallelo, siamo noi qui che facciamo "i binetti", quando vogliamo votare SI' o NO su condizioni e interessi che non sono esattamente i nostri diretti - fare i froci con il culo degli altri, si usa dire a Roma.
Si. assolutamente (le clausole di salvaguardia, per esempio, non sono state considerate "diritti indisponbili"). O forse di cosa, dei buoni capitalisti tedeschi?
Non sono un economista, ma non porto nemmeno la sveglia al collo: qualcosa mi dice che la struttura dell'economia tedesca sia diversa da quella italiana, e che un raffronto dovrebbe essere effettuato su moltissimi fattori diversi.
Probabilmente la questione sindacale sta agli ultimi posti.
Chiedi retoricamente: chi ha parlato qui di rivoluzione?
Non era una domanda retorica, ma desideravo esattamente sapere chi ne aveva parlato, visto che tutto il tuo commento era basato sulla contrapposizione tra riformismo e rivoluzione.
Tu mi dici adesso che si trattava di una "deduzione" dal concetto di lotta di classe.
Io ho accennato a questo concetto solo in risposta a chi - non ricordo dove e se eri tu stessa a farlo - ne reclamava l'obsolescenza: una tale obsolescenza si baserebbe, per quel che mi risulta, dal fatto che non esistono più le "classi", e solo in subordine dal fatto che non è opportuna la "lotta".
Io non credo che la divisione sociologica e politica della società in classi sia scomparsa, sostituita dalle "categorie" variamente individuate: in ogni caso, classi o categorie che siano, la conflittualità e, spesso, la contrapposizione degli interessi è evidente.
Ripescare l'apologo di Menenio Agrippa dopo venti secoli non mi sembra esattamente una prova di "modernità".
Né mi sembra un concetto da inserire tra i fondamenti di un moderno "liberalismo".
Credo piuttosto che Agrippa sarebbe un perfetto esempio - in era moderna, ma lo fu già allora - di demagogo che s'inventa un abile espediente dialettico per fregare la gente ad uso e consumo degl'interessi oligarchici.
Ma mettiamo un punto e virgola a questa seconda puntata: è ora di pranzo.