da pierodm il 13/12/2008, 23:14
Cara Annalu, qui chi si è davvero incartato è Franz, preso dal suo desiderio - sistematico, direi - di portare la torcia della Ragione nelle caverne oscure in cui brancolano i selvaggi, alle prese con losche pitture rupestri e pentole ribollenti di code di lucertole.
Seguendo questa vocazione di tedoforo, Franz non si accorge, per esempio, che dà ragione a Pino, il quale però dice esattamente l'opposto di quello che Franz intende fargli dire.
"Così nell'ambito della stessa società può essere immorale l'omicidio e morale la guerra e perfino il saccheggio, la riduzione in schiavitù e gli spettacoli dei gladiatori. Comportamenti questi che possono essere utili alla collettività, coincidere con il bene comune, ove non sia riconosciuto e accettato il valore della "dignità umana" indipendentemente dalla cittadinanza." - afferma Pino
Dignità umana espressamente posta a fondamento della Dichiarazione del '48, richiamata da Franz.
Ma c'è una frase di Annalu che ha una simmetrica corrispondenza con un'altra di Pino, sulle quali è necessario soffermarsi.
"Quindi in politica è"morale" ogni comportamento in cui chi agisce lo fa pensando all'interesse della collettività, anche a scapito dei propri interessi personali e di gruppo." - Annalu
"Ma conosciamo grandi civiltà del passato in cui questo accadeva " - Pino
Nelle grandi, o meno grandi, civiltà del passato, violenza, sterminio e prevaricazione erano tollerati, praticati e ammessi secondo un concezione cinica e - diremmo modernamente - machievellica, ma nient'affatto considerati "morali", o desiderabili, o semplicemente degni di approvazione: antichi sì, ma per niente coglioni, se così possiamo dire.
Una minima conoscenza delle letterature antiche - unita ovviamente alla voglia di concedere loro un certo credito - ci dà una larga conferma della sanità mentale di queste "civiltà" - da Seneca ad Orazio, da Tacito a Marco Aurelio, risalendo perfino ai poemi omerici: era assai chiara a tutti la differenza tra un generale utile alla res publica, e un uomo generoso e degno di ammirazione personale, e quella tra una vittoria militare ottenuta con lealtà e con decoro, e una accompagnata da stragi e crudeltà gratuite.
Questo, tra l'altro, ci aiuta a mettere in modo assai diverso la questione della "religiosità" della morale, sollevata da Franz in modo piuttosto curioso.
Oggi - dopo una massaggio mentale di venti secoli - tendiamo a confondore la religiosità con la religione cristiana, in particolare cattolica.
Ma nei venti secoli precedenti sono esistite religiosità - tra le quali quella greco-romana - che non dettavano comportamenti, ma si limitavano tutt'al più a metterli in relazione con una generica pietas, con il senso della "rettitudine" e con il rispetto della sacralità del mondo, della vita e della comune appartenenza al genere umano, ad una civitas, ad un corpo sociale.
Nel mondo omerico, per esempio, non sono gli dei - che oggi identificheremmo come titolari della "religione" - a giudicare e dirigere gli uomini tramite dettami morali, ma sono gli uomini che sistemano e muovono le divinità, e ne fissano le caratteristiche e ne classificano i comportamenti, secondo riferimenti estetici e morali che nascono da un'esperienza e una condizione assolutamente "laica".
In civiltà tribali, o comunque più ataviche, la religione era niente di più di un mezzo per inculcare per vie brevi alcuni principi di vita e di comportamento che l'esperienza aveva elaborato come utili alla vita comune, e al mantenimento del sistema sociale - a cominciare dalla sacralità del capo, del re, del "faraone" di turno.
Si tratta di società nelle quali la distinzione tra pubblico e privato è assai limitata, o inesistente, e dunque è difficile distinguere l'utilità sociale dalla moralità come valore individuale.
Il problema comincia seriamente con la società romana, e successivamente con la religione cristiana che si sovrappone all'ordinamento imperiale.
Si verifica allora la divaricazione tra morale cristiana - ossia una serie di "leggi" date da un'autorità diversa da quella dello stato - e morale laica, diretta discendente della morale precedente all'avvento della Chiesa, che aveva radici filosofiche o pragmatiche, e che si esprimeva attraverso il mos e lo jus, ossia i costumi e le leggi.
Una questione di potere, soatanzialmente, nella quale ciò che distingueva la "morale religiosa" non era tanto il suo contenuto, ma il fatto che pretendeva di discendere da un volere divino e dunque superiore - manifestato ovviamente tramite i buoni uffici della Chiesa e dei suoi operatori.
Del resto, è connaturato alle religioni monoteiste il concetto che non possano esistere diarchie, e di conseguenza differenti visioni del mondo e diverse "moralità": questa rigidezza monocratica, però, si trasforma - come sempre, in tutte le concezioni autoritarie - in una larga concessione all'esistenza di diversi "piani" o livelli di moralità.
Cioè, la morale è unica, ma non vale sempre, non vale per tutti, e dipende dalle circostanze.
In termini ancora diversi: la morale è unica, vista dal potere di vertice che la usa come instrumentum regni, ma è doppia o tripla o quadrupla, se vista da uno dei livelli più bassi.
La nostra discussione, in definitiva, verte esattamente sul punto di rottura, di divaricazione nel quale si moltiplicano le diverse "morali", non sul fatto (ovvio) che esistano, né sul loro divenire nel tempo (fatto altrettanto ovvio).
La nostra discussione verte sul fatto che ciascuna di queste morali serva a ordinare e reggere un sistema o sotto-sistema, fornendo ad alcuni comportamenti una legittimazione "superiore", a costo di porsi in stridente contraddizione con gli altri livelli della morale, o con la morale applicata ad altri soggetti che fanno parte dello stesso corpo sociale.
Perché il punto è proprio questo: lo stesso corpo sociale. Se non si tiene conto di questo, non si capisce di che cosa stiamo parlando.
Quando Franz si addanna l'anima per convincerci che tutte queste sarebbero chiacchiere, perché è necessario che ogni bella cosa si trasformi in leggi e organizzazione politica, sfonda una porta aperta: chi ha mai detto il contrario, anzi chi ha mai posto la questione in modo da far pensare che non fosse convinto di questa ovvia verità?
Così come corretta, ma fuori tema, appare la notazione che riguarda la Dichiarazione del 48: non è un'Enciclica papale, né un documento che emana da un Concilio, ma un documento politico che ipotizza comportamenti politici, ispirati ad un'etica che - se pure avesse tra le sue radici ideologiche un insieme di provenienze religiose - è oggettivamente laica, proprio in quanto ascrive una serie di valori nella categoria dei "diritti" invece che tra le "virtù", perché solo i diritti possono essere oggetto della politica, e non le virtù.
Ma rimane francamente difficile considerare la dignità umana come un diritto, scisso da ogni valore morale, e come valore che possa sussistere isolatamnete, al di fuori di un contesto organico di valori ad esso omogenei - o, secondo quanto si diceva prima, in un contesto di doppia o tripla morale.
PS
Insisto nel dire che la nomina dei presidenti delle ASL può essere classificata in tutti le categorie più nefande, ma poco c'entra con la "morale", se non vogliamo fare tutto un pastone indistinto.